le lettere
Cari camerati (ancorché di sinistra), vi seguo
con affetto, interesse ed anche un po' di preoccupazione. Preoccupazione perché
il mio senso pratico, per quanto modesto, mi segnala che a volte a forza di
spostamenti, aggiustamenti e di «aperture» si rischia di perdere l'equilibrio e
di cadere nelle braccia «affettuose» dell'avversario. L'ho visto accadere in
molte occasioni a tanti amici irrequieti ed in continuo divenire che sentendo
molta puzza nel castello passavano con i barbari assedianti (con i quali, del
resto se la sarebbero poi passata molto meglio). Non è certo questo il vostro
caso, ma ritengo comunque utile mettere il puntino su qualche «i».
Per carattere ed anche per impostazione culturale sono personalmente aperto ad
ogni discussione: neppure al diavolo con tanto di cornini e di pizzetto negherei
la possibilità di parlare e potrei nutrire sincera curiosità anche per le sue
eterodosse tesi. Non a caso seguo da molti anni l'interessante fenomeno
intellettuale della "Nuova Destra", quella vera di Tarchi e De Benoist, che non
solo ha allargato enormemente i miei orizzonti politico-culturali ma mi ha
insegnato uno spirito di tolleranza e di dialogo sostanziale e produttivo. Ma,
detto questo, per trovare la mia via maestra devo sempre rispondere a quelle che
sono le profonde esigenze delle mie «fibre», alle esigenze ideali di quel quid
di misterioso che mi stimola verso mète, anche se per la maggioranza degli
esseri umani irrilevanti e persino negative, per me assolutamente
irrinunciabili.
Vi siete assunti un compito abbastanza delicato ed impegnativo: vi definite
fascisti, con tutta la complessità d'un aggettivo così difficilmente definibile,
di rottura e «compromettente» ma che non vi soddisfa del tutto e che arricchite
con un bel «di sinistra». Ammiro a questo punto anche il vostro coraggio ma
vorrei -sicuramente insieme a molti altri lettori- avere le idee un po' più
chiare su cosa voglia dire per voi, nel 1995, essere fascisti di sinistra. Non
credo certo voglia dire fascisti poveri, fascisti innamorati dei muscolosi
toraci da metalmeccanico o tantomeno imitatori della estesissima palude
catto-comunista che confonde San Francesco con Gramsci o la «Charitas» con
l'«Arci-Gay».
Penso che per voi, come per me del resto, sentirsi fascisti di sinistra voglia
soprattutto dire che vorremmo superare il valore che l'economia ha assunto nel
mondo d'oggi, che vorremmo che il denaro, l'oro, l'usura, la mercificazione ed
il profitto rientrassero all'interno di argini tollerabili e che non
soffocassero col loro peso e la loro «agilità» operativa valori indispensabili
per la civiltà umana quali ad esempio la virtù, il pudore, la bellezza, il
coraggio, la verità, l'onore, la lealtà.
Ma è appunto qui che stento a seguirvi soprattutto con riferimento alle risposte
che avete dato sul n° 3 del 15.6.1995 alle lettere dei lettori Furio Bassanelli
e A. Federighi dove citate un «ormai superato anticomunismo viscerale» e non
indicate dei chiari punti d'ancoraggio indispensabili in un nostro protenderci
verso aree a noi ostili e magari, in alcuni casi, visceralmente ostili. Qui non
si tratta tanto di odiare il comunismo in quanto iconografia, rituale, aspetti
esteriori; abbiamo tutti visto il suo crollo vergognoso (altro che bunker di
Hitler ed ultime ore di Budapest!), tutti abbiamo visto i suoi simboli più cari
trascinati nel fango e nello stereo senza che uno solo dei componenti di questo
sterminato esercito di «militanti», che il comunismo in ben 70 anni di orrori ha
forgiato, sentisse il dovere di prendere le armi per difendere la propria
coerenza e la propria religione. È un fatto di tale portata e significato
sufficiente da solo a seppellire per l'eternità quella strapaludata e falsa
ideologia. Se penso, di rimando, che a pochi metri da casa mia nel 1945 un
povero giovinetto delle Fiamme Bianche, aveva 15 anni, si fece massacrare per
non rinnegare il suo Duce, per citare un solo domestico esempio, per quella
liturgia marxista non provo odio ma solo disprezzo e schifo.
Ma se l'odio ci deve essere (lo vorrei sapere anche da voi) -naturalmente parlo
di «odio» intellettuale e non certo di violenza fisica o di intolleranza manesca
(lasciamo queste cavoiate a Bossi ed ai leoncavallini)- deve essere portato
contro quei disvalori che formano l'animus del comunista e che oggi sono ancora
coltivati e continuamente sbandierati dalla «cultura» ufficiale che,
incardinatasi in 30 anni di consociativismo e di stretta alleanza con la Chiesa
ed il Capitalismo affaristico, determina tutt'ora gli indirizzi
politico-culturali del paese (Gramsci docet).
Perché oggi essere di sinistra non vuol dire amare l'operaio e volerlo
indirizzare verso mète di elevazione morale e materiale, non vuol dire odiare il
pescecane o l'usuraio che sfrutta le sue vittime, non vuol neppure dire
rinunciare agli aspetti più bassi del consumismo e della massificazione. Oggi,
viceversa, essere di sinistra, magari col doppiopetto liberista e con la
passionaccia infantile per l'America «democratica», vuoi piuttosto dire operare
per il pacifismo utopistico ed autolesionista, invocare la più assoluta
deregulation morale, stimolare le masse verso obiettivi sempre più bassi e
snaturanti (consumismo, divertimento alienante e sfrenato), propugnare un
egualitarismo falso ed innaturale che porti tutti (gli altri) al livello più
basso possibile, incoraggiare il permissivismo nella giustizia e nella scuola,
fare gli snob nei quartieri alti (possibilmente a spese dell'INPS) ma
«soffrendo» sempre per i poveri e gli emarginati degli orribili quartieri
periferici costruiti dalle sinistre.
Certamente non dobbiamo più temere gli stivali dei cosacchi, ma siamo ben più
pesantemente oppressi da tanti bei sandali di impegnatissimi fraticelli e da
troppe Timberland costosissime, calzate con naturalezza da tanti
«intellettuali», tutti ferreamente a libro paga, tutti ben collocati nella «squola»,
nelle università, nelle case editrici, nei ministeri. Sarà ben duro risistemare
le cose. Anche se una delle poche cose buone che io vorrei «importassimo» da
quelli di sinistra è il loro spirito comunitario (di casta) e la loro efficienza
organizzativa che, insieme al loro «carattere» -nonostante che la Storia
periodicamente si diverta a stroncarli- hanno creato una forza associativa
ancora oggi davvero rilevante.
Invece, bisogna dirlo, da questa nostra parte siamo bravi a produrre qualche
ducetto, tanti bei generali e di fantaccini, di quadrati sergenti c'è davvero
poca traccia. Siamo -a parole- per la Gerarchla, per il «a ciascuno il suo», ma
poi, nei fatti, è quasi impossibile che le posizioni non prestigiose e di fatica
trovino pretendenti e che si sviluppi quel concreto e produttivo spirito di
corpo di cui la nostra liturgia tanto spesso si nutre.
Ma, detto questo, non possiamo certo fermarci.
Bisognerebbe, al limite, ricominciare per l'ennesima volta con i vostri preziosi
tre lettori che sono pur sempre una prova che le radici sono vive e sane.
Proprio ieri un «ragazzo» classe 1928, che a soli 17 anni, indossata fino
all'ultimo la divisa della RSI costretto a fuggire con la madre dall'Italia,
ritornato dopo tanti anni, mi diceva: «Ho avuto tanto dall'Idea che, prima di
morire, vorrei ricambiare in un qualche modo tutto il bene e le cure che da
figlio del popolo allora ho ricevuto».
Tutto questo potrà sembrare falso, retorico e melodrammatico. Ma io, che conosco
bene la storia di Giorgio I. e le vicende del rimpianto Col. Fiori dell'ONB di
Genova che fu il suo «tutore» e maestro, non temo alcunché. Anche per questi
esempi -un caro lettore di "Tabularasa" ci ricorda quella meravigliosa lettera
da Stalingrado- non possiamo perderci d'animo. Del resto abbiamo motivo di
credere che Apollo, Minerva e la dea Roma ci sorridono ancora. Col crollo del
muro di Berlino la Storia ha ripreso a fluire. I miracoli -quelli veri- si
possono ripetere e le Porte di Brandenburgo con la sua Vittoria alata ne è una
possente testimonianza.
Cosa gli dei riservino al mondo non ci deve preoccupare.
Saluto romanamente.
Lino Cavanna
L'amico Cavanna pone domande alle quali,
subitamente, da tutte le risposte. Che condividiamo. Nulla da aggiungere. Solo
al suo preambolo dobbiamo una precisazione: non siamo affatto assediati nel
castello, bensì liberi, ben fermi sulle nostre posizioni ideali. Forse siamo
irrequieti, ma di razionalismo ci basta quel minimo necessario per farci
ragionare. Che dobbiamo arrivare fino in fondo, fino alle estreme conseguenze
che, i mezzi termini non ci sono mai piaciuti. Siamo nemici della classica
«combinazione» -che vede nel compromesso un espediente pratico- perché esso
spoglia gli uomini di ogni valore ideale. Sappiamo, anche, che a codesta
«combinazione» gli italiani sono psicologicamente e affettivamente inclini.
Ecco, noi, con l'aiuto di quei nostri «preziosi tre lettori», vogliamo mandarla
all'aria. A costo di essere considerati anacronistici, pazzi fautori di una
«nuova dottrina» in una società dove pare perduto, per sempre, il senso della
comunità e della morale. E in chi, caro Cavanna, puoi risvegliare questi
sentimenti? Tra i sedicenti intellettuali forse? Oppure credi che esistano
mecenati disinteressati, desiderosi di circondarsi di uomini cui dare
l'opportunità di pensare, di sceverare, di discernere per il bene comune? I
cosiddetti intellettuali (gazzettieri per lo più) sono sul libro paga dei
possessori dei media. Un tanto ad articolo, un tanto ad intervento «polemico».
Solo chi soffre possiede ancora i doni della dignità, dell'orgoglio, dell'onore.
Chi soffre, oltre che essere in grado di vedere le sofferenze altrui, vede anche
la spropositata ricchezza di chi ha fatto decadere la proprietà da mezzo a fine,
facendole assumere un significato meramente economico.
Fascisti di sinistra? Fascisti poveri? Fascisti innamorati dei muscolosi toraci
da metalmeccanici? Bischerate, caro Cavanna. Siamo uomini alla cerca di altri
uomini che abbiano la nostra stessa smania: vedere il profitto rientrare non in
argini «tollerabili» come tu scrivi, ma negli argini.
a.
c.
Caro Carli,
ho letto la tua risposta alla mia lettera; temo di essere stato frainteso, e me
ne dispiace. Francamente non credo di essere affetto da anticomunismo viscerale,
anzi! Ripeto che molti dei miei migliori amici sono comunisti -loro sì
antifascisti viscerali!- e, ciononostante, li stimo e li amo. Purtroppo debbo
ribadire che, pur garbati e simpatici, non si differenziano dagli altri
«democratici»: come questi ultimi sono chiusi, succubi della propaganda
demo-capital-comunista e non riescono (né ci provano, certi come sono delle loro
verità) ad uscirne, ad allargare il loro orizzonte culturale, a capire le
ragioni dell'«altro».
L'unica cosa che ci unisce è l'anticapitalismo, di cui, tuttavia, secondo la più
trita e stucchevole storiografìa comunista, essi vedono fedele alleato il
Fascismo, che interviene, in Italia come in Germania, non appena il
«proletariato» rischia di prendere il potere, hai voglia a chiedere come mai,
allora, le patrie del capitalismo, Stati Uniti e Gran Bretagna, si allearono
contro Fascismo e Nazionalsocialismo, anziché con; e come mai nel settembre 1939
Gran Bretagna e Francia, garanti della Polonia, dichiarano guerra all'invasore
tedesco ma non a quello sovietico (allora, per di più, alleato del tedesco): non
ti rispondono, oppure farfugliano qualcosa e cambiano discorso, resta comunque
il fatto che il vero nemico del proletariato sembra essere ancora non (o non
più) il capitalismo (che continua ancor oggi a macinare proletari), ma solo il
Fascismo (che da oltre cinquantanni non c'è più).
E giù addosso alla «cultura assassina di destra» (su cui siamo perfettamente
d'accordo), cioè «fascista» (su cui non lo sono neanche un po'), che «sempre e
ovunque ha messo le bombe contro i proletari, la sinistra e i sindacati», come
se i servizi segreti non fossero stati controllati dalla DC, d'amore e d'accordo
con tutti gli altri «democratici», suoi alleati e non.
Al di là di tutto ciò, il mio pessimismo nel poter trovare alleati nella
sinistra italiana è dovuto a delusione, non a preconcetti: deriva dalla
constatazione della loro mentalità gretta, piccina, affetta da quella che chiamo
«sindrome dell'impotente», avendo essi da tempo rinunciato a realizzare i loro
sogni, sovente rassegnati ad una presunta «ineluttabilità» di certe situazioni,
della corruzione, della mediocrità umana, rammaricandosi per la «stupidità della
gente che si fa fottere dalle TV di Berlusconi», mentre «era meglio la RAI, che
acculturava il popolo con teleromanzi, teatro ecc.» (ma sorvolando elegantemente
sull'informazione...), dimostrando così di essere rimasti, come dice Sermonti,
«paccottiglia ottocentesca mal riciclata», col loro mondo che non esiste,
popolato da gente che non esiste, se non nelle loro teste, rifiutando
pervicacemente di accettare il sacrosanto diritto della gente ad esser fatta
come gli pare e di votare per chi gli pare, con le loro manie di educare tutti e
col conseguente, evidente dispregio delle regole democratiche, dì cui, per la
verità, dovrebbero più e meglio di noi farsi paladini. Proprio come i (primi)
cristiani, che dovevano convertire tutti, mandando «giustamente» al rogo
chiunque non volesse convenirsi e chiunque a quel disegno si opponesse!
Malgrado, comunque, l'evidente sfortuna di aver incontrato gli ultimi ed unici
sinistri coglioni, non smetterò per questo di cercare, che tanto parlare con i
«destri» è ancora più difficile... Provi allora Donnici, che alleati a sinistra
ne ha trovati, a proporre loro di promuovere, nelle sedi istituzionali di
appartenenza (comuni, province, regioni, parlamento) il disegno di legge
ispirato dal prof. Auriti sulla proprietà del denaro al popolo, anche
separatamente da quello presentato nel gennaio scorso da alcuni senatori di AN,
FI e CCD (ma al quale, ovviamente, non è stata data dai promotori alcuna
pubblicità...), e vediamo cosa gli risponderanno: quella potrebbe essere la
cartina di tornasole del loro socialismo!
Ti risparmio quello che molti «compagni» mi hanno risposto quando ho loro
esposto il progetto. E sì che quello mi sembra l'unico progetto che ci sia oggi
che abbia una originalità ed una potenziale dirompenza rivoluzionaria tale da
valer la pena di impegnarsi seriamente (almeno noi cerchiamo di realizzarli, i
nostri sogni...), pur con i relativi, ovvii rischi. Anche perché non è la solita
utopia, destinata a rimanere nel mondo dei sogni: è un progetto costato
trentaquattro anni di studi collegiali, che ha superato ogni possibile verifica
e che, soprattutto, è possibile, anche se certamente non facile da far ingoiare
agli usurocrati di tutta la terra ed ai loro potentissimi complici.
In questo progetto apolitico ed apartitico, potrà certamente raccogliere
adesioni e larghi consensi ovunque, a prescindere dal mondo ideale di
appartenenza. Non sarebbe male, anzi, che la rivista ne parlasse più
diffusamente ed approfonditamente, magari promuovendovi un dibattito. So, tra
l'altro, che per il 29 settembre prossimo il prof. Auriti ha invitato, nell'Aula
Magna dell'Università di Teramo, parlamentari e politici di tutta Italia e di
tutte le parti politiche (compresi alti esponenti della Banca d'Italia), per
chiarire il suo progetto. Sarebbe interessante che la rivista, che considero in
assoluto e di gran lunga la più intelligente e stimolante in circolazione, vi
partecipasse e vi dedicasse ampio spazio.
Ti saluto romanamente.
Furio Bassanelli
Caro direttore,
sono mesi che penso alla necessità, da parte di un dirigente del Movimento
Sociale - Fiamma Tricolore, di intervenire nel dibattito che "Tabularasa" ha da
tempo aperto sul nostro mondo. Non l'ho fatto perché avrei preferito che lo
facesse Rauti in persona, soprattutto dopo gli inviti che da più parti il tuo
periodico ha avanzato in questo senso.
Ti confesso che "Tabularasa" è forse l'unica rivista che leggo con passione e
nel contempo con nostalgia. Tanta nostalgia. Penso a te e alle sporadiche volte
in cui ci siamo incontrati e mi sovviene il povero Beppe Niccolai che invece
incontravo spesso, e col quale era piacevole intrattenersi al telefono, quando
lo chiamavo dalla mia Napoli. E quando leggo Beniamino Donnici, Gianni
Benvenuti, Peppe Nanni ed altri non posso che andare con la memoria ad anni
bellissimi della mia stagione politica, quando avevamo fatto del nostro
Movimento un laboratorio politico.
E ora, che assieme a Pino Rauti, Tomaso Staiti, Marco Valle, Romolo Sabatini,
Claudio Pescatore, Mimmo Schinaia e quel poco che resta dei giovani rautiani di
allora, abbiamo dato vita al Movimento Sociale - Fiamma Tricolore, ti confesso
che il sentirvi a volte scettici e problematici sul nostro Movimento, sul
progetto di Rauti, ci fa davvero male.
Beniamino Donnici, al quale mi lega profonda amicizia, scrive su "Tabularasa"
del 15 marzo scorso, che «se è vero che Rauti presenta le liste Fiamma in tutta
Italia un ragionamento distaccato e serio si può fare a condizione che chiarisca
il suo progetto, magari dalle stesse colonne».
Credo che questo sia uno dei motivi per i quali, se non ha risposto Rauti, è
opportuno che lo faccio io, con l'onestà intellettuale che, spero, vogliate
riconoscermi.
Ebbene, anche io fui tra quei componenti della Direzione che abbandonarono il
Partito dopo il famigerato Comitato centrale del luglio 1991. Non c'era bisogno
di grandi analisi per capire dove andava Fini dopo il suo intervento politico.
Ma, consentitelo a me che lasciai, anche l'intervento di Rauti, concluso tra le
lacrime quando rivolto ai giovani si scusò «per non avercela fatta» fu
abbastanza chiaro e fermo. Pino Rauti si riferiva alla creazione di un vasto
movimento nazionalpopolare del quale, in anni di studio e di analisi, assieme a
tanti dì noi, aveva fissato i paletti: lotta al capitalismo, lotta al
mondialismo, lotta all'americanismo. Su questi canoni si era costituita una
generazione politica dal progetto possente, che meritava ben altro che la
diaspora nella quale oggi ci ritroviamo. Tu, Beniamino che ha tentato una nobile
impresa con "Calabria Libera" (che doveva continuare a vivere), Umberto Croppi
finito ai Verdi, Peppe Nanni tornato ad AN, Giancarlo Gabbianelli a Viterbo col
suo "Impegno Sociale", Vito Errico dall'analisi sempre puntuale e lucida a
scrivere su "Tabularasa" e tanti altri che non cito per brevità, assieme
potevamo e (credo) possiamo dare al Movimento Sociale quel carattere e quei
contenuti che, pur nella limitatezza dei mezzi, abbiamo tirato fuori con qualche
difficoltà nella magnifica assemblea programmatica tenuta all'Ergife in giugno.
E invece, perplessità, attese, a mio avviso non giustificabili. Ma ritenete
davvero che avremmo potuto sostenere lo sforzo incredibile di questi pochi mesi
se non fossimo stati veramente convinti di essere rimasti in pochi a sostenere
le tesi che, meglio di me esponete dalla vostra testata? E pensate veramente che
la lezione di Niccolai non ci sia entrata nella carne, nel sangue, nel DNA per
tormentarci giorno per giorno in ordine a quello che avremmo potuto essere e
spesso non siamo stati?
Io non ho avuto esitazione a seguire Rauti, per due motivi: il primo è che
quando andai via non lo feci contro di lui né contro Fini. Conosco Fini da
vent'anni e so come la pensa. Me ne andai contro quello che rappresenta, la
Destra storica, quella che mise in ginocchio il Sud nel quale sono nato e che
alla mia gente imbelle faceva cantare «Partono 'e bbastiment» mentre c'era da
combattere una guerra. Ma il Sud l'aveva perduta! E fai bene a ricordare le
Patrie, caro Errico, che non coincidono più con la Nazione. Siamo d'accordo! Il
secondo motivo è che a Rauti scrissi una lettera, dicendogli che non potevo
stare in un partito di «destra» e che sarei tornato con lui quando avrebbe
deciso di riprendere la battaglia.
Io credo nel Capo, caro direttore. Pino Rauti me lo scelsi quando avevo sedici
anni. Oggi ne ho quarantaquattro. Non me lo impose nessuno. I capi te li scegli,
e non solo quando ti fa comodo. Te li tieni anche quando ti fanno male. E se
sapessi quante volte Pino Rauti me ne ha fatto! E allora? Sto con lui per le sue
idee, per ringraziarlo di quello che mi ha insegnato politicamente e perché,
ammettiamolo, se siamo in una fase di analisi così avanzata come quella che
sviluppate dal vostro giornale, lo dobbiamo un poco anche a lui (non è vero
Gianni Benvenuti?).
Perplessità, allora! Rauti è un bravo pensatore ma non un bravo organizzatore?
Forse è vero.
Perché allora, visto che mi ha dato carta bianca nell'organizzare questo
Movimento che (per carità, non pensate che il vecchio militante Bigliardo si sia
montata la testa e abbia perduto la proverbiale umiltà) in pochi mesi ha
presentato liste in sette regioni su quindici, aperto oltre 100 federazioni,
fatte decine di migliaia di iscritti, aperto una prestigiosa sede della
direzione, rilanciato "Linea", tenuto decine di feste tricolori in tutta Italia,
non correre ad aiutarci? Abbiamo bisogno di voi come dei tanti che assieme a
Beniamino, Enzo Belmonte ed altri avevamo tenuto assieme fino a qualche mese fa,
e che oggi, chissà perché non riusciamo a recuperare. Non è forse vero che
conviene di più al Tortellino nazionale tenere in piedi una simile diaspora
piuttosto che un Movimento che di connotati reducistici ha ben poco ?
Ma chi vi dice che non possiamo ragionare sullo strappo del '14? E perché mai
Rauti, dopo quella specie di testamento spirituale lasciato al Comitato centrale
del luglio 1991, avrebbe dovuto mutare di una sola virgola il suo pensiero?
E, credetemi, se qualcosa è mutato si confa molto di più alle cose che scrivete
che alle vostre perplessità. Io non scrivo quasi mai, ma penso molto. E molto di
più, umilmente, lavoro. Proprio stamane ero alla posta del mio paese,
francobolli alla mano, a spedire come si faceva una volta la modesta agenzia di
stampa che ho editato in questi giorni col mio computer. Militanza! Come una
volta.
E vengo da Fermo dove ho rivisto la militanza! Come una volta! E ho lasciato
Napoli per stare a Roma con i miei nuovi giovani camerati, che non la pensano
come me e come voi, ma sono bravi e hanno bisogno di voi. Militanti come una
volta! Come li avrebbe voluti Beppe Niccolai! E mi sento ringiovanito, e con me
Rauti, e tutti gli altri!
Lo strumento oggi c'è! Ed è valido! È quello di sempre. Il Movimento Sociale che
ha sostituito le parole Destra Nazionale con Fiamma Tricolore. Non vi pare
giunto il momento di passare dalle parole ai fatti?
Roberto Bigliardo
Responsabile nazionale organizzazione Movimento Sociale - Fiamma Tricolore
Caro Bigliardo,
grazie dei riconoscimenti e degli apprezzamenti. Voglio compulsare rapidamente
la tua. Per parte mia voglio chiederti: perché non ha scritto Rauti? E voglio
risponderti: lui (perdono per la minuscola!) non si ribassa. Ma non sono
polemiche «personalistiche» (si dice così?) che voglio fare.
Sai perché non abbocco al vostro amo? A monte di tutto (sai come la penso) ti
dico: non mi fido. Nella tua lettera citi dei nomi. Io lo conosco, Schinaia.
Rauti gli raccomandava la cura dei cacciati da Tatarella. Sarà un ottimo
ufficiale dei Granatieri, anche un mistico: a Taranto faceva il «perdono»
durante la processione di San Cataldo. A Bari, però, perdonava tanto a
Tatarella. I cacciati restavano tali. Non bisognava «andare oltre»? Fattela
raccontare da Rauti la storia dei rautiani di Bari. Ma lui sicuramente non
ricorderà: una divinità non può rammentare le miserie degli uomini, anche se
questi, per il dolore, se ne vanno all'altro mondo. Io non ho dimenticato la
disperazione di Filippo Piotino, un uomo a cui, nonostante tutto, voglio bene
ancora.
Ma la fiamma tricolore (quale e quanto reducismo!) non è fatta soltanto di gente
come te e Piotino. Perché, caro mio, le idee camminano con le gambe degli
uomini. E gli uomini non sono affidabili. Come posso credere che la lezione di
Niccolai sia entrata nella carne, nel sangue, nel DNA di certi figuri? Perché
non vi chiedete la causa per cui Croppi è finito ai Verdi, Donnici ha fatto
"Calabria Libera", Nanni è tornato (purtroppo!) ad AN ed io mi sento ad agio più
a fianco di un comunista di Rifondazione che ad uno Schinaia qualsiasi?
Non ve lo chiedete; qualcuno di voi liquida la cosa col solito epiteto:
traditori! Lo fecero con Romano Bilenchi, lo fanno con noi. Non ci si può più (e
ancora) ricattare con la lotta al capitalismo, lotta al mondialismo, lotta
all'americanismo.
Non puoi farlo, Bigliardo! Rauti era il segretario quando portò il MSI a votare
a favore della guerra all'Iraq, la più moderna guerra americana del capitalismo
mondialista. Rauti ci ha traditi. Non poteva fare diversamente? Ma lo sai che
c'è gente che s'è fatta fucilare per sostenere le proprie idee? Quando
l'analisi, che tu chiami «puntuale e lucida», sul bisogno di ricucire lo strappo
del '14 veniva sottoposto a Sua Satrapia si rimediavano bacchettate che facevano
più male delle randellate morbide di Tatarella. Perché la verità è, caro
Bigliardo, che la «tradizione» dei Figli del Sole non è mai morta. E, credimi,
con queste baggianate non si va da alcuna parte.
Dici di condividere tutto quello che noi, di questo giornale, diciamo. Ma una
differenza voglio segnalartela. Tu credi imperituramente nel Capo e te lo tieni
come un feticcio perché te lo sei preso a sedici anni. Io, come te, credevo nel
Capo quando avevo sedici anni. Oggi, a quarantaquattro anni, non ho più bisogno
di capi e non mi sopporterei con le fette di prosciutto sugli occhi. Anche
perché il Capo mi aveva dato la parola di essere anticapitalista,
antimondialista, antiamericano. Gli avevo perdonato i peccati di gioventù. Ma
era alle soglie della senescenza quando le teorie, che si dovevano fare
finalmente prassi, restarono disperate teoresi. Il Capo scelse l'alleanza in
guerra con gli americani.
Io, ai Capi che vengono meno alla parola data, tirerei un paio di calci in culo
oltre a degradarli con infamia.
Perdonami la brutalità ma le analisi «puntuali e lucide», se non sono cattive,
si fanno tarde e opache, attributi tipici della senilità. E, a quarantaquattro
anni, credimi, mi sento ringiovanito perché alle parole ho fatto sempre seguire
i fatti. Me ne andai dal MSI perché costretto a farlo. Resto lontano volentieri
dal MSI perché, come tu dici, «lo strumento è quello di sempre».
Simpaticamente.
Vito Errico
Caro Bigliardo, anch'io voglio dire due parole. È ora di finirla con i pianti e
le recriminazioni: siamo vissuti come abbiamo voluto. Ma l'invito ad entrare in
una organizzazione (con un Capo) -rivolto a uomini tra i più liberi, che hanno
in uggia tutto ciò che sa di legge, cui nessuno è mai riuscito a mettere la
mordacchia- mal si addice a noi di "Tabularasa".
Il nostro comportamento non è causato da perplessità o da calcolate attese.
Siamo istintivi ed «impolitici». Maturati con le esperienze della «militanza»
(una vita!) che ci hanno costretti a vivere vicino ad individui che avremmo
preferito vederli frequentare altri ambienti. Oggi, molti di loro, in quegli
ambienti, tra gli «anini», si trovano perfettamente ad agio.
Fate sì che il vostro Movimento sia diverso. E che i militanti non vantino
sacrifici, ma abbiano, invece, comportamenti che possano essere additati ad
esempio. Ed allora, noi vi saremo vicini. Per vedere se c'è ancora la
possibilità di vivere tra gli uomini.
a.
c. |