«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 6 - 31 Ottobre 1995

 

Alziamo il capo dal lungo sonno
 

Caro Carli, [...] Io resto volentieri limitato a denunciare il mondialismo nell'arte e la mafia che ci sta dietro onnipresente e fortissima.
La politica attuale, quando non mi fa schifo mi fa pena, l'Italia finì nel 1945 e chissà mai quando la rivedremo in piedi, forse a noi non toccherà, auguriamolo ai figli dei nostri nipoti ...
Cari saluti e buon lavoro. Suo

Sigfrido Bartolini

 

 

Pessimismo sconcertante, caro Maestro. È vero, respiriamo un'atmosfera troppo torbida per riuscire a capire quali avventure intraprendere o come riconoscere, con certezza, la strada da imboccare. Ma abbiamo le nostre colpe e fra queste, la più grave, l'aver assistito inerti, passivi, alla repressione delle intelligenze, alla mortificazione delle coscienze. E se nel tempo di oggi abbondano superficialismo intellettuale e confusione morale; se in ogni dove imperversano cafoni orecchianti pseudo-culture; se gli iniziatori dei «nuovi valori» predicano l'ineluttabilità di un avvenire meccanicistico, quindi, intenzionati ad imporci l'obbligo a lasciar scorrere la nostra vita nella rassegnazione e nell'accettazione di una definitiva colonizzazione; ebbene, questo è anche il tempo ideale per dare la sveglia al ribellismo si da consentire, agli spiriti irrequieti, di gettare le basi per una fioritura dei loro spregiudicati istinti. Soprattutto per proclamare apertamente l'imperiosa necessità di riscossa, per ravvivare le tumultuose passioni sopite. Nel 1945, caro Maestro, con la vittoria delle armi sulle idee e dell'oro sul sangue, non è finita l'Italia. Come latini, come italiani, siamo ancora in grado di far scattare le molle della nostra vitalità e tutta la nostra capacità reattiva contro quella forma di «civiltà» protestante e puritana -impostaci nel '45- che vuole soffocare e definitivamente distruggere i nostri costumi, le nostre tradizioni, la nostra cultura. Ovvero le nostre forze, imponderabili ed enormi. Che possono determinare le oscillazioni delle attuali forme del vivere civile e che decideranno quelle delle forme venture. Occorrono passioni. Passioni generate dal sangue. Ricorda, Maestro? «Contro Giuda, contro l'oro, sarà il sangue a far la storia ...» Non è più tempo di legislatori, di leggi nuove, di regole. È tempo di operare per il legittimo arbitrio onde innestare, nella logica comune, i necessari elementi di chiarificazione che non debbono sottostare né a giustificazioni, né a confronti con l'attuale situazione politica. Dobbiamo essere in grado di scagliare le parole come fossero pietre, contro gli egoismi e le ingiustizie. Dobbiamo chiudere il periodo dei dubbi e della ricerca e professare la fede in una inevitabile resurrezione dei valori umani. I grandi fenomeni della storia moderna non si possono spiegare soltanto con l'aiuto delle formule economiche. Lo svolgersi progressivo della civiltà moderna sta dimenticandosi di una presenza insopprimibile, oggi addirittura schernita: l'uomo. Agli uomini dobbiamo rivolgerci (si, ci sono!), non ai loro mediatori, ai partiti ed alle loro istituzioni. Che sono entità non solo esiziali per una nazione che un tempo era popolata d'uomini grandi, d'ingegno solare, che rappresentavano la saggezza del mondo e la misura della civiltà, ma anche obsolete per una futura «nostra» civiltà. Dobbiamo avere la capacità di fare la diagnosi del male che ci affligge e di cui gli italiani soffrono, indagarne le origini. Dobbiamo disilludere i faciloni e far male. Farci male. Ognuno farsi sacerdote di sé medesimo, sconfessando profeti e santi, «miti» e riti. Contribuire a mutare la mentalità di chi ci circonda per renderlo partecipe della rinascita, dal profondo, della nostra storia; in una etica nuova che stia nella tradizione e la superi. Aver patito e voler ancora patire, è il nostro vanto migliore. In fin dei conti siamo lupi, non cani da pagliaio.

a.c.

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