«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 1 - 29 Febbraio 1996

 

Prima o Seconda. sempre «res» loro è

 

 

Mentre m'accingo a scrivere, addì 9 febbraio 1996, siamo in pieno marasma istituzional-riformista.

Oggi, poi, i toni sono particolarmente alti.

Protagonista è chi, da una parte, si batte strenuamente per il semi-presidenzialismo secco, alla francese, con finale al referendum (altrimenti l'accordo-che-non-si-doveva-fare non si fa) e chi, dall'altra, non ci sta e ribatte, massimamente piccato, che giammai! sennò era meglio votare da piccoli.

La sfida tra i due prosegue in un crescendo di chicchirichì, e con gran mostra di creste e speroni. Il resto fa da colorito contorno. Come quel cappone spiumato, un tempo famoso per ringalluzzirsi al solo grido «elezioni!», o il grifagno marco-giacinto, già animale in libertà, e ora disposto ad offrire a destra e a manca i suoi sodomitici servizi di metodo all'inglese... E ci sono, al centro del cortile, un pacioso bianco, che continua a gorgogliare di cancellierato alla tedesca; un infido buttiglione, intento a beccheggiare qui e lì, come capita; eppoi un bel mariotto, felice della sua scoperta del sindaco d'italia che tien tutta per sé; una sempre più tarantolata lamalfa, riemersa da chissadove, a rivendicare la sua parte di proporzionale... Al di fuori, fuori ormai dal recinto, sta -molesto, ma innocuo- una can che abbaia. Al federalismo, alla costituente, alla secessione... Incaricato a rimettere un po' d'ordine nel pollaio del Paese, si trova un tale «fermamente intenzionato a riportare l'Italia sulla strada maestra delle riforme». Lo sommergono grida di governissimo, inciucio, massoneria e papocchi vari: ce la farà? Domani è un altro giorno, si vedrà.

 

* * *

E dunque, in fatto di riforme necessarie e vigenti, esiste oggi -comunque vada poi a finire- una piena disparità di vedute. Le tivù e gli altri organi d'informazione, compiendo grossolana opera di semplificazione, descrivono un'Italia divisa in due: una schierata a favore e l'altra contro nel tema del federalismo, aut similia. In realtà, più che legittimo appare il sospetto che, tra la gente, il grado d'interesse per questi «ismi» resti alquanto basso, e che la sacralità delle «Riforme» possa contare su numerosi e irridenti scettici.

Intendiamoci. Non intendo -né ho inteso, con le precedenti metafore... zoologiche - sminuire la portata, la portata effettiva del dibattito istituzionale in corso. E se da esso dovesse uscire il doppio turno e/o la Camera delle Regioni, ciò non sarebbe certo privo di serie conseguenze. La questione «riforme», dunque, è tutt'altro che secondaria. Solo che trovo (eufemisticamente) curioso che l'attenzione dell'opinione pubblica venga, a destra e a sinistra, concentrata sulla «filosofia costituzionale», e per ciò distolta da questioni che dovrebbero esserle più familiari, più popolari, quali la par condicio, l'antitrust, tangentopoli, l'immigrazione...

Mi stupisco (ma, francamente, non troppo) che più nessuno, o quasi, a destra come a sinistra, voglia affrontare il nodo davvero cruciale del passaggio dalla Prima Repubblica (unanimemente -e verbalmente- condannata senz'appello), alla Seconda che, ai vizi della precedente, va sostituendo -anzi, assommando- il populismo demagogico e plebiscitario della politica-spettacolo. Preliminarmente, ci si dovrebbe porre la questione se valga davvero la pena di cambiare le regole, quando i giocatori -tranne alcune fortuite discese e fortunate entrate in campo- restano sempre gli stessi. Ma ciò a parte, e passando senza ulteriori preamboli al piano delle proposte avanzate dai cosiddetti riformatori, si avverte subito come la situazione sia quantomai complessa e confusa.

Siamo infatti di fronte ad una serie di idee di «riforme diverse» (alcune delle quali, a mio sommesso giudizio, persino utili), che però ben difficilmente troveranno, all'interno di un parlamento tanto ciarliero e litigioso, adesioni sufficienti, e sufficientemente convinte, per essere varate in un contesto di organicità e durevolezza.

Proposte di riforme che spesso riguardano, sì, i gangli di crisi del sistema (art. 138 Cost, poteri e funzioni degli organi legislativi, ruolo del Capo dello Stato, e così via), ma che richiamano anche il paradosso di Pietro Scoppola, secondo cui: «La riforma è necessaria perché il sistema non è capace di decidere; ma la riforma è la più importante delle decisioni; dunque più il sistema ha bisogno di riforma, meno è capace di farla».

Di fatto, a fronte dell'affastellarsi di programmi e idee, di ipotesi e subordinate, occorre chiedersi se esista una reale volontà di cambiamento. Direi di no: senza scomodare troppo Tomasi di Lampedusa ed il suo celebre cambiar tutto, affinchè tutto resti come prima, è forte fra i partiti ed i loro sodali la tentazione di metabolizzare la Grande Riforma, per trasformarla in un ferreo regime di autotutela. C'è aria, pesante, di espedienti. Ma c'è anche il rischio, per non dire la certezza, che dando una sola dimensione alla crisi, riducendo la problematicità del processo evolutivo della società odierna ad una faccenda di regole istituzionali, si perdano i contatti con i veri nodi del Paese.

È una «preoccupazione» che appena ci sfiora. Anzi, chi come noi si senta estraneo alle convulsioni del modello liberaldemocratico, non può che vedere con favore questo scollamento -«lo scoagulo», per dirla con De Rita- in atto fra Paese reale e Paese legale.

In altri termini, il rischio è tutto loro. Il rischio che, mentre la politica ufficiale -con i suoi galli, polli e galline- è impegnata a disegnare ardite geometrie costituzionali; a formulare acuti teoremi politologici; a trovare al suo interno pesi e contrappesi, rimedi e dosaggi, la ggente -si tolga la «g» di troppo-, e torni ad essere popolo. Popolo che, riappropriatosi dei suoi attributi, prenda coscienza di come la crisi dello Stato sia, soprattutto, crisi di partecipazione, crisi di tutela dei diritti e dei doveri di tutti e di ciascuno. E agisca di conseguenza.

Disticò

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