«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Ajmone Finestra. Sindaco di Latina. Autore di stimolanti memorie di guerra

I due de bello di un ufficiale della RSI
 

 

Ajmone Finestra, il sindaco-scrittore, così conclude le 252 pagine del suo volume "Dal fronte iugoslavo alla Val d'Ossola - Cronache di guerriglia e guerra civile", editore Mursia: «I tempi sono ormai maturi per imporre un approfondimento del passato senza sminuire la partecipazione dei combattenti che si batterono nella guerra civile in due diversi schieramenti entrambi animati da ideali».

Ottimo programma all'avvio del quale l'Autore fornisce un contributo di assoluta originalità inserendo nel tessuto memorialistico una sorta di «tribuna libera», destinata a dare la parola a prestigiosi esponenti della Resistenza e della cultura resistenziale espressivi delle varie sensibilità politiche, ideologiche, culturali in esse confluite. E non certo per svillaneggiarli, bensì a fini di precisazione, rettifica, confronto. Né poteva essere diversamente, il Finestra essendo personaggio di gran garbo, di affidante moderazione, di equilibrio sicuro; così come, del resto, si conviene a un uomo chiamato dal voto popolare a reggere le sorti di una città dell'importanza di Latina dopo avere fatto le sue prove nazionali a livello istituzionale nel Senato della Repubblica per due Legislature.

Dunque, la giusta intuizione del Finestra di dare spazio a dirigenti e pubblicisti dell'antifascismo rinunciando a monologhi celebrativistici che lasciano il tempo che trovano, consente al Lettore -così fruente di un comportamento politico-letterario del tutto inedito nella narrativa, nella testimonianza bellica, nella produzione culturale di genere lungo l'arco del mezzo secolo che ci separa dalla lotta fratricida- non solo di sentire tutte le campane che suonarono, spesso a morte, purtroppo nei tenitori oltre la Linea Gotica, ma anche di prendere contatto con elaborazioni, spunti di pensiero, interpretazioni della storia, testi, linguaggi, peculiarità di linea totalmente ignoti non solo alle generazioni più recenti ma perfino a quelle che vissero la tragedia nazionale del '43-'45.

I compilatori utilizzati da Ajmone Finestra? Ecco alcuni nomi, italiani e stranieri, che citiamo alla rinfusa: Giorgio Bocca, Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Denis Mack Smith, Mario Giarda, Pippo Coppo, don Casimiro Del Signore etc. etc. Naturalmente parlano anche gli uomini della RSI, anzitutto Mussolini ma anche il «liberale» ministro di grazia e giustizia Piero Pisenti, di cui il giornalista Mario Meneghini traccia un profilo non infondatamente accattivante. Certo, il libro di cui veniamo discorrendo reca la firma di un ufficiale fascista fortemente legato alla sua identità, schieratissimo, senza tentennamenti e pentimenti, oggi politico e pubblico amministratore ormai postfascista dopo quello che il Bocca chiama il «lavacro di Fiuggi». Tanto più apprezzabili, quindi, certi tratti di sicuro caratterizzanti il discorso finestriano in positivo; efficaci nel controbilanciare taluni aspetti accentuatamente fideistici, devozionali, forse addirittura mistici -da «Scuola di Mistica Fascista», per intenderci- che appesantiscono una esposizione normalmente scorrevole, gratificante, da sperimentato homme de piume. Sorretta, peraltro, da una documentazione di prima scelta, vasta, peregrina. Quali questi «tratti», oltre il «contraddittorio» concesso a un nemico che Ajmone Finestra tenta con evidenti sforzi psicologici e concettuali -non di rado ben riusciti- di elevare al rango di avversario e forse perfino di interlocutore, pur nei limiti consentiti da un'opera che affonda le sue radici in una orrenda guerra civile e dobbiamo alla penna di uno scrittore che ad essa partecipò ed è oggi politicamente impegnato in una formazione sorta dalle sue visceri? E presto detto: anzitutto, la insistita, commossa asseverazione della negatività assoluta dello scontro fratricida del proprio popolo e non soltanto di esso. Quindi, e quando i «fatti» glielo rendono possibile, il riconoscimento pieno, leale, senza mezzi termini delle qualità morali, militari, patriottiche di coloro che sparano dall'altra parte della barricata. E i «fatti» lo inducono ad accordare riconoscimenti alle divisioni partigiane dette degli «Autonomi» -fazzoletti azzurri al collo- ben più vistosi, convinti, talvolta addirittura fraternizzanti che non alle «Garibaldi», vale a dire al partigianato comunista, con il quale la lotta intestina conobbe momenti di impareggiabile ferocia, priva di «complimenti» da una parte e dall'altra. Inoltre, l'Autore non lesina critiche anche dure all'occupante-alleato, responsabile dello sparpagliamento delle forze dell'Asse lungo troppi e troppo estesi teatri di guerra, e in primo luogo, ovviamente quello russo, vero sepolcro del famoso Ordine Nuovo Europeo vanamente scritto sui vessilli dell'alleanza italo-germanica. Altro pregio del lavoro del sindaco-scrittore è da cogliere nella estrema franchezza -scomoda, scomodissima- che caratterizza le sue analisi della vicenda di Salò. Per esempio, non ristà dall'ammettere il favore delle popolazioni per la causa dei «ribelli». Magari con parole come queste: «La città, in festa per la liberazione, aveva alle finestre un'infinità di stendardi rossi; rare le bandiere bianche rosse verdi. La popolazione partecipava alla vittoria della Resistenza applaudendo i garibaldini vincitori. L'autocolonna italo-tedesca, nel rispetto più assoluto, attraversò in armi le vie di Novara concentrandosi nella caserma Cavalli». E visto che siamo alle citazioni ecco come il Finestra si pronuncia allorché con la sua consapevolezza di soldato coglie quanto c'è di positivamente, di straordinariamente comune negli italiani pur quando le loro scelte decisive lancinantemente li contrappongono: «Con Beltrami (un eroico ufficiale dell'esercito comandante dei partigiani Autonomi (N.d.R.) caddero Citterio, il giovane Pajetta e otto partigiani. Testori e Bettini riuscirono a sfuggire all'accerchiamento portando in salvo una quarantina di uomini. La difesa fino all'ultimo del Certavolo dimostrò che gli italiani, pur divisi dalla barriera di odio e di sangue della guerra civile, seppero battersi e morire con coraggio e dignità.» Ancora più impegnativo questo ulteriore giudizio: «Le formazioni comuniste, note come divisioni garibaldine, distinte dalle altre forze partigiane dai fazzoletti rossi al collo e con la stella alpina al bavero dell'uniforme, dimostrarono nelle numerose imprese di guerriglia e in vere e proprie battaglie con i reparti regolari e ausiliari della RSI e delle forze tedesche, maggiore aggressività e iniziativa delle formazioni partigiane autonome. Ciò non vuol significare che le divisioni autonome mancassero di slancio e di combattività, ma soltanto sostenere che i combattenti comunisti avevano l'entusiasmo e l'impeto caratteristico delle truppe d'assalto».

 

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II volume del sindaco-scrittore contiene in realtà due libri. Volutamente, ci siamo anzitutto espressi sul secondo, che scherzosamente -ma non troppo- abbiamo chiamato il "De Bello Civili", scritto con una penna che se non è quella di Cesare è di un ufficiale della RSI capace di adoperarla con valentìa dopo averla intinta nella cultura storica prima ancora che nell'inchiostro. Veniamo ora a quelle che, altrettanto giocondamente, chiamiamo il "De Bello Jugoslavo", relativamente al quale ci affrettiamo a dichiarare che trattasi di pagine assai utili per comprendere ciò che più di mezzo secolo dopo è successo, forse ancora succederà, nelle terre su cui regnò prima un Karegeorgevich imberbe e, quindi, un leader comunista dall'eccezionale carriera e dal non comune ruolo anche internazionale, anche a livello di elaborazione teorica e di rinnovamento politico.

Già abbiamo affermato che quest'opera di Ajmone Finestra si legge volentieri, con vero diletto intellettuale; anche perché l'Autore conosce a menadito l'arte di sollevarsi al di sopra della propria collocazione di parte, del proprio passato di combattente per valutare con distacco, correttamente, con grande obiettività, l'identikit vero del nemico, in tal modo sfuggendo alle suggestioni e ai fumi della propaganda. Vediamo, ad esempio, come presenta la figura di Josip Broz, meglio conosciuto come Tito: «Broz, animato da idealismo per la causa dei deboli e degli sfruttati, forte di un'esperienza vissuta nella sua stessa famiglia in terra di Croazia, tra stenti e sofferenze, testimone della rivoluzione bolscevica che vide da vicino quale soldato dell'esercito austro-ungarico prigioniero nella Russia degli zar, si rivelò uno dei più abili agenti del Comintern al servizio di Mosca [...] Il merito più significativo a lui attribuito fu quello di essere riuscito a coagulare intorno alla sua figura uomini e donne, giovani e vecchi di classi sociali, di religioni e di etnie diverse. Seppe imprimere ai suoi combattenti slancio, entusiasmo, ferocia per battersi contro gli occupatori, le ingiustizie e la miseria [...] Dal punto di vista sociale ebbe la capacità di offrire la speranza del riscatto dalla schiavitù e dallo sfruttamento ai ceti contadini e operai che si consideravano impoveriti e oppressi dalla borghesia filo-monarchica di Belgrado». E ancora: «Broz approfittò dello smembramento e delle mutilazioni dei territori jugoslavi per far leva sui sentimenti etnici al fine di condurre a fondo la lotta rivoluzionaria. Dimostrò grande abilità nel mediare l'antagonismo tra croati cattolici, serbi, ortodossi e musulmani».

Insomma: fece esattamente tutto ciò che si doveva fare per trasformare la caleidoscòpica e insensata costruzione balcanica di Versailles in uno stato federale talmente solido da sostenere, dal '48 al '56, il terribile urto ideologico-militare dei paesi del cosiddetto «socialismo realizzato» capeggiati dall'URSS di Stalin ed uscirne vittorioso. Talmente ispirata ad una dottrina fortemente peculiare sotto il profilo della interpretazione creativa del pensiero di Marx e di Lenin da consentire alla Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia di svolgere uno straordinario, eccezionale compito di guida morale e strategica del grande, complesso, composito blocco dei paesi cosiddetti «non allineati». Insomma: fece tutto ciò che non aveva saputo fare la Reggia belgradese, il cui giovanissimo Inquilino dovette gettare la spugna insieme al Reggente Paolo poche settimane dopo lo scoppio della guerra e a riparare a Londra. Fece tutto ciò che non sapranno fare coloro che hanno portato allo sfacelo in una Jugoslavia ormai scomparsa gettando i suoi popoli in nuova guerra civile dalle incommensurabili dimensioni e dalle altrettante immani conseguenze politiche, economiche, morali, esistenziali. L'Autore è, naturaliter, anticomunista della più bell'acqua; ma, ad onta di ciò, avverte una attrazione storico-intellettuale per la figura di Tito, da lui elevato alla dignità di «carissimo nemico», per usare il titolo di un remoto libro dì Vittorio Gorresio licenziato alle stampe quando, all'epoca della Costituente, il mitico commentatore de "La Stampa" insieme ad altri intellettuali liberali elegantemente discettava con Togliatti, in appartate trattorie della Capitale, sui sonetti di Guido Cavalcanti. Così passa a descriverlo come eroe schiettamente nazionale-popolare, dicendo fra l'altro: «La resistenza partigiana comunista nei Balcani nacque dalla capacità di Tito nel saper coniugare valori nazionali con princìpi popolari, dando forma e sostanza a un originale comunismo patriottico che indusse numerosi jugoslavi di tutti i ceti a schierarsi con l'esercito di liberazione». Certo, di tanto in tanto il Finestra si lancia in concessioni banalizzanti al demonismo antimarxista, accennando ad un «veleno marxista». Ciò finisce per collocarlo in controtendenza rispetto alle cose da lui stesso dette. Probabilmente ritiene che un fascista -«vetero» o «post» che sia- non possa sottrarsi a certi «doveri» di attacco alla Sinistra. Ma ad un uomo di fine cultura quale egli indubbiamente è non possiamo non ricordare che perfino il Duce ebbe rapporti di amorosi sensi con il pensiero di Marx, anche nella piena fase fascista. Vediamo cosa dice in proposito, per esempio, Curzio Malaparte nella "Tecnica del colpo di Stato": «La tattica seguita da Mussolini per impadronirsi dello Stato non poteva essere concepita e attuata che da un marxista. Non bisogna mai dimenticare che l'educazione di Mussolini è un'educazione marxista [...] Mussolini, che giudicava la situazione da marxista, non credeva alle probabilità di successo di un'insurrezione che avesse dovuto combattere al tempo stesso contro le forze del governo e le forze del proletariato. Il suo disprezzo per i capi socialisti e comunisti, che non osavano decidersi a impadronirsi del potere, non gli impediva di disprezzare tutti coloro, come D'Annunzio, che si proponevano di rovesciare il governo senza prima essersi assicurata almeno l'alleanza e la neutralità delle organizzazioni operaie. Mussolini non era uomo da fasi spezzare la schiena da uno sciopero generale. Egli non disconosceva, come il Gabriele nazionale, l'importanza del compito del proletariato nel gioco rivoluzionario. La sua sensibilità moderna, la sua intelligenza marxista dei problemi politici e sociali del nostro tempo, non gli lasciavano illusioni sulla possibilità di fare del blanquismo nazionalista nel 1920 [...] È da marxista che egli valutava le forze del proletariato e il loro compito nella situazione rivoluzionaria del 1920, è da marxista che egli giungeva alla conclusione che bisognava anzitutto spezzare le organizzazioni sindacali dei lavoratori [...] In realtà, il programma del fascismo nel 1919, nel quale la grande maggioranza delle camicie nere credevano sinceramente [...] era repubblicano e democratico. Ma non è il programma del 1919 che rivela l'educazione marxista di Mussolini: è la concezione della tattica del colpo di Stato fascista, la logica, il metodo, il rigoroso esprit de suite della sua applicazione [...]».

Inevitabile questa lunga citazione testimoniale, convinti come siamo che Ajmone Finestra abbia visto giusto nel definire Tito un «nazionale-popolare», così come lo era il Mussolini del '19 prima di commettere l'errore -inevitabile?- di rinculare su posizioni nazional-conservatrici con il compromesso del '21. Stranamente, a rafforzare l'intuizione finestriana ha provveduto l'archivio personale di chi redige queste note, dove abbiamo trovato un libello del Cominform saettato negli Anni Cinquanta contro il fondatore della RPFJ. Esso reca come titolo "Il Titofascismo": sicuramente una minatoria e aggressiva pulcinellata.

Ma, signor Sindaco, a Napoli si dice che Pulcinella, «pazziando pazziando», diceva la verità.

Enrico Landolfi

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