«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Aspettando Godot


Lo scorso numero, nel rendere edotti i lettori di "Tabularasa" dell'altrui «disagio e continuità a Destra», il direttore sollecitava me ed altri amici di redazione a dire la nostra in tema di fascismo. E con ciò replicare al dott. Cesare Pettinato ed alle di lui argomentazioni, vanamente destinate all'ignaro pubblico del "Secolo d'Italia". Compito senza dubbio difficile -il mio e nostro- d'intervenire nel mancato dibattito, e che mi accingo a svolgere, lo confesso, con un certo disagio.
Disagio che trovasi gravato (oltre che dall'onere di supplire a così autorevole tribuna giornalistica) da due ordini di motivi: il primo è il tema in sé -il fascismo- la cui trattazione sub specie articulis richiede(rebbe) doti di sintesi e d'acume di non facile reperimento; il secondo causato invece dalla pesante difficoltà di procedere ad un confronto d'opinione, allorché gli opinionisti muovano da premesse diametralmente distanti.
È il caso in questione.
Di chi vede, cioè «contrapposizioni più apparenti che reali [...] fra la vocazione sociale del fascismo e gli obiettivi iscritti nella bandiera del Polo: liberismo economico, mercato, capitalismo». Ovvero di chi afferma che «il fascismo è spiritualismo nella tradizione rinascimentale italiana: non è uomo chi non produce uno sforzo per capitalizzare, non importa se nella conoscenza, nell'abilità o nei mezzi di produzione». Di chi, dunque, avverte la minaccia del «rivoluzionarismo marxista presente nello schieramento (: quello di Prodi & Co. - n.d.r.) avversario», e nel contempo denuncia «la vocazione cripto-rivoluzionaria terzomondista che caratterizzerebbe il clero italiano» (l'uso del condizionale è sorprendente - n.d.r.). Di chi, insomma, sentendosi in dovere di ammonire che «Né libertà politica né libertà economica né democrazia sono possibili per uomini che non hanno la nazione come il valore più alto» può liricamente concludere che «Questo è il legato vivente del Risorgimento, che attraverso il fascismo e il Movimento sociale giunge ad Alleanza nazionale e al Polo delle libertà».
... Che dire? Cosa aggiungere? Come polemizzare? ... Sapranno i co-redattori Vito e Beniamino portarsi all'altezza solare dello scontro?
Io -consentimi, direttore- ci rinuncio. E volo basso.
* * *
C'è però un passaggio, di quell'icarico tentativo di intervento sul "Secolo", che mi pare comunque utile tornare, trattandosi di formule espressive largamente in uso anche in ambienti di solito non prossimi alla stupidità e spesso lontani dai luoghi comuni della massificazione borghese. Mi riferisco all'asserita incompatibilità tra socialismo e libertà economica ed alla «caratteristica precipua del fascismo [che] non è quella di un socialismo mancato». Tali affermazioni -se da un lato rafforzano la mia (perversa) convinzione circa l'inutilità della discussione in mancanza di comuni princìpi e comuni sensibilità (N.B.: la cui sussistenza consente invece d'accorciare le distanze e di rendere agibili i più lontani percorsi... casus Landolfi docet)- dall'altro lato m'invitano a riflettere sulla indifendibilità di una qualsivoglia posizione dialettica, quando il senso dei termini ivi impiegati non venga predeterminato e quindi assodato.
Quando cioè, sul n° 4 anno IV di questo periodico, m'è capitato d'usare, parafrasando, l'espressione «via nazionale al mondialismo» per indicare il ruolo cui aspira AN nel quadro interno ed internazionale - io ho inteso il sostantivo mondialismo in modo affatto diverso dal mio oppositore il quale, su quello stesso numero, lamentava che «il mondialismo di facciata dell'ONU dimostra ogni giorno di più la sua debolezza e inadeguatezza ecc».
Con tutta evidenza, allora, pure le locuzioni «socialismo» e «libertà economica» assumono in noi, nei due contendenti, valenze assolutamente distinte, se non antitetiche. Risulta peraltro allo scrivente -contrariamente al suo apodittico interlocutore- poterci essere, esserci stato ed esserci socialismo estraneo al modello marxista, e nient'affatto negatore delle libertà individuali - e di quella economica in particolare. Nel mentre quest'ultimo (come altri) aspetto delle libertà personali non può -a mio avviso- rivestire valore assoluto, ma deve o dovrebbe conoscere limiti nel potere di indirizzo dello Stato.
In diversa ipotesi, quando sia cioè carente quella essenziale e superiore funzione regolatrice, l'esercizio della libertà -e segnatamente della libertà economica- si svolgerà, così come avviene nella società a capitalismo avanzato e a capitalismo iniziato, all'insegna dell'homo homini lupus.
Riguardo poi il rapporto Destra/Sinistra e/o fascismo/socialismo (questioni la cui vastità e complessità non abbisognano di particolari sottolineature), mi limiterò a fissare alcune coordinate d'analisi e di fornire un breve excursus della società italiana dall'Unità ad oggi, secondo alcune sommarie scansioni.
Così, nel risalire al 1861 sino alla fine del secolo scorso, lungo il passaggio dalla cosiddetta Destra Storica alla cosiddetta Sinistra Storica, sento di poter dire che il sistema italiano fosse informato dalla compenetrazione fra classe politica risorgimentale e classe burocratico-amministrativa sabauda.
Col sedimentarsi di questo processo di osmosi, si vennero a porre le basi per lo Stato borghese, investito di funzioni di controllo sociale e difesa dell'ordine nazional-patriottico. Uno Stato, che si rafforzerà con la centralizzazione degli apparati di decisione e gestione, e con il contestuale smantellamento delle autonomie locali.
All'inizio del presente secolo, e grosso modo sino allo scoppio della I Guerra mondiale, la classe politica dirigente tenderà a gestire in maniera più ideologica le trasformazioni, rappresentandosi in proprio quale modello socio-culturale per tutta l'Italietta di allora.
Possiamo dunque datare al 1900-1914 la fase di massimo sviluppo dello Stato liberale, periodo in cui l'organizzazione statuale viene ad assumersi il ruolo di garante dell'iniziativa privata, della libera concorrenza, dell'individualismo e delle virtù borghesi!
Detto sistema ebbe a produrre due principali linee d'intervento, fra loro complementari: l'una indirizzata alla salvaguardia e alla mediazione degli interessi forti della nascente alta-borghesia; l'altra contraddistinta dalla repressione, tramite l'esercito e le prefetture, di ogni comportamento sociale e individuale contrastante la moralità e l'ordine costituiti. In quest'ottica è chiaramente visibile come, conclusasi la Grande Guerra, non esista una netta cesura fra il precedente decennio giolittiano ed il successivo ventennio mussoliniano, caratterizzato quest'ultimo da un regime di tipo liberal-autoritario nel cui alveo si intende ricomporre e riassorbire le perduranti istanze antiborghesi.
Le eccezioni e le controtendenze a tale processo di normalizzazione, pur presenti fra il '22 e il '43 all'interno stesso del regime, non paiono però tali da inficiare la sostanziale continuità fra Stato fascista e Stato borghese.
La rottura, traumatica, avviene con la RSI. Avviene col «ritorno alle origini», con la riscoperta dell'anima social-rivoluzionaria in seno all'idea fascista.
La RSI fu infatti l'unico tentativo -destinato a seguire le sorti della guerra- di realizzare in Italia uno Stato socialista.
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Contando di non aver scandalizzato a sufficienza i moderati, aggiungerò che il fascismo fu in atto «e» di destra «e» di sinistra, prevalendo il primo carattere topologico durante il periodo/regime; mentre fu il secondo a riuscire dominante nel periodo/movimento, proprio alle fasi iniziale e terminale della sua realtà storica.
Da quanto sin qui abbozzato, non mi sembra dar adito a dubbi sul fatto ch'io mi pongo agli antipodi della concezione fascistica di Cesare Pettinato: se lui si professa fascista dovrò dirmi antifascista; qualora egli si dichiari a-fascista sarò io ad essere fascista; post-fascista lui, ante-fascista io.
Chiusa la parentesi (...), è dopo il '45 che l'Italia rientra a pieno titolo -sia pure con modalità (ovviamente) differenti- negli antichi schemi liberali. Tuttavia, l'«equilibrio keynesiano» su cui per quasi mezzo secolo si è retta la democrazia italiana -equilibrio fra economia liberista ed economia assistita, che aveva consentito alla società post-bellica di conservare e riutilizzare non poche conquiste del pur deprecato ventennio- è ora in via di smantellamento.
Rottosi con la caduta del Muro il cosiddetto modello consociativo, il vecchio/nuovo Potere -tramite i nuovi/vecchi referenti politici- sta dettando nuove regole e nuovi rapporti sociali, per far ciò sta eliminando rapidamente ogni residuo della (malgestita) eredità del tempo che fu: l'IRI e l'industria pubblica, la Cassa integrazione e la Cassa per il Mezzogiorno, la tutela sindacale e il sistema pensionistico, l'erogazione a prezzo politico di servizi quali scuole, sanità, trasporti pubblici. È cronaca dei giorni nostri.
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Esaurita la doverosa ed onerosa risposta, vorrei -sempre col permesso del direttore, nonché del redattore Donnici- vorrei, dicevo, occuparmi (ma in tono più lieve) di altro dibattito: quello apertosi sul n° 2 di "Tabularasa" con l'intervento del succitato Beniamino Donnici. Il quale Beniamino, fra i tanti meriti suoi, può ora annoverare l'aver provocato la ricomparsa su queste pagine di una firma tra le più brillanti fra quelli di cui si fregia la nostra testata.
Ammazziamo dunque il vitello grasso... e bentornato, Peppe!
Il clima festaiolo, la generale commozione e le abbondanti libagioni non m'impediscono però di scorgere (nitidamente?) le distanze che ci separano. Né, mi sembra, essere per mancanza di sobrietà che non riesco a vedere come «Ci allontaniamo per ritrovarci più vicini» (Mogol-Battisti-Nanni). Il che potrebbe poi essere la versione romantico-musicale del «marciare divisi per colpire uniti», come si diceva ai bei (?) tempi. Anzi, a dirla tutta, ho proprio l'impressione sia Peppe, per quanto io lo possa riconoscere, a non aver più voglia non solo di marciare, ma nemmeno di colpire.
Ossia che le sue riserve d'energia antagonistica egli le ritenga utili impiegare, per motivi d'ufficio, solo verso «la Sinistra». Una Sinistra di poveri di spirito, o di poveracci tout-court, contro la quale Nanni esercita, da par suo, la vis polemica, col pretesto di contestare a Donnici l'affermazione secondo cui il rinnovamento ha da passare attraverso «i territori della sinistra».
«E qui sta il primo problema», continua Peppe, per poi elencare vizi e antinomie del variopinto schieramento progressista (americanismo spinto, pensiero debole, sterilità, volontà suicide ...)
Tutto vero, e ben detto. Del resto, mica posso non essere d'accordo, quando stava scritto (n° 18 di Aurora, 1° giugno 1994) della «Grande Vecchia, quella che sino ad ieri rappresentava il domani che canta. Quella che, nel nostro Paese, si diceva avesse il monopolio del progresso e della cultura, della socialità e del bon ton, dell'ironia e dell'autoironia. Questa Vecchia Sinistra che adesso si trova in carenza d'ossigeno di fronte ad ostacoli che si chiamano spoliticizzazione, crisi di valori, neo-rampantismo... Eccola, la Sinistra Ufficiale. Già aveva perso per strada i suoi valori, la sua rabbia, la moralità rivoluzionaria per essere poi largamente blandita, vezzeggiata, coccolata; ed ora, eccola là, a reagire alla sua inaspettata sconfitta con la depressione e l'abulia, con la chiusura a riccio nel progressismo, con la paranoia dell'antifascismo ...». Fine dell'autocitazione.
Epperciò confermo e ribadisco: nei riguardi di quella misera Sinistra, vile e rinunciataria -e chi più ne ha più ne metta- appare persino un tantino ingeneroso appuntare i propri strali...
«E qui sta il primo problema», scrive.
E il secondo? Quello dell'attraversamento dei territori di Destra?
Su questi Nanni in verità sorvola, con la consueta eleganza. Ma, così facendo, non ci da ragguagli su come, secondo lui, questa Destra (è superfluo ricordare che è la Destra di Berlusconi, Previti, Tremaglia, Casini, Mastella, Pannella, Tatarella, Servella e compagnia bella?), questa Destra sarebbe non già filo-americana, almeno quanto la Sinistra, bensì profondamente nazional-europea; né ci rende edotti sul «pensiero forte» elaborato nel frattempo nelle officine di Storace e Gasparri, e neppure sulla ricchezza programmatica della Nuova Destra di Fini, o del nuovo modo (che fu) di governare da parte dei Fiori, Biondi, Matteoli...
Pudore o senso del limite?
Sono certo, a tale proposito, che il direttore di "Tabularasa" non gli negherà certo lo spazio necessario per esternarsi e farsi magari comprendere da tutti noi.
* * *
In tale attesa, vorrei soffermare la mia -e spero anche sua e vostra- attenzione su un altro tema toccato da Nanni.
Mi riferisco, in particolare, a quello relativo alla «filosofia del nitido confronto politico inaugurato col sistema maggioritario». Anche qui -è il caso ripetere- sarà questione di divergenze: là dove Peppe Nanni scorge nitori e cristalline trasparenze, io vedo solamente un panorama quantomai opaco e piatto, dove si agita in controluce un confuso polverone di post ed «ex» d'ogni razza e tipo, il cui confronto politico consiste nel ripudiare più in fretta le antiche appartenenze; dove il gioco consiste nel dimenticare e farsi dimenticare e nel sapersi più prontamente spogliare dei propri abiti, magari lisi e consunti, per poter indossare le nuove e fiammanti livree di custodi del Mercato.
Io, almeno, la vedo così: la politica come mercato, dove la scelta (politica) è tra Coca cola «o» Pepsi cola.
Perché, dal mio luogo di osservazione, questa Destra e questa Sinistra si equivalgono, e le visibili differenze sono i colori delle etichette.
Prova ne sia, Peppe, che i due schieramenti ritengono «moralmente lecito» ipotizzare una stessa leadership, quella di Lambertow. Perché delle due l'una, Peppe: o entrambi perseguono lo stesso, identico progetto politico o non ne hanno alcuno.
E non pensare, Peppe, che il citare Nietzsche e Niccolai, Schmitt e Tarchi ti assolva dal non essere pienamente consapevole.
Solo che -ecco il mio punto di vista- la tua personale realpolitik ti porta a convincerti sia necessario «attrezzarsi per la navigazione in mare aperto», incurante della rotta, del vento, del comandante, dell'equipaggio, della pulizia del ponte e delle latrine. E neppure, tu dici, ti è chiaro chi sia il virus e chi la vittima...
Nonostante tutto, buon viaggio.
Io però, assieme ad altri «sognatori», preferisco non imbarcarmi. Immagino tu sappia che avremmo potuto. Ma, ripeto, preferiamo restare a terra.
In attesa, magari, di una nave che non c'è, o non si fa trovare. Di un'alternativa sia alla Destra virtuale che alla Sinistra normale. Chissà, forse di una Sinistra antioccidentale e anticapitalista, e dunque sociale e nazionale, che sappia ritrovare il gusto e attrezzarsi per le grandi sfide poste dalla modernità. E così dare spazio ai sentimenti, alle contrapposizioni, alle speranze, alle idee: ad un'autentica partecipazione politica, insomma.
Ed è questa, in fin dei conti, l'unica politica possibile.

Alberto Ostidich

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