«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Verrà l'urlo
 

Salutare romanamente. Una lettera, che viene dalla provincia romana, si chiude con quel saluto. Nulla da eccepire. Ma una missiva che arriva da Genova e conclude col saluto romano da da pensare. Non vi pare? Leggete il numero settembrino di "Tabularasa". Non è una questione geografica. È un fatto di «abitudini» d'un mondo ormai in preda alle ebefrenie. La dissociazione ideativa produce questi fenomeni. C'è gente che non sa più chi è; peggio, non sa più che cosa vuole ma si illude di sapere la sua essenza e la sua volontà. Votano a destra, ne portano in tasca le tessere, si spellano le mani ad applaudire gli oratori, ne leggono la pubblicistica, ne hanno appoggiato la formazione, dissentono sottovoce, vogliono «lottare all'interno», s'illudono d'essere ancora fascisti. Sono i «fascisti» di Fiuggi. Alla loro destra hanno quel manipolo di cariatidi, vecchi spioni dei servizi segreti, filo-golpisti impenitenti, truci provocatori degli anni di piombo, pretoriani degli Affari riservati, gladiatori al servizio del nemico. Un liquame denso, nauseabondo. Sono gli altri «fascisti». Noi non apparteniamo né agli uni né agli altri. Noi abbiamo sepolto i nostri morti. A loro va tutta la nostra pietà. Essi vissero momenti d'illusione rincorrendo una speranza che faceva cozzo con la realtà. Per quella speranza morirono. E il loro lascito non fu di vendetta. I nostri morti, li abbiamo sepolti. Ora abbiamo bisogno di andare avanti. Pentimenti? No. L'uomo è quel che ha fatto, che fa, che farà. Abbiamo ricacciato nelle forre d'un passato che non sarà mai storia le bestie ideologiche. Il mondo dell'uomo non può spaccarsi in due metà. Abbiamo imparato dalla vita che la vera libertà sta nel rispetto d'ogni singola specificità. E ogni uomo è un essere specifico che non può ingessarsi in «quadrate legioni». Noi non crediamo più agli stati etici e siamo contro le maiuscole filosofiche. La patria è tale anche con l'iniziale minuscola. Lo stato è un'organizzazione di uomini. La giustizia umana sarà sempre finita e fallace. Non possiamo più credere ai miti. Il mondo dell'uomo, sempre più veloce, sempre più velocizzato ha distrutto il silenzio religioso del tempo, madre del mito. Siamo ancora fascisti. Semmai, dobbiamo chiederci se lo siamo mai stati. E se troviamo il coraggio della spudoratezza ad affermarlo, dobbiamo chiederci come lo siamo stati. Chi, al crepuscolo d'una delle esperienze umane, fermo sul bivio della sua storia, si volge a guardare il lungo nastro del cammino compiuto, ha da porre alla sua coscienza violentata una serie di domande. Al nastro di partenza fu detto: «Noi non vogliamo separare i morti, né frugare loro nelle tasche per vedere quale tessera portassero». Abbiamo tenuto fede a questo dettame? Fu anche affermato: «L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno degli altri popoli». Abbiamo tenuto fede a questo dettame? Subito dopo, dieci righi sotto, si afferma: «L'imperialismo è il fondamento della vita per ogni popolo che tende ad espandersi economicamente e spiritualmente. Quello che distingue gli imperialismi sono i mezzi. Ora i mezzi che potremo scegliere e sceglieremo non saranno mai mezzi di penetrazione barbarica, come quelli adottati dai tedeschi». Abbiamo tenuto fede a questo dettame? Fu ancora declamato: «Se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, si inganna». E stato proprio così? Poi fu detto: «Dalle nuove elezioni uscirà un'assemblea nazionale alla quale noi chiederemo che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica!». Non passeranno più di vent'anni prima che l'intenzione, ormai svilita dalla tragedia, avesse attuazione? Ancora fu detto: «Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell'intelligenza». Volgendo lo sguardo alla strada del nostro passato, si notano le cunette colme di cadaveri. Le buone intenzioni furono scannate e buttate nel rigagnolo del realismo politico. Non solo separammo i morti e frugammo nelle loro tasche ma dividemmo manicheisticamente i vivi e li colpimmo per le loro tessere. Ci opponemmo all'imperialismo degli altri cavalcando il bianco cavallo dell'imperialismo italiano. I morti di Perati e di Filonowo ci chiedono ragione del loro sacrificio. Usammo ingiustificatamente i mezzi di penetrazione barbarica per renderli simili a «quelli adottati dai tedeschi». Pagammo col sangue la nostra superbia. Sulle balze di Cefalonia c'è una coorte di anime che offre al vento la sua nenia di morte. È l'eco dei singulti che torna, torna a martellare le nostre coscienze colpevoli. E non fu la borghesia ad ingannarsi. Furono ingannati i tanti che credettero ciecamente. Longanesi aveva visto giusto: il fascismo è bello non per quello che ha in sé ma per quello che promette. Con la borghesia si fornicò spudoratamente e ci si genuflesse davanti ad una monarchia che aveva fatto l'Italia fucilando, cannoneggiando, stuprando, bruciando i corpi e le anime del Sud e facendo bruciare e fucilare la gioventù italiana nei carnai del Pecinka, del Veliki Hribach, del Volkovniak. La repubblica arriverà quando l'Italia non sarà più che l'ombra di sé stessa. Tardi, troppo tardi. Quando i segni purulenti di quella dittatura della sciabola e del tricorno, del denaro e del numero aveva sbudellato le volontà e le intelligenze. Quelle volontà e intelligenze che dormivano il sonno eterno nelle steppe della Russia, fra gli spini slavi, sugli altipiani della Grecia, coperte dalle sabbie del Nord Africa e dai mari del mondo, disperse come polvere luminosa nei cicli dei fronti. Cosa poteva rimanere dopo? L'interesse egoistico di chi voleva usare quelle ossa calcinate per darsi un blasone di nobiltà che mascherasse il disdoro dei giuramenti spergiuri pronunciati, all'indomani dell'8 settembre, prima davanti alla monarchia fellona e poi al cospetto della repubblica disperata. I mercanti della propria anima non potevano fare altro che quello che hanno fatto: come magliari vendere le nostre anime credule.

Fiuggi non è una scheggia impazzita. Il conciliabolo dell'Ergife, pure. Tutti e due sono i punti d'approdo di una politica pluridecennale svoltasi all'insegna del tradimento. Solo così si può spiegare l'atteggiamento di chi è andato a sputare sulle tombe di El Alamein. Solo così si può capire lo sciacallo che si ostina a razzolare fra i sacelli. Di questo fango noi non respireremo gli afrori. Gli saremo nemici. Sì, hostis, non adversarius.

E non useremo più un linguaggio ch'è ormai ridicolo. I saluti romani, li manderemo da Roma. Da Torino saranno torinesi; da Palermo saranno palermitani. Il cameratismo è morto, sgozzato dai mille egoismi di omuncoli dediti al doppio gioco, a libro-paga dei padroni del mondo. È per ciò che abbiamo sepolto i nostri morti. Dove andremo? Laddove ci porterà il cuore. Fintante che avremo il coraggio di guardare il nostro volto riflesso e non proveremo ribrezzo, andremo avanti a convincere che un mondo preda della «demonia dell'economia» fagocita volontà e intelligenze, tritura coscienze e sentimenti, brucia popoli e genti. Fintanto che crederemo che ogni uomo non può essere perseguitato per il colore della sua pelle, per l'essenza della sua religione, per il carattere del suo credo, noi andremo avanti a tendere la mano ai perseguitati, fissi nella nostra convinzione che ci sarà sempre la iena che ululerà contro un altro figlio del creato. Partiti, organizzazioni, tessere, gradi, pennacchi? È ciarpame che abbiamo sepolto sotto la calce viva delle nostre sofferenze. Potevamo sfruttare partiti, organizzazioni, tessere per avere gradi e pennacchi. Abbiamo delle qualità ma non le spenderemo sui banchi di bassa macelleria. Noi offriamo al mondo i nostri pensieri. Scriviamo la nostra parola pensata e la doniamo. La prenda chi vuole. Se la rifiutano resterà parte di noi stessi. La nostra è un'offerta, non è una costrizione. Abbiamo bisogno di riflettere sulle piaghe del mondo. La riflessione abbisogna di silenzio. E da quel silenzio che scaturiranno gli urli della nostra coscienza. È questa la nostra «politicità». E non è poco.

Vito Errico

Indice