«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Intuire una mèta
 

"Tabularasa" esprime già nel titolo un'accezione umana ed intellettuale scevra per tendenza da incrostazioni e «ricordi infiniti». Il che vuoi dire avventurarsi, senza tregua, nei territori inesplorati del Politico, gettandosi alle spalle quanto possa risultare ingombrante, superato, inerte.

Il momento che la società italiana sta attraversando rende propizio un simile atteggiamento, obbligando di fatto a porsi di fronte a sé stessi, qualora beninteso si viva problematicamente questo scampolo di storia e si voglia soprattutto continuare a pensare.

È altrettanto vero che elaborare quelle che chiamiamo «nuove sintesi» non è auspicabile che vadano a cadere in una sorta di irrealismo senza radici, magari sacrificate in vista di una proiezione strategicamente dignitosa, ma numericamente debole. Non parlo di voglia di conservazione, ma per aver non poche volte constatato una serie di ricorrenti fattori dispersivi e, oggi come oggi, a mio avviso dissuasivi. Nell'area fascista, post-fascista, nazionalpopolare -la si chiami come si vuole- una tendenza alla rivisitazione mi sembra di averla letta di continuo nei ragionamenti e negli interrogativi. Anche la retorica del gagliardetto ha fatto la sua parte. Ed è stata notevole, condizionante. Specie quando, nel partito di Michelini ed Almirante, è stata reiteratamente e scientemente strumentalizzata da vertici senza scrupoli. Chi professava quel modo di essere «fedele» ha interrotto la «continuità» sulla via di Fiuggi, tra l'altro, in un modo o in un altro la videopolitica ha fatto breccia tra gli «esuli in Patria», fulminati dalla conversione al verbo partitocratico.

Rimangono quelli che, malgrado tutto, non hanno abbandonato i gagliardetti ed i ricordi, ostinandosi a sfogliare e risfogliare un album gelosamente custodito. Confidare su un abito mentale così consunto non potrà certo essere pagante. Difficilmente consentirà di render vivo e non immalinconito un messaggio politico alternativo. Difficilmente si potrà, con ciò solo, costruire una realtà mobilitante ed un disegno ideologico vincente.

Più chiaramente, è questo il problema che mi pare stia venendo alla luce laddove si guarda alla rinata «Fiamma tricolore». Del resto, siamo al «tema del giorno» anche a seguito di questa iniziativa, e non possiamo nasconderci certe dimensioni equivoche che si stanno accompagnando al parziale ricompattamento elettorale d'area posto in essere. Parziale, perché punteggiato dai dissensi e dalle riserve. Compilarne ora la lista mi sembra inopportuno: mi limito -di passaggio- a porre in rilievo un persistente dogma di «infallibilità» che a tratti sembra trapelare da certi atteggiamenti del vertice; non disgiunti, ancora una volta, da una scoraggiante distanza dal metodo della collegialità. Preciso che sono impressioni -però non solo mie- forse rafforzate dalla consuetudine verticalistica e un po' settaria che ha sempre contraddistinto l'organizzazione delle mozioni Rauti in seno al vecchio MSI-DN. È vero, altresì, che chi ha aderito al Movimento sociale del dopo-Fiuggi potrebbe invocare i tempi ristretti attraverso i quali si è espressa l'idea della ricostruzione di una forza nazionalpopolare in grado di gareggiare elettoralmente. È una cosa di cui dare atto, che sarebbe poco ragionevole non riconoscere, ma che non riesce a dissipare i dubbi.

 

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Di dubbi, devo dire, che non riesco a fare a meno di parlare anche quando ripenso alle «nuove sintesi». Sull'idea, si converrà tutti, aleggia intrinsecamente un fascino particolare. A parte le declinazioni personali, il senso dell'avventura politica e culturale ci è connaturata. È per questo che siamo tutti un po' viandanti. È però importante che –almeno- si sia in grado di delineare una mèta, o anche solo di «intuirla». Un obiettivo, cioè, concretamente collocabile nell'orizzonte delle possibilità storiche.

Un'idea che non trova «gambe per camminare», per quanto nobile possa apparirci, sarà sempre più rassomigliante ad un'illusione amorosa, ad un sentimento non corrisposto. Dando al disinganno, alla fine, una versione molto vicina alla classica «via dell'esilio», che si imbocca figuratamente quando i tempi non lasciano più nulla da dire.

 

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Per dare il via all'«azzeramento», per ripartire culturalmente e politicamente da una base di lancio rinnovata, occorre infatti la presenza ineludibile di nuove sponde, di interlocutori all'altezza del compito ed in grado di compenetrare l'idea di una rifondazione a tutto campo nel Paese.

Su questo nutro più di una riserva. Me lo impone una serie di constatazioni per nulla pregiudiziali, che non mi fanno confondere il dialogo che qua e là può affiorare nella «terra degli infedeli» o in certe colonne di giornale con la possibilità effettuale, tangibile e non inconcludente di mettere a fuoco, oltre le mere dichiarazioni di principio, una strategia comune e trasparente: fatta di identità chiare, decifrate e di disegni istituzionali che traccino, oltre la sfera del contingente, la proposizione rivoluzionaria di certi princìpi. Nella società civile certe istanze sono certamente emerse. Quelle del rigore nella gestione della cosa pubblica, il rifiuto dei tanti «ismi», la stanchezza per certe vecchie ombre della politica parlamentare. Ma sono istanze che non mi sentirei di individuare in una esigenza di radicalità. Ad esempio, il fattore Di Pietro ci sta consegnando tutto il carico di contraddizioni che anima il malessere italiano. Che appunta le sue brave speranze in personaggi che possono riscuotere una ragguardevole credibilità malgrado i loro punti oscuri, la disinvoltura nelle frequentazioni -estemporanee, capricciose ed incoerenti- e la assoluta banalità dei ragionamenti politici. Sondaggi legati ai tentativi di ricomposizione qualunquistica del centro lasciano, sinceramente, la consapevolezza della marginalità ad un metaforico «giovanotto di belle speranze» bocciato dalla quotidianità.

 

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Queste valutazioni dipenderanno forse dalla personale percezione dello «stato degli atti» che si connettono al Fascismo eretico. Per me è importante discernere l'attualità e l'attuabilità. Poiché, oggi, le sfide lanciate dalla complessità, dai fasti distruttivi e decadenti della tecnicizzazione, dal vortice della secolarizzazione, riporta di continuo alla ribalta proprio le lucide intuizioni delle rivoluzioni nazionali del XX secolo. I sistemi codificati della democrazia capitalistica quando evocano, per un riflesso secondario, l'alterità, non possono fare a meno, dopo cinquanta anni, di vederla esplicitata -ipso facto- dai nostri contenuti. In questo senso, appunto, la dinamica storica ci rende -nella piena espressione di una vocazione trasgressiva- pienamente attuali. Ma le sue articolazioni di potere, la profondità dello snaturamento sociale, la crisi della volontà individuale di affrancarsi dall'egemonia dell'Utile, ci inibisce -ancora- la attuabilità; che resta in ogni caso in una condizione di dipendenza di circostanze aggettive, epocali e morfologiche. Non mi piace nascondere l'insidia del settarismo che, specie in certe sue valenze nichilistiche, potrebbe trarsi come via d'uscita giustificata da un'avversa «ciclicità». Però, fare «tabula rasa» credo che significhi, anche e soprattutto, mettere da parte l'inclinazione rinunciataria a farsi «Custodi dell'Idea», spesso e volentieri incadaveriti da un incedere abitudinario del pensiero e delle scelte.

Sull'attuabilità gioca un ruolo non indifferente il carico di energie in grado di mobilitarsi e con l'ambizione di scendere in campo malgrado le evidenti difficoltà di vario ordine. A leggere ed a parlare con chi vive ed opera all'interno di questa «area» così frastagliata ma mai in disarmo, le opzioni controcorrente (e le «gambe» con le quali camminano) emergono. E sono certamente non poche, anzi –diciamolo- troppe. Rubo un po' di spazio per citarle, senza voler dare le «pagelle». MS-Fiamma Tricolore, Movimento Antagonista-Sinistra Nazionale, Movimento Fascismo e Libertà, Opposizione Nazionale, Movimento Politico Ooccidentale, Base Autonoma, Fronte Nazionale, Lega Nazionalpopolare: tutte iniziative -e qualcuna mi è sfuggita sicuramente- che hanno veicolato e continuano in alcuni casi a veicolare, intelligenze ed attivismi che, tutti insieme, hanno dato una (eterogenea) dimensione spaziale all'antagonismo radicale e sociale presso il quale abbiamo in generale depositato le nostre credenziali.

 

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Non è per nulla paradossale che queste energie e questi ambienti, invece di dare forza ad un'ipotesi di alternativa politica a questa Repubblica, globalmente concepibile, costituiscano un elemento pregnante di debolezza, fatta peraltro di dissapori personalistici e di divisioni che il comune cittadino, quello che si accontenta di un Di Pietro, non riuscirebbe mai ad afferrare. Devo dire che questo rilievo accompagna da anni le mie letture e le frequentazioni: facendomi sempre tenere presente, in altre parole, la profonda divaricazione tra il valore del portato teorico, cioè lo spessore delle idee e la insufficiente predisposizione ad un comune lavoro e ad una sinergia generale. La divaricazione tra l'attualità, lo sottolineavamo, ed una condizione fondante dell''attuabilità: la capacità di fare politica e di scendere su questa terra. Dare un seguito a quanto sinora costruito spetta in ultima istanza ai protagonisti medesimi. Recidendo ovviamente legami con gli atteggiamenti da pulpito, volando un po' più bassi e chiosando i vaticinii e le prose sacre. Senza leggere nella cronaca i continui prodromi della catarsi, senza paventare nel dialogo un'infezione della Parola.

Roberto Platania

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