«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Quelli che ... Di Pietro


 

M'ero ripromesso di star lontano dal «teatrino» della politica fino al 1996: appena qualche settimana. Vuoi per gli asfissianti impegni di lavoro; meno per non far fare a Michele Serra la figura del coyote che abbaia alla luna, lasciandolo solo a disertare le cronache dai... palazzi; forse perché, come la stragrande maggioranza di quei quattro gatti d'italiani ancora liberi ed indipendenti, mi son proprio rotto i... Che bello! quattro giorni senza i soliti «quotidiani», senza tivù. Certo è foltissima, quando vi passi a qualche metro, la tentazione di sbirciare tra i titoli della bacheca, accanto all'edicola. Poi t'accorgi ch'essi restano appesi al dubbio amletico «elezioni sì - elezioni no» e ne trai rinforzo: come bevendo un whisky dopo qualche giorno che hai buttato via il pacchetto di sigarette, nell'illusione di smettere di fumare. Quel sabato (9 dicembre 1995, N.d.A.), in un clima oramai pre-natalizio, avrei dovuto uccidere mia moglie, magari scaraventarla fuori dalla finestra come si fa col malcapitato piatto «augurale» la notte di S. Silvestre. Sarebbe così finita per strada quella copia de "la Repubblica", arrotolata a bella posta sotto il muliebre braccio, sicché ne leggessi il titolo a tutte colonne: «Ecco il mio programma»: firmato: Antonio Di Pietro.

Fine, anzi inizio delle trasmissioni. Ed il mio sciopero-astinenza, con buona pace di Michele Serra, era già andato a farsi benedire. Potevo non leggerlo quel programma? Alcuni commentatori l'hanno addirittura definito un «manifesto» politico. Non me ne voglia il Tonino nazionale se m'è sembrato un compitino senza infamia e senza lode, scopiazzato sui sempre disponibili «Bignami», consegnato quasi fuori tempo massimo alla Onorevole Commissione giudicatrice del concorso per l'ammissione al salotto liberal-radical chic della politica nostrana. Dove tutto cambia per restare come prima: gattopardescamente. Ho grande stima, l'ho pubblicamente affermato e più volte scritto, del Magistrato che ha contribuito con la sua meritoria azione a scoperchiare tangentopoli. Perciò resto perplesso, vorrei dire sconcertato, della sua «discesa in campo». Non solo e non tanto perché essa si alimenta della notorietà conquistata attraverso la demolizione dei vecchi equilibri politici utilizzando una «Toga» che, di conseguenza, doveva restare al di sopra delle parti e fuori dalla mischia; quanto perché essa somiglia nei modi, nei tempi, nel clamore che suscita, nelle contraddizioni ed ambiguità di cui è pervasa, alla discesa del Cavaliere di Arcore, di cui Di Pietro si autoproclama antagonista. Le vie della grande restaurazione sono infinite. Un po' di prudenza nel giudizio, quanto nel facile entusiasmo non guasta davvero. Del resto, l'ultimo «nuovo» apparso sul proscenio -sol che avesse continuato a fare il mestiere nel quale eccelle (restano, infatti, oscuri i motivi dell'abbandono)- poteva davvero essere l'Uomo della Provvidenza, l'artefice della catarsi morale di questo nostro sventurato Paese. Da politico sarà, come ci ha anticipato, naturalmente liberista, esaltatore delle virtù taumaturgiche del Mercato, ovviamente nella solidarietà (più mercato, meno stato: non l'avete già sentita?), euromaastrichsta, antitrustista, piuttosto regionalista che federalista, semipresidenzialista e doppioturnista (un colpo al cerchio e l'altro alla botte, secondo migliore tradizione democristiana), infine corporativista in tema di Giustizia. Così è se vi pare, direbbe Pirandello. Perché stupirsi se quel programma va bene alla destra come alla sinistra? Anzi, è proprio l'universale entusiastica accoglienza a dimostrare, da un lato, quanto esso sia vago ed indefinito, ma anche quanta indeterminatezza, confusione e pressapochismo ci siano negli attuali schieramenti. Ovvero: di come sia artificiosa e strumentale la distinzione destra-sinistra, facce di una stessa medaglia, incapaci di individuare idee-forza che ne definiscano identità, ne rimarchino confini e differenze. Non basta andare due giorni in Convento o conquistare a maggioranze silenziose, quanto qualunquiste, il «sacrario» di Piazza S. Giovanni (cari onorevolissimi D'Alema e Fini) per riempire di contenuti i rispettivi partiti, per dare un progetto alle proprie irresistibili ambizioni. Ci vuoi ben altro. Né ci si può meravigliare -quando si insegue la moderazione ed il «centro»- se alla fine a De Mila vien voglia di rifare la DC ed al trio Borselli - Del Turco - Larizza di riesumare non l'idea socialista -tutt'altro che morta!- quanto il cadavere del vecchio partito craxiano. Chiusa parentesi.

Mi vien fatto di scrivere, pagando a Jannacci i diritti d'autore: quelli che aspettando Di Pietro, si dividono in due categorie.

Ci son quelli che già si sentono deputati; quelli che adesso ci prendiamo una rivincita; quelli che Di Pietro è di sinistra; quelli che invece è di destra; quelli che tanto starà da solo. Tutti questi fan parte del gruppo di quelli che Di Pietro gli «altri» li mette in galera; quelli che... l'ordine e la disciplina, purché mio figlio non fa il militare e se lo fa non va in Bosnia e neppure a Pinerolo; quelli che ci vorrebbe un colpo di stato per evitare rivoluzioni; quelli che i neri puzzano ed hanno l'AIDS; quelli che Di Pietro salverà l'Italia (oh yè!); quelli che fino al 24 luglio erano tutti fascisti, il 25 gli son venuti i dubbi e l'8 settembre gli son passati, perché Badoglio era un grande generale; quelli che a Piazzale Loreto avevano cambiato spartito e cantavano «bella ciao», quindi divennero andreottiani, craxiani, berluscon-finiani... sempre italiani (oh yè!).

Insomma, ben arrivato Tonino da Montenero al club dei «moderati», dei liberal-liberisti. Qualcuno s'era illuso che potevi contribuire a salvare la baracca di quelli che fanno i conti con il freddo e la fame (ed i conti non tornano mai); di quelli che al mercato ci vanno per rovistare nelle immondizie; di quelli che un salario non l'hanno mai visto e quelli che l'hanno perduto; di quelli che la disperazione e l'emarginazione uccide giorno dopo giorno, non solo nel terzomondo, ma anche a casa nostra, dalle parti tue, caro Di Pietro, in quel meridione saccheggiato e colonizzato.

Lo so, griderai che questo è populismo, pura demagogia. Che ci voglion proposte. Credi che non ci siano? Solo i moderati di destra e di sinistra dispongono di televisioni e giornali, mentre gli «estremisti» si raccontano puttanate su una rivista che, tuttavia, leggi anche tu. Insomma, vecchia pellaccia, chi se ne frega! Se proprio non ci sarà nessuno che vorrà alzare la voce contro le ingiustizie di questo modello di sviluppo, contro i costi umani, ambientali, esistenziali che comporta, se nessuno saprà dire «io non ci sto»... altro che sciopero! ci toccherà farlo noi un partito. La vita non è fatta solo di elezioni, quozienti, seggi e prebende. Dobbiamo lasciare ai nostri figli la stessa eredità morale e spirituale che i nostri Padri ci hanno consegnato. La stessa voglia di lottare, di andare controcorrente, di arrampicarsi con le unghie lungo le ripide ascese, eppoi la vetta... eppoi il sole. Siamo rimasti in pochi ad avere ancora qualcosa in cui credere. In un mondo arido ed uniforme, la grande speranza. Il sogno che ritorna, nella società dei computer, della cibernetica. Il sogno da vivere all'aria aperta per condividerlo con lo «straniero», con chiunque voglia comunicarsi emozioni, passioni e sentimenti rifiutando ogni ghetto.

Quand'anche questa fatica fosse sterile di risultati, ci avrà consentito di continuare a guardarci negli occhi, a testa alta, senza nulla di cui doversi vergognare.

Di Pietro o di gesso, la prima impressione è che si tratti di materia assai diversa di quella di cui siamo impastati fino ad esserne prigionieri. Coraggio! Ci toccherà tirar fuori le palle. Che di esse più d'uno ha paura!

Beniamino Donnici

Indice