«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno IV - n° 7 - 31 Dicembre 1995

 

Una cultura impegnata
 

Con una stimolante provocazione del proprio direttore "Pagine Libere" si sono aperte a dibattere il ruolo e le prospettive dell'azione culturale nell'odierno quadro politico.

Il primo intervento, quello di Giano Accame -teso ad evidenziare, lungo il filone della denuncia estiva presentata da Stenio Solinas su "il Giornale", le carenze ideali e programmatiche del cosiddetto Polo sociale- è stato condotto con l'abituale, elegante distacco, che (detto per inciso) nulla farebbe supporre circa personali delusioni per la mancata nomina a mattre-à-penser dell'area polare suddetta. La replica di Ivo Laghi, della quale mi è parso (inciso n° 2) dover cogliere soprattutto la preoccupazione di non farsi trovare in totale accordo con Accame, ha chiuso questa fase del dibattimento. Ma, a quanto se ne sa, il processo continua.

Pare dunque lecito ed opportuno che anche "Tabularasa" -indirettamente citata e sbrigativamente annoverata fra quanti si trovano ad essere «pregiudizialmente estranei e ostili» alle vicende culturali, o quasi, della compagine neoalleata- intervenga, e porti la propria testimonianza. Una presenza processuale, la nostra, che rivendichiamo, non solo in veste probatoria. E nemmeno al solo fine di replicare, dissentire o concordare sulle varie diagnosi succedutesi in merito alla anoressia culturale della destra, di quella destra (: ammesso che ne avessimo titolo, non ci sarebbe -io credo- abbastanza interesse), bensì per chiamare in causa -ci si perdoni l'ardire!- la cultura, la cultura tout-court.

 

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Dice bene il nostro a.c. su "Tabularasa" del 31 ottobre: «... se nel tempo di oggi abbondano superficialismo intellettuale e confusione morale; se in ogni dove imperversano cafoni orecchianti pseudo-cultura; se gli iniziatori dei nuovi valori predicano l'ineluttabilità di un avvenire meccanicistico ...» se cosi è, è alla cultura senza etichette che dobbiamo rivolgerci. Per occuparcene e preoccuparcene.

Perché se è vero che «la» cultura, quale ne sia la collocazione, deve rendersi eluttabile nei confronti dell'ignoranza, dei pregiudizi, dei luoghi comuni, degli idolo individuali e sociali; se cioè la cultura riveste, idealisticamente, la funzione di eluctari, di «vincere lottando» gli errori nostri e altrui - ebbene, le suaccennate preoccupazioni non mancano davvero.

 

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È il vuoto, difatti, a riempire la scena, in Italia e altrove. Una specie di assuefazione al nulla, prodotta dal frastuono dei media, dal bombardamento stupido della TV, dai fasti della cultura-spettacolo, dal profluvio di inutilità che percorre libri, dichiarazioni, saggi e messaggi... parole, parole, parole. Suoni, immagini e ancora parole, che si succedono incessantemente. Affollando la scena al punto tale, che quasi più non si avverte una fondamentale assenza: quella delle idee. Laddove la morale del politicamente e/o economicamente corretto stabilisce la soglia di ciò che va o non va detto, là sorgono ora le idee. Sono le nuove idee, vale a dire quei prodotti filosofici, letterari e politici che, immessi nei circuiti pubblicitari dentro allo stesso messaggio fluido, forniranno gli stessi input e le stesse scelte di comportamento. Siamo in piena «cultura d'osservanza confindustriale» (Accame), la sola legittimata a calcare le scene (e a scegliere ruoli, copioni, attori, comparse ...) qui al teatro-azienda «Italia», come negli altri teatri autorizzati.

Ripeto: si tratti di Pocahontas o di Ruota della Fortuna, di Olocausto o di Jovannotti, della logica del 3x2 o dell'elzeviro di Montanelli - tutto (o quasi) venga oggi veicolato dall'informazione sottende (ed è sotteso da) una stessa «Weltanschauung commerciale».

 

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Cause ed effetti del tritatutto mass-mediale sono complesse e molteplici. Paiono però condensarsi attorno ad una unica grande questione: quella relativa alla crisi del «Primo Mondo» (R. Dahrendorf), all'affievolirsi del suo dinamismo, all'esaurimento della spinta propulsiva dei suoi ideali. E per far «Quadrare il cerchio» occorrerà invertire -scrive il sociologo anglo-tedesco- il trend della globalizzazione che oggi governa tutti i processi economico-produttivi, nonché quelli politico-sociali.

Tale «globalizzazione -è il preoccupato commento di E. Scalari- ha creato una classe media anonima, atomizzata, priva di radici (...), ha distrutto al tempo stesso la coscienza di classe del proletariato e della borghesia (e si potrebbe aggiungere la distruzione delle appartenenze: nazionali, etnico-culturali, familiari, religiose... - N.d.R.). Ha fatto del mercato non soltanto un prezioso meccanismo per misurare l'efficienza, ma un potere. Anzi, il Potere per eccellenza, il Valore, la sola ideologia rimasta in piedi sulle macerie di tutte le altre.»

Riflessioni, queste, sulla desertificante colonizzazione american style, sicuramente non nuove per quanti abbiano una qualche familiarità con «certa» cultura di destra; e che può forse stupire sentir ora ripetere da uno Scalfari: ben vengano, comunque, i ripensamenti. Quel che dovrebbe semmai maggiormente stupire, è il silenzio proveniente da altre sponde. Un silenzio «inspiegabile» da parte di coloro che avrebbero potuto (e magari dovuto) proseguire lungo una «certa» linea antagonista, alternativa al mondialismo, alla demonìa economica, alla plutocrazia... In altri termini, il fatto che la nouvelle vague destro-nazionale si sia arenata sul bagnasciuga della cultura, costituisce già di per sé una risposta naturale, che va a spiegare quel silenzio. È tuttavia soltanto una parte di risposta, a completare la quale si trovano ascritte le ragioni della resa, ovvero le ambivalenti ragioni dell'interesse materiale e della viltà intellettuale.

Et de hoc satis, che in ogni caso la questione è alquanto più ampia, e come tale va ripresa.

 

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Si diceva poc'anzi della sensazione di vuoto, che prende chi sia appena in grado di sporgersi oltre il limite della quotidianità. Sicché, restringendo àmbiti ed orizzonti ad un panorama italiano, a dare ad esempio le vertigini è «il pensiero piatto» dei vari Alberoni, Biagi, Costanzi, Dipietri, Eccetera - di coloro cioè che formano l'opinione pubblica. Un pensiero uniformemente piatto, il loro, a scapito delle differenze di ruoli ufficiali, e dell'eventuale appartenenza dell'uno e dell'altro all'uno o all'altro versante in cui si biparte la superficie politica di questa nostra penisola d'Occidente. Dietro le illuminate quinte del Nuovo, sotto le sfavillanti insegne del Mercato e del Privato, ci troviamo infatti a muovere in una maleodorante «normalità», dove la mediocrità dello status quo governa e regna la Seconda Repubblica. E ciò risulterà più evidente se soffermiamo lo sguardo sugli attuali partiti italiani, i quali per esaltare la propria diversità non trovano di meglio che dividersi sul presidenzialismo all'americana o alla francese, sui doppi turni, sulla data delle elezioni - al più: sulla miglior bontà del capitalismo renano rispetto a quello anglo-americano... Con una fondamentale, essenziale avvertenza, però: ogni querelle ha da rientrare nella logica di quella suprema «bontà».

 

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Ritiratesi dal campo delle idee-forza, il presunto rinnovamento posto in essere dalla «rivoluzione liberale» si traduce in una critica alle illusioni sociali della sinistra occidentale, a metterne in luce gli eccessi egualitari e antiselettivi, a contestare le ingerenze del pubblico nel privato o le distorsioni assistenzialistiche. Ma simili denunce, quand'anche teoricamente condivisibili, nulla hanno di originale o di rivoluzionario: si tratta di pedisseque trasposizioni di princìpi base del neo-conservatorismo anni '60 made in USA. Senza poi dover aggiungere che i modelli informativi sia della destra liberale che della sinistra liberale derivano dalla stessa fede nello sviluppo, dalla stessa americanofilia, dallo stesso culto per il profitto, per l'individualismo, per il libero scambio... Si potranno intitolare allora vie e piazze ad Adam Smith anziché a Karl Marx, e sostituire i busti di Lenin e di Mussolini con quelli di Popper e di Croce - ma, così, non solo non si porta a compimento alcuna «Rivoluzione», ma si accelera il processo di irenica «fine della Storia».

Meglio così, si obietta a gran voce. Meglio rifiutare le ideologie, fedi, credenze che hanno –tutte- fallito, e storicamente comportato tanti e tanti lutti al genere umano...

Non c'è più posto, oggi, per le idee: a muovere la civiltà di oggi bastano le energie tecno-economiche. È grazie a loro che l'Occidente ha trovato dapprima il suo equilibrio e quindi la sua espansione planetaria. Le idee, e così l'arte, l'immaginazione, la poesia, sono concretamente superflue e concettualmente residuali. Tali «sovrastrutture» -direbbero i marxiani- risultano essere, per i nostri contemporanei, pressoché esclusivamente degli investimenti, dei diversivi, degli oggetti di (piacevole, per alcuni) consumo. Oggetti la cui produzione/organizzazione/distribuzione risponde ad un'unica formula, quella del tutto-compreso, e ad un'unica legge, quella del mercato. Le culture plurime e differenziate, dunque, nell'odierna mega-società liberale dove A. Gehlen scorgeva i segni di «nuovo primitivismo», sono riconosciute e benaccette solo in quanto funzionali all'integrazione mondiale. «Non ci si affanna più -osserva Guillaume Faye- attorno alla cultura se non per il fatto che essa è divenuta un affare, e la si sacralizza perché sia l'avanguardia di strategie economiche».

 

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A tutto ciò occorre opporsi.

Con gli strumenti della cultura. Con una cultura non mercantile, non succube degli indici di gradimento. Una cultura che dev'essere impegnata, come si diceva una volta, ma non -come una volta- unilateralmente impegnata. Una cultura perciò inattuale, una cultura contro.

Contro l'omologazione contro i settarismi.

 

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L'affondamento dei grandi blocchi ideologici lascia emergere spazi nuovi per la trasversalità, per le contaminazioni, per i concetti policromi. Con meno dogmatismi di un tempo, certo, ma non necessariamente con meno rigore ideale. Nuovi valori e nuove sensibilità potranno allora manifestarsi. Non –ripeto- secondo gli schemi fissi che furono proprì ai chiesastici sistemi d'antan, bensì attraverso i segnali del post-moderno. Secondo un «patto tra diversi» che contenga in sé elementi immaginifici, inusitati, ironici e (sopra tutto) utopici. Del resto qui a "Tabularasa" lo sappiamo già da un pezzo: checché ne pensino i benpensanti (o si dovrebbe meglio dire: i non-pensanti?) è l'Utopia a dare ali al mondo e a fargli compiere la rivoluzione.

Alberto Ostidich

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