«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

le lettere
 

Cari camerati (ancorché di sinistra), vi seguo con affetto, interesse ed anche un po' di preoccupazione. Preoccupazione perché il mio senso pratico, per quanto modesto, mi segnala che a volte a forza di spostamenti, aggiustamenti e di «aperture» si rischia di perdere l'equilibrio e di cadere nelle braccia «affettuose» dell'avversario. L'ho visto accadere in molte occasioni a tanti amici irrequieti ed in continuo divenire che sentendo molta puzza nel castello passavano con i barbari assedianti (con i quali, del resto se la sarebbero poi passata molto meglio). Non è certo questo il vostro caso, ma ritengo comunque utile mettere il puntino su qualche «i».
Per carattere ed anche per impostazione culturale sono personalmente aperto ad ogni discussione: neppure al diavolo con tanto di cornini e di pizzetto negherei la possibilità di parlare e potrei nutrire sincera curiosità anche per le sue eterodosse tesi. Non a caso seguo da molti anni l'interessante fenomeno intellettuale della "Nuova Destra", quella vera di Tarchi e De Benoist, che non solo ha allargato enormemente i miei orizzonti politico-culturali ma mi ha insegnato uno spirito di tolleranza e di dialogo sostanziale e produttivo. Ma, detto questo, per trovare la mia via maestra devo sempre rispondere a quelle che sono le profonde esigenze delle mie «fibre», alle esigenze ideali di quel quid di misterioso che mi stimola verso mète, anche se per la maggioranza degli esseri umani irrilevanti e persino negative, per me assolutamente irrinunciabili.
Vi siete assunti un compito abbastanza delicato ed impegnativo: vi definite fascisti, con tutta la complessità d'un aggettivo così difficilmente definibile, di rottura e «compromettente» ma che non vi soddisfa del tutto e che arricchite con un bel «di sinistra». Ammiro a questo punto anche il vostro coraggio ma vorrei -sicuramente insieme a molti altri lettori- avere le idee un po' più chiare su cosa voglia dire per voi, nel 1995, essere fascisti di sinistra. Non credo certo voglia dire fascisti poveri, fascisti innamorati dei muscolosi toraci da metalmeccanico o tantomeno imitatori della estesissima palude catto-comunista che confonde San Francesco con Gramsci o la «Charitas» con l'«Arci-Gay».
Penso che per voi, come per me del resto, sentirsi fascisti di sinistra voglia soprattutto dire che vorremmo superare il valore che l'economia ha assunto nel mondo d'oggi, che vorremmo che il denaro, l'oro, l'usura, la mercificazione ed il profitto rientrassero all'interno di argini tollerabili e che non soffocassero col loro peso e la loro «agilità» operativa valori indispensabili per la civiltà umana quali ad esempio la virtù, il pudore, la bellezza, il coraggio, la verità, l'onore, la lealtà.
Ma è appunto qui che stento a seguirvi soprattutto con riferimento alle risposte che avete dato sul n° 3 del 15.6.1995 alle lettere dei lettori Furio Bassanelli e A. Federighi dove citate un «ormai superato anticomunismo viscerale» e non indicate dei chiari punti d'ancoraggio indispensabili in un nostro protenderci verso aree a noi ostili e magari, in alcuni casi, visceralmente ostili. Qui non si tratta tanto di odiare il comunismo in quanto iconografia, rituale, aspetti esteriori; abbiamo tutti visto il suo crollo vergognoso (altro che bunker di Hitler ed ultime ore di Budapest!), tutti abbiamo visto i suoi simboli più cari trascinati nel fango e nello stereo senza che uno solo dei componenti di questo sterminato esercito di «militanti», che il comunismo in ben 70 anni di orrori ha forgiato, sentisse il dovere di prendere le armi per difendere la propria coerenza e la propria religione. È un fatto di tale portata e significato sufficiente da solo a seppellire per l'eternità quella strapaludata e falsa ideologia. Se penso, di rimando, che a pochi metri da casa mia nel 1945 un povero giovinetto delle Fiamme Bianche, aveva 15 anni, si fece massacrare per non rinnegare il suo Duce, per citare un solo domestico esempio, per quella liturgia marxista non provo odio ma solo disprezzo e schifo.
Ma se l'odio ci deve essere (lo vorrei sapere anche da voi) -naturalmente parlo di «odio» intellettuale e non certo di violenza fisica o di intolleranza manesca (lasciamo queste cavoiate a Bossi ed ai leoncavallini)- deve essere portato contro quei disvalori che formano l'animus del comunista e che oggi sono ancora coltivati e continuamente sbandierati dalla «cultura» ufficiale che, incardinatasi in 30 anni di consociativismo e di stretta alleanza con la Chiesa ed il Capitalismo affaristico, determina tutt'ora gli indirizzi politico-culturali del paese (Gramsci docet).
Perché oggi essere di sinistra non vuol dire amare l'operaio e volerlo indirizzare verso mète di elevazione morale e materiale, non vuol dire odiare il pescecane o l'usuraio che sfrutta le sue vittime, non vuol neppure dire rinunciare agli aspetti più bassi del consumismo e della massificazione. Oggi, viceversa, essere di sinistra, magari col doppiopetto liberista e con la passionaccia infantile per l'America «democratica», vuoi piuttosto dire operare per il pacifismo utopistico ed autolesionista, invocare la più assoluta deregulation morale, stimolare le masse verso obiettivi sempre più bassi e snaturanti (consumismo, divertimento alienante e sfrenato), propugnare un egualitarismo falso ed innaturale che porti tutti (gli altri) al livello più basso possibile, incoraggiare il permissivismo nella giustizia e nella scuola, fare gli snob nei quartieri alti (possibilmente a spese dell'INPS) ma «soffrendo» sempre per i poveri e gli emarginati degli orribili quartieri periferici costruiti dalle sinistre.
Certamente non dobbiamo più temere gli stivali dei cosacchi, ma siamo ben più pesantemente oppressi da tanti bei sandali di impegnatissimi fraticelli e da troppe Timberland costosissime, calzate con naturalezza da tanti «intellettuali», tutti ferreamente a libro paga, tutti ben collocati nella «squola», nelle università, nelle case editrici, nei ministeri. Sarà ben duro risistemare le cose. Anche se una delle poche cose buone che io vorrei «importassimo» da quelli di sinistra è il loro spirito comunitario (di casta) e la loro efficienza organizzativa che, insieme al loro «carattere» -nonostante che la Storia periodicamente si diverta a stroncarli- hanno creato una forza associativa ancora oggi davvero rilevante.
Invece, bisogna dirlo, da questa nostra parte siamo bravi a produrre qualche ducetto, tanti bei generali e di fantaccini, di quadrati sergenti c'è davvero poca traccia. Siamo -a parole- per la Gerarchla, per il «a ciascuno il suo», ma poi, nei fatti, è quasi impossibile che le posizioni non prestigiose e di fatica trovino pretendenti e che si sviluppi quel concreto e produttivo spirito di corpo di cui la nostra liturgia tanto spesso si nutre.
Ma, detto questo, non possiamo certo fermarci.
Bisognerebbe, al limite, ricominciare per l'ennesima volta con i vostri preziosi tre lettori che sono pur sempre una prova che le radici sono vive e sane. Proprio ieri un «ragazzo» classe 1928, che a soli 17 anni, indossata fino all'ultimo la divisa della RSI costretto a fuggire con la madre dall'Italia, ritornato dopo tanti anni, mi diceva: «Ho avuto tanto dall'Idea che, prima di morire, vorrei ricambiare in un qualche modo tutto il bene e le cure che da figlio del popolo allora ho ricevuto».
Tutto questo potrà sembrare falso, retorico e melodrammatico. Ma io, che conosco bene la storia di Giorgio I. e le vicende del rimpianto Col. Fiori dell'ONB di Genova che fu il suo «tutore» e maestro, non temo alcunché. Anche per questi esempi -un caro lettore di "Tabularasa" ci ricorda quella meravigliosa lettera da Stalingrado- non possiamo perderci d'animo. Del resto abbiamo motivo di credere che Apollo, Minerva e la dea Roma ci sorridono ancora. Col crollo del muro di Berlino la Storia ha ripreso a fluire. I miracoli -quelli veri- si possono ripetere e le Porte di Brandenburgo con la sua Vittoria alata ne è una possente testimonianza.
Cosa gli dei riservino al mondo non ci deve preoccupare.
Saluto romanamente.

Lino Cavanna

L'amico Cavanna pone domande alle quali, subitamente, da tutte le risposte. Che condividiamo. Nulla da aggiungere. Solo al suo preambolo dobbiamo una precisazione: non siamo affatto assediati nel castello, bensì liberi, ben fermi sulle nostre posizioni ideali. Forse siamo irrequieti, ma di razionalismo ci basta quel minimo necessario per farci ragionare. Che dobbiamo arrivare fino in fondo, fino alle estreme conseguenze che, i mezzi termini non ci sono mai piaciuti. Siamo nemici della classica «combinazione» -che vede nel compromesso un espediente pratico- perché esso spoglia gli uomini di ogni valore ideale. Sappiamo, anche, che a codesta «combinazione» gli italiani sono psicologicamente e affettivamente inclini. Ecco, noi, con l'aiuto di quei nostri «preziosi tre lettori», vogliamo mandarla all'aria. A costo di essere considerati anacronistici, pazzi fautori di una «nuova dottrina» in una società dove pare perduto, per sempre, il senso della comunità e della morale. E in chi, caro Cavanna, puoi risvegliare questi sentimenti? Tra i sedicenti intellettuali forse? Oppure credi che esistano mecenati disinteressati, desiderosi di circondarsi di uomini cui dare l'opportunità di pensare, di sceverare, di discernere per il bene comune? I cosiddetti intellettuali (gazzettieri per lo più) sono sul libro paga dei possessori dei media. Un tanto ad articolo, un tanto ad intervento «polemico».
Solo chi soffre possiede ancora i doni della dignità, dell'orgoglio, dell'onore. Chi soffre, oltre che essere in grado di vedere le sofferenze altrui, vede anche la spropositata ricchezza di chi ha fatto decadere la proprietà da mezzo a fine, facendole assumere un significato meramente economico.
Fascisti di sinistra? Fascisti poveri? Fascisti innamorati dei muscolosi toraci da metalmeccanici? Bischerate, caro Cavanna. Siamo uomini alla cerca di altri uomini che abbiano la nostra stessa smania: vedere il profitto rientrare non in argini «tollerabili» come tu scrivi, ma negli argini.

a. c.



 

Caro Carli,
ho letto la tua risposta alla mia lettera; temo di essere stato frainteso, e me ne dispiace. Francamente non credo di essere affetto da anticomunismo viscerale, anzi! Ripeto che molti dei miei migliori amici sono comunisti -loro sì antifascisti viscerali!- e, ciononostante, li stimo e li amo. Purtroppo debbo ribadire che, pur garbati e simpatici, non si differenziano dagli altri «democratici»: come questi ultimi sono chiusi, succubi della propaganda demo-capital-comunista e non riescono (né ci provano, certi come sono delle loro verità) ad uscirne, ad allargare il loro orizzonte culturale, a capire le ragioni dell'«altro».
L'unica cosa che ci unisce è l'anticapitalismo, di cui, tuttavia, secondo la più trita e stucchevole storiografìa comunista, essi vedono fedele alleato il Fascismo, che interviene, in Italia come in Germania, non appena il «proletariato» rischia di prendere il potere, hai voglia a chiedere come mai, allora, le patrie del capitalismo, Stati Uniti e Gran Bretagna, si allearono contro Fascismo e Nazionalsocialismo, anziché con; e come mai nel settembre 1939 Gran Bretagna e Francia, garanti della Polonia, dichiarano guerra all'invasore tedesco ma non a quello sovietico (allora, per di più, alleato del tedesco): non ti rispondono, oppure farfugliano qualcosa e cambiano discorso, resta comunque il fatto che il vero nemico del proletariato sembra essere ancora non (o non più) il capitalismo (che continua ancor oggi a macinare proletari), ma solo il Fascismo (che da oltre cinquantanni non c'è più).
E giù addosso alla «cultura assassina di destra» (su cui siamo perfettamente d'accordo), cioè «fascista» (su cui non lo sono neanche un po'), che «sempre e ovunque ha messo le bombe contro i proletari, la sinistra e i sindacati», come se i servizi segreti non fossero stati controllati dalla DC, d'amore e d'accordo con tutti gli altri «democratici», suoi alleati e non.
Al di là di tutto ciò, il mio pessimismo nel poter trovare alleati nella sinistra italiana è dovuto a delusione, non a preconcetti: deriva dalla constatazione della loro mentalità gretta, piccina, affetta da quella che chiamo «sindrome dell'impotente», avendo essi da tempo rinunciato a realizzare i loro sogni, sovente rassegnati ad una presunta «ineluttabilità» di certe situazioni, della corruzione, della mediocrità umana, rammaricandosi per la «stupidità della gente che si fa fottere dalle TV di Berlusconi», mentre «era meglio la RAI, che acculturava il popolo con teleromanzi, teatro ecc.» (ma sorvolando elegantemente sull'informazione...), dimostrando così di essere rimasti, come dice Sermonti, «paccottiglia ottocentesca mal riciclata», col loro mondo che non esiste, popolato da gente che non esiste, se non nelle loro teste, rifiutando pervicacemente di accettare il sacrosanto diritto della gente ad esser fatta come gli pare e di votare per chi gli pare, con le loro manie di educare tutti e col conseguente, evidente dispregio delle regole democratiche, dì cui, per la verità, dovrebbero più e meglio di noi farsi paladini. Proprio come i (primi) cristiani, che dovevano convertire tutti, mandando «giustamente» al rogo chiunque non volesse convenirsi e chiunque a quel disegno si opponesse!
Malgrado, comunque, l'evidente sfortuna di aver incontrato gli ultimi ed unici sinistri coglioni, non smetterò per questo di cercare, che tanto parlare con i «destri» è ancora più difficile... Provi allora Donnici, che alleati a sinistra ne ha trovati, a proporre loro di promuovere, nelle sedi istituzionali di appartenenza (comuni, province, regioni, parlamento) il disegno di legge ispirato dal prof. Auriti sulla proprietà del denaro al popolo, anche separatamente da quello presentato nel gennaio scorso da alcuni senatori di AN, FI e CCD (ma al quale, ovviamente, non è stata data dai promotori alcuna pubblicità...), e vediamo cosa gli risponderanno: quella potrebbe essere la cartina di tornasole del loro socialismo!
Ti risparmio quello che molti «compagni» mi hanno risposto quando ho loro esposto il progetto. E sì che quello mi sembra l'unico progetto che ci sia oggi che abbia una originalità ed una potenziale dirompenza rivoluzionaria tale da valer la pena di impegnarsi seriamente (almeno noi cerchiamo di realizzarli, i nostri sogni...), pur con i relativi, ovvii rischi. Anche perché non è la solita utopia, destinata a rimanere nel mondo dei sogni: è un progetto costato trentaquattro anni di studi collegiali, che ha superato ogni possibile verifica e che, soprattutto, è possibile, anche se certamente non facile da far ingoiare agli usurocrati di tutta la terra ed ai loro potentissimi complici.
In questo progetto apolitico ed apartitico, potrà certamente raccogliere adesioni e larghi consensi ovunque, a prescindere dal mondo ideale di appartenenza. Non sarebbe male, anzi, che la rivista ne parlasse più diffusamente ed approfonditamente, magari promuovendovi un dibattito. So, tra l'altro, che per il 29 settembre prossimo il prof. Auriti ha invitato, nell'Aula Magna dell'Università di Teramo, parlamentari e politici di tutta Italia e di tutte le parti politiche (compresi alti esponenti della Banca d'Italia), per chiarire il suo progetto. Sarebbe interessante che la rivista, che considero in assoluto e di gran lunga la più intelligente e stimolante in circolazione, vi partecipasse e vi dedicasse ampio spazio.
Ti saluto romanamente.

Furio Bassanelli



Caro direttore,
sono mesi che penso alla necessità, da parte di un dirigente del Movimento Sociale - Fiamma Tricolore, di intervenire nel dibattito che "Tabularasa" ha da tempo aperto sul nostro mondo. Non l'ho fatto perché avrei preferito che lo facesse Rauti in persona, soprattutto dopo gli inviti che da più parti il tuo periodico ha avanzato in questo senso.
Ti confesso che "Tabularasa" è forse l'unica rivista che leggo con passione e nel contempo con nostalgia. Tanta nostalgia. Penso a te e alle sporadiche volte in cui ci siamo incontrati e mi sovviene il povero Beppe Niccolai che invece incontravo spesso, e col quale era piacevole intrattenersi al telefono, quando lo chiamavo dalla mia Napoli. E quando leggo Beniamino Donnici, Gianni Benvenuti, Peppe Nanni ed altri non posso che andare con la memoria ad anni bellissimi della mia stagione politica, quando avevamo fatto del nostro Movimento un laboratorio politico.
E ora, che assieme a Pino Rauti, Tomaso Staiti, Marco Valle, Romolo Sabatini, Claudio Pescatore, Mimmo Schinaia e quel poco che resta dei giovani rautiani di allora, abbiamo dato vita al Movimento Sociale - Fiamma Tricolore, ti confesso che il sentirvi a volte scettici e problematici sul nostro Movimento, sul progetto di Rauti, ci fa davvero male.
Beniamino Donnici, al quale mi lega profonda amicizia, scrive su "Tabularasa" del 15 marzo scorso, che «se è vero che Rauti presenta le liste Fiamma in tutta Italia un ragionamento distaccato e serio si può fare a condizione che chiarisca il suo progetto, magari dalle stesse colonne».
Credo che questo sia uno dei motivi per i quali, se non ha risposto Rauti, è opportuno che lo faccio io, con l'onestà intellettuale che, spero, vogliate riconoscermi.
Ebbene, anche io fui tra quei componenti della Direzione che abbandonarono il Partito dopo il famigerato Comitato centrale del luglio 1991. Non c'era bisogno di grandi analisi per capire dove andava Fini dopo il suo intervento politico.
Ma, consentitelo a me che lasciai, anche l'intervento di Rauti, concluso tra le lacrime quando rivolto ai giovani si scusò «per non avercela fatta» fu abbastanza chiaro e fermo. Pino Rauti si riferiva alla creazione di un vasto movimento nazionalpopolare del quale, in anni di studio e di analisi, assieme a tanti dì noi, aveva fissato i paletti: lotta al capitalismo, lotta al mondialismo, lotta all'americanismo. Su questi canoni si era costituita una generazione politica dal progetto possente, che meritava ben altro che la diaspora nella quale oggi ci ritroviamo. Tu, Beniamino che ha tentato una nobile impresa con "Calabria Libera" (che doveva continuare a vivere), Umberto Croppi finito ai Verdi, Peppe Nanni tornato ad AN, Giancarlo Gabbianelli a Viterbo col suo "Impegno Sociale", Vito Errico dall'analisi sempre puntuale e lucida a scrivere su "Tabularasa" e tanti altri che non cito per brevità, assieme potevamo e (credo) possiamo dare al Movimento Sociale quel carattere e quei contenuti che, pur nella limitatezza dei mezzi, abbiamo tirato fuori con qualche difficoltà nella magnifica assemblea programmatica tenuta all'Ergife in giugno.
E invece, perplessità, attese, a mio avviso non giustificabili. Ma ritenete davvero che avremmo potuto sostenere lo sforzo incredibile di questi pochi mesi se non fossimo stati veramente convinti di essere rimasti in pochi a sostenere le tesi che, meglio di me esponete dalla vostra testata? E pensate veramente che la lezione di Niccolai non ci sia entrata nella carne, nel sangue, nel DNA per tormentarci giorno per giorno in ordine a quello che avremmo potuto essere e spesso non siamo stati?
Io non ho avuto esitazione a seguire Rauti, per due motivi: il primo è che quando andai via non lo feci contro di lui né contro Fini. Conosco Fini da vent'anni e so come la pensa. Me ne andai contro quello che rappresenta, la Destra storica, quella che mise in ginocchio il Sud nel quale sono nato e che alla mia gente imbelle faceva cantare «Partono 'e bbastiment» mentre c'era da combattere una guerra. Ma il Sud l'aveva perduta! E fai bene a ricordare le Patrie, caro Errico, che non coincidono più con la Nazione. Siamo d'accordo! Il secondo motivo è che a Rauti scrissi una lettera, dicendogli che non potevo stare in un partito di «destra» e che sarei tornato con lui quando avrebbe deciso di riprendere la battaglia.
Io credo nel Capo, caro direttore. Pino Rauti me lo scelsi quando avevo sedici anni. Oggi ne ho quarantaquattro. Non me lo impose nessuno. I capi te li scegli, e non solo quando ti fa comodo. Te li tieni anche quando ti fanno male. E se sapessi quante volte Pino Rauti me ne ha fatto! E allora? Sto con lui per le sue idee, per ringraziarlo di quello che mi ha insegnato politicamente e perché, ammettiamolo, se siamo in una fase di analisi così avanzata come quella che sviluppate dal vostro giornale, lo dobbiamo un poco anche a lui (non è vero Gianni Benvenuti?).
Perplessità, allora! Rauti è un bravo pensatore ma non un bravo organizzatore? Forse è vero.
Perché allora, visto che mi ha dato carta bianca nell'organizzare questo Movimento che (per carità, non pensate che il vecchio militante Bigliardo si sia montata la testa e abbia perduto la proverbiale umiltà) in pochi mesi ha presentato liste in sette regioni su quindici, aperto oltre 100 federazioni, fatte decine di migliaia di iscritti, aperto una prestigiosa sede della direzione, rilanciato "Linea", tenuto decine di feste tricolori in tutta Italia, non correre ad aiutarci? Abbiamo bisogno di voi come dei tanti che assieme a Beniamino, Enzo Belmonte ed altri avevamo tenuto assieme fino a qualche mese fa, e che oggi, chissà perché non riusciamo a recuperare. Non è forse vero che conviene di più al Tortellino nazionale tenere in piedi una simile diaspora piuttosto che un Movimento che di connotati reducistici ha ben poco ?
Ma chi vi dice che non possiamo ragionare sullo strappo del '14? E perché mai Rauti, dopo quella specie di testamento spirituale lasciato al Comitato centrale del luglio 1991, avrebbe dovuto mutare di una sola virgola il suo pensiero?
E, credetemi, se qualcosa è mutato si confa molto di più alle cose che scrivete che alle vostre perplessità. Io non scrivo quasi mai, ma penso molto. E molto di più, umilmente, lavoro. Proprio stamane ero alla posta del mio paese, francobolli alla mano, a spedire come si faceva una volta la modesta agenzia di stampa che ho editato in questi giorni col mio computer. Militanza! Come una volta.
E vengo da Fermo dove ho rivisto la militanza! Come una volta! E ho lasciato Napoli per stare a Roma con i miei nuovi giovani camerati, che non la pensano come me e come voi, ma sono bravi e hanno bisogno di voi. Militanti come una volta! Come li avrebbe voluti Beppe Niccolai! E mi sento ringiovanito, e con me Rauti, e tutti gli altri!
Lo strumento oggi c'è! Ed è valido! È quello di sempre. Il Movimento Sociale che ha sostituito le parole Destra Nazionale con Fiamma Tricolore. Non vi pare giunto il momento di passare dalle parole ai fatti?


Roberto Bigliardo
Responsabile nazionale organizzazione Movimento Sociale - Fiamma Tricolore



Caro Bigliardo,
grazie dei riconoscimenti e degli apprezzamenti. Voglio compulsare rapidamente la tua. Per parte mia voglio chiederti: perché non ha scritto Rauti? E voglio risponderti: lui (perdono per la minuscola!) non si ribassa. Ma non sono polemiche «personalistiche» (si dice così?) che voglio fare.
Sai perché non abbocco al vostro amo? A monte di tutto (sai come la penso) ti dico: non mi fido. Nella tua lettera citi dei nomi. Io lo conosco, Schinaia. Rauti gli raccomandava la cura dei cacciati da Tatarella. Sarà un ottimo ufficiale dei Granatieri, anche un mistico: a Taranto faceva il «perdono» durante la processione di San Cataldo. A Bari, però, perdonava tanto a Tatarella. I cacciati restavano tali. Non bisognava «andare oltre»? Fattela raccontare da Rauti la storia dei rautiani di Bari. Ma lui sicuramente non ricorderà: una divinità non può rammentare le miserie degli uomini, anche se questi, per il dolore, se ne vanno all'altro mondo. Io non ho dimenticato la disperazione di Filippo Piotino, un uomo a cui, nonostante tutto, voglio bene ancora.
Ma la fiamma tricolore (quale e quanto reducismo!) non è fatta soltanto di gente come te e Piotino. Perché, caro mio, le idee camminano con le gambe degli uomini. E gli uomini non sono affidabili. Come posso credere che la lezione di Niccolai sia entrata nella carne, nel sangue, nel DNA di certi figuri? Perché non vi chiedete la causa per cui Croppi è finito ai Verdi, Donnici ha fatto "Calabria Libera", Nanni è tornato (purtroppo!) ad AN ed io mi sento ad agio più a fianco di un comunista di Rifondazione che ad uno Schinaia qualsiasi?
Non ve lo chiedete; qualcuno di voi liquida la cosa col solito epiteto: traditori! Lo fecero con Romano Bilenchi, lo fanno con noi. Non ci si può più (e ancora) ricattare con la lotta al capitalismo, lotta al mondialismo, lotta all'americanismo.
Non puoi farlo, Bigliardo! Rauti era il segretario quando portò il MSI a votare a favore della guerra all'Iraq, la più moderna guerra americana del capitalismo mondialista. Rauti ci ha traditi. Non poteva fare diversamente? Ma lo sai che c'è gente che s'è fatta fucilare per sostenere le proprie idee? Quando l'analisi, che tu chiami «puntuale e lucida», sul bisogno di ricucire lo strappo del '14 veniva sottoposto a Sua Satrapia si rimediavano bacchettate che facevano più male delle randellate morbide di Tatarella. Perché la verità è, caro Bigliardo, che la «tradizione» dei Figli del Sole non è mai morta. E, credimi, con queste baggianate non si va da alcuna parte.
Dici di condividere tutto quello che noi, di questo giornale, diciamo. Ma una differenza voglio segnalartela. Tu credi imperituramente nel Capo e te lo tieni come un feticcio perché te lo sei preso a sedici anni. Io, come te, credevo nel Capo quando avevo sedici anni. Oggi, a quarantaquattro anni, non ho più bisogno di capi e non mi sopporterei con le fette di prosciutto sugli occhi. Anche perché il Capo mi aveva dato la parola di essere anticapitalista, antimondialista, antiamericano. Gli avevo perdonato i peccati di gioventù. Ma era alle soglie della senescenza quando le teorie, che si dovevano fare finalmente prassi, restarono disperate teoresi. Il Capo scelse l'alleanza in guerra con gli americani.
Io, ai Capi che vengono meno alla parola data, tirerei un paio di calci in culo oltre a degradarli con infamia.
Perdonami la brutalità ma le analisi «puntuali e lucide», se non sono cattive, si fanno tarde e opache, attributi tipici della senilità. E, a quarantaquattro anni, credimi, mi sento ringiovanito perché alle parole ho fatto sempre seguire i fatti. Me ne andai dal MSI perché costretto a farlo. Resto lontano volentieri dal MSI perché, come tu dici, «lo strumento è quello di sempre».
Simpaticamente.

Vito Errico


Caro Bigliardo, anch'io voglio dire due parole. È ora di finirla con i pianti e le recriminazioni: siamo vissuti come abbiamo voluto. Ma l'invito ad entrare in una organizzazione (con un Capo) -rivolto a uomini tra i più liberi, che hanno in uggia tutto ciò che sa di legge, cui nessuno è mai riuscito a mettere la mordacchia- mal si addice a noi di "Tabularasa".
Il nostro comportamento non è causato da perplessità o da calcolate attese. Siamo istintivi ed «impolitici». Maturati con le esperienze della «militanza» (una vita!) che ci hanno costretti a vivere vicino ad individui che avremmo preferito vederli frequentare altri ambienti. Oggi, molti di loro, in quegli ambienti, tra gli «anini», si trovano perfettamente ad agio.
Fate sì che il vostro Movimento sia diverso. E che i militanti non vantino sacrifici, ma abbiano, invece, comportamenti che possano essere additati ad esempio. Ed allora, noi vi saremo vicini. Per vedere se c'è ancora la possibilità di vivere tra gli uomini.

a. c.

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