«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

John Smith e gli altri
 

Ci sono due John Smith. Il primo, lo si può trovare di regola nel «suo» ufficio tutti i giorni feriali. Dalle 9 alle 17. Là nella 34ª (o è la 37ª?) Avenue, salendo al 18° piano della «sua» Corporation, filiale di Boston. O siamo forse a Detroit? Comunque sia ed ovunque egli sia, si può esser certi d'una cosa: il nostro 27enne neolaureato in marketing è destinato a sicuro avvenire. Per convincersene, basta osservarlo ai briefings o davanti al computer. motivato, brillante, grintoso. L'altro John Smith compare anch'esso regolarmente. Ma solo dalle 17 in poi. Quando John Smith 1, dismessi gli abiti d'uomo in carriera, anziché tornarsene a casa (e magari leggere qualcosa di diverso da un bilancio aziendale), oppure invece d'andarsene al cinema con la ragazza, s'affretta a raggiungere la «sua» palestra, a tre isolati da lì, e trascorre le ore serali tra punging-ball, body building e karaté.

La mattina, poi, ogni mattina alle 6 in punto, il nostro baldo John Smith 2 esce di casa -un funzionale, accessoriato appartamento standard- con un berrettino rovesciato, tuta multicolore e «nike» ai piedi. E da così inizio alla razione quotidiana di jogging, giù nella 89ª Strada, avvolto dall'abituale, familiare insieme di plastica, cemento e pubblicità che accompagna lui, il suo percorso, le sue nike e i suoi pensieri.

John Smith uno-e-due è, si capisce, una figura metaforica. Così com'è frutto di finzione narrativa quella sua duplice, schizofrenica attività che, sempre uguale a sé stessa, giorno dopo giorno egli svolge. E che potrebbe egli svolgere, emblematicamente, in una qualsiasi delle anonime metropoli statunitensi; ovvero nelle loro appendici periferiche «all'aperto», dove aitanti e benestanti yankees usano praticare baseball, tennis, squash «and so on». Siamo dunque in presenza della versione a stelle e strisce del «mens sana in corpore sano». Personificata da un Tale che risulta, nella ricostruzione fantasiosa (ma non troppo) del suo personale american style, essere nient'altro che un americano-tipo. Tipicamente maniaco di un qualcosa e che, del suo fanatico agitarsi verso un non-sa-cosa, fa la «sua» ragion d'essere.

In altre parole si tratta -nel nostro caso- di un aspirante manager che presenta chiari sintomi da «overdose ginnica».

Un «caso», dicono gli analisti USA, assai frequente tra il ceto medio del Paese.

Per affrontarlo, i medici curanti abitualmente prescrivono un paio di sedute settimanali di terapia di gruppo, dove i tanti «sportivisti anonimi» come John Smith possono farsi ascoltare, confrontare i propri problemi, parlare tra loro di storie d'insicurezza, di malessere, di solitudine.

 

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Le statistiche, onnipresenti in America, ci rivelano che riunioni del genere si tengono un po' dovunque. Oltre che nei tradizionali studi degli strizzacervelli e nei deputati luoghi clinico-ospedalieri, sono le stesse grandi aziende a mettere a disposizione dei propri impiegati e dirigenti dei locali ad hoc; sono le chiese ad aprire canoniche, patronati e sacrestie ai nuovi riti della confessione di massa...

È stato calcolato in seicentomila il numero di sedute che mensilmente, da un capo all'altro degli Stati Uniti, coinvolgono una media di 15 milioni di «drogati». Drogati a vario titolo: chi da troppo sport e chi da troppa tivù; chi da sesso sfrenato, chi da shopping incontrollato. Vi sono terapie di gruppo per coloro che si sentono depressi davanti al colore giallo, e per quanti hanno in odio il blu. Si fanno sedute comuni per chi è insaziabile sino a trasformarsi in debordanti mostruosità, e per chi invece è incapace di toccar cibo ed è tutto pelle e ossa. Ci sono pazienti fra loro raggruppabili in quanto attratti morbosamente da gli/le scimpanzè, e pazienti che danno uguali sintomi di mancamento alla vista di ascelle pelose... Insomma, a scorrere una simile casistica patologica -anche non avendo alcuna dimestichezza con la psichiatria o la psicanalisi- si trae l'impressione d'essere di fronte all'ennesima «americanata». Ossia che detti gruppi terapeutici costituiscano anch'essi (come tutto, o quasi, di quell'esagerato Paese) un fenomeno di «dipendenza» collettiva.

Ma tornando a quei casi-limite (che proprio «limite» non sono, a giudicare dalla loro diffusione), questi riguardano soprattutto -e lo si può immaginare- la sfera della sessualità.

Una sessualità vissuta nella patria dei cow boys in modo caricaturale, estremizzato, «malato»; tra inibizioni puritane e pandemici eccessi. Alcuni dati esemplificativi possono, io credo, ben illustrare una tale «polarità» della vita comunitaria americana.

Il primo. Sta avendo grande successo, in special modo fra i teenagers, la «promotion» della Chiesa Battista (della quale è membro Bill Clinton - N.B.) per il «certificato di Verginità». A Orlando, Florida, ne sono stati distribuiti quest'anno, nel corso di una grande cerimonia, oltre 200.000 al prezzo di 10 $ ciascuno. L'iniziativa -di cui non si è mancato di sottolineare l'utilità a fini matrimoniali- va inquadrata nella più vasta e sinergica campagna pro-castità messa in piedi da un centinaio di confessioni religiose, delle 1450 ufficialmente riconosciute negli States.

Secondo dato, che fa da pendant al precedente: 1 americano su 4 subisce, prima del raggiungimento della maggiore età, abusi sessuali. Terzo ed ultimo dato, tra i tanti reperibili: nella sola New York gli stupri -omo et etero- sono saliti dai 1650 denunciati nel 1980 ai 22mila dello scorso anno; vale a dire, 60 al giorno - Pasqua e Natale compresi.

 

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Una prima conclusione: questa America -così tesa al successo e alla grandiosità; così presa dalla fretta e dal danaro- è drogata di sesso. Anche quando ne sia in (crisi di) astinenza.

E, si sa, per quel genere di «drogati» far l'amore diviene qualcosa di avulso dai sentimenti, dalla seduzione, dal piacere. È piuttosto questione di ricerca spasmodica di nuove eccitazioni, di affermazione distorta di potenza e di autorità. O forse si tratta di domanda inespressa di comunicare, di una richiesta perversa di solidarietà e di conforto... Ecco che -come si diceva- in un tale sistema così esasperato e disperante, così saturo di competitività e di violenza, l'americano medio risulta, nonostante le apparenze, essere particolarmente fragile. Vittima e carnefice al tempo stesso, per usare un'immagine alquanto abusata. Ma è comunque singolare, davvero, che una nazione dove è costituzionalmente garantito «il diritto alla felicità» offra invece, nella realtà, una vita sociale di alienante ripetitività e del più alienato conformismo. In parole povere: un sistema di vita noioso, che a volte (anzi: spesso) si tenta fuggire con l'aggressività e le droghe.

L'analisi non sembri troppo parziale o dettata da eccessiva animosità: a voler tacere della diffusività delle forme di violenza che sono parte integrante del background americano - è il concetto stesso di droga che, alla luce di ciò avviene altreoceano, occorrerebbe forse rivedere. «Droga» non è solo la sostanza stupefacente: tipo cocaina, crack, eroina ecc. (di cui gli USA -il 2,5% della popolazione mondiale- consumano i 2/3 dell'intera produzione del globo); «droghe» non sono soltanto alcool e tabacco, ovvero le pillole antidepressive o le multicolori pasticche stimolanti, tranquillizzanti, eccitanti ecc. (di cui in USA fanno uso abituale il 60% degli ultraventicinquenni). No, la vera droga è la società americanomorfa. È «il benessere», è «il mercato», è «il progresso», che in essa si incardinano, a costituire la più potente e micidiale forma di condizionamento.

Dobbiamo augurarci che l'epidemia si plachi. Che il contagio di coca cola e di McDonald's, di Levi's e hamburger non arrivi oltre. Non rimane però molto spazio per l'ottimismo.

Molte altre città sembrano già brutte copie di quelle nordamericane. Pulsioni, emozioni, ritmi che un tempo le arrivavano vanno sempre più appiattendosi al modello unico planetario...

No, non c'è di che essere tranquilli. Il fantasma di John Smith s'aggira minaccioso, in Europa e nel resto del Mondo.

E magari si trattasse «solo» di allucinazione...

Alberto Ostidich

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