«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 1 - 29 Febbraio 1996

 

Allo specchio della coscienza

 

 

 Mi chiedono dove voglia io andare a parare. Comincio col dire ch'io ho rispetto d'ogni argomentazione sostenuta. M'infastidiscono l'ignoranza, la cattiva educazione e la spocchia. Non sopporto nemmeno la faziosità. E sono stato un fazioso. Poi, col passare degli anni, ho imparato a rivedere la mia vita e a correggere quella mia «peculiarità», che si traduceva in intolleranza. Non per comodità. Ho revisionato la mia vita. Questione essenzialmente umana, se non erro. Io ho un passato politico, che non rinnego. Solo che è definitivamente «passato». In quel passato c'è una mia responsabilità, che sento terribile. Sono stato uno che ha scritto, che ha sostenuto pubblicamente delle tesi. Di fronte a ciò, io pongo una domanda: mi si concede che un altro uomo, uno solo dei miliardi che popolano il globo, e che bazzicava quei meandri politici, a noi comuni, abbia tratto insegnamento da quello che ho scritto e ne abbia fatto comandamento? Bene. Se rileggo ciò che scrissi, dieci o venti anni fa, sento salire i brividi. Se comparo quegli assunti alla realtà realizzata e vissuta, udendone lo stridore, inorridisco.

Io sento su di me tutto il pesante fardello di responsabilità, per aver indotto in errore un altro essere umano, anche se fosse solo uno. Quando avevo vent'anni o giù di lì, qualche libro in meno letto e digerito, tutto gonfio di retorica falsante, ho sostenuto delle tesi sul fascismo, che sono false e propagandistiche. Ho commesso mendacio. Involontarietà d'un atto? Non alleggerisce il fardello. Ho dichiarato comunque il falso. E non si crede ch'io debba espiare? Vogliamo vederla, questa vita? Facciamolo, sia pure per sommi capi. Nel '67 avevo quindici anni. Ero uno studente, «fiduciario» d'un Istituto. È responsabilità, questa o no? Io penso di sì. In quegli anni il MSI era quello di Michelini e a Bari imperava Ernesto De Marzio. Il MSI era destra indiscutibile. Chi andava fuori era ritenuto un «traditore». Mi ricordo cosa c'era scritto, alle spalle d'una scrivania, dietro la quale sedeva un funzionario di federazione. La didascalia recitava: «Noi siamo sociali e non socialisti. Siamo nazionali e non nazionalisti. Noi siamo il tutto, gli altri sono la parte». Si prendeva un milione e mezzo di voti. Agli altri andavano i «restanti» trentacinque milioni. Ma noi eravamo «il tutto», gli altri erano «la parte». Però noi eravamo le «élites». Gli altri «schiavi dell'ideologia del numero». Però, quanti di noi avrebbero voluto avere i «numeri» che gli altri prendevano...

Ma questo importa poco, nevvero? Proseguiamo. Quando gli israeliani aggredirono l'Egitto, su tutte le lavagne del mio istituto fu scritto «viva Israele». In quegli anni «Che» Guevara, l'ultimo «caballero» d'un'epoca senza eroi, doveva essere «un bandito sudamericano». Cosa leggevo, a quindici anni? Il «Secolo d'Italia» di Tripodi (mi pare), il «Borghese» di Tedeschi e i libri della piccola biblioteca di mio padre, che risalivano agli anni del Ventennio. Tutta «roba» grondante retorica, che il fascismo era «credere, obbedire e combattere». Il nemico era il comunismo. I «nemici» per antonomasia erano Tullia Carrettoni, Pietro Ingrao, Paolo Bufalini e Felice Chilanti. Loro avevano abbandonato il fascismo. Erano i «traditori». Chi si chiedeva: perché l'avevano fatto? La Seconda Guerra Mondiale era stata persa per colpa dei tradimenti. Leggevo Trizzino: «Navi e Poltrone», «Sopra di noi l'Oceano», «Settembre Nero», «Gli amici dei nemici» e via dicendo. Mai che ci siamo detti che la guerra fu perduta anche per colpa di Mussolini e dei generali, che non valevano un soldo bucato, Graziani in testa.

Leggevo tutta quella pubblicistica e scrivevo. Il giornale aveva un titolo «incendiario»: «Il Fiammifero» di Lucio Marengo, oggi onorevole, figlio d'un più che onorevole Padre. Ecco, mi ricordo anche «I sette dittatori» di Pietro Marengo. Cosa scrivevo? Che Israele aveva ragione, «Che» Guevara aveva torto, che l'America faceva bene a seppellire sotto il napalm i vietnamiti e che lo scontro sull'Ussuri fra Russi e Cinesi altro non era che un regolamento di conti fra le mafie del comunismo. Scrivevo, cioè, quello che imparavo sui giornali di partito. Dopo è venuto «Linea», «Il Candido», il «Secolo d'Italia» (di Giano Accame) ed ho rettificato. Ma molto dopo.

Ma per quel «prima» non vi sembra ch'io sia stato un falsario, che abbia contribuito cioè a diffondere una visione errata della storia? Attenzione! Non ho mai creduto d'essere Indro Montanelli o Ugo Indrio, Arturo Tofanelli o Fidia Gambetti. Ma la responsabilità non si può pesare. Nel mio piccolo sono stato artefice di nefandezze. E non devo dolermene? Non devo inorridire di fronte all'aver sostenuto che la dittatura era giusta? Che cosa devo fare, se negli anni ho imparato quello che c'era scritto nel Manifesto di San Sepolcro? Che cosa devo fare, se negli anni ho imparato a riconoscere la giustezza disperata della «Lettera ai fratelli in camicia nera» di Togliatti? Che cosa devo fare, se nel corso degli anni ho imparato che il fascismo-regime fece il contrario di quel che si prefiggeva il fascismo-movimento? E che cosa devo fare se ho imparato che il MSI non doveva nascere e si sarebbe evitata una risma di equivoci e tragedie, la strategia della tensione, il terrorismo e tutto il sangue che ne è derivato?

Io sono stato almirantiano e mi sono sentito tradito. Poi sono stato rautiano e sono stato tradito lo stesso. Che cos'altro mi rimane da fare se non vergognarmi? È «farsi male» senza costrutto? Per chi non sente le stilettate nel cuore della coscienza, può darsi. Per chi ha deciso di blindarsi in quel che Mario Isnenghi chiamava il «campo trincerato del ricordo», può anche non esserci il «costrutto».

Certo, non voglio «farmi male» per entrare in un partito. Io ci sono stato in un partito e me ne basta per il resto dei miei giorni. Qualcuno voleva farmi organizzare territorialmente «l'Ulivo». Ho posto diniego. Vedo troppa ciccia riscaldata e poi... non sopporto i democristiani. È una questione epidermica.

E allora mi si chiederà: che cosa vuoi? Oppure, perché scrivi? Ed io rispondo. Riflettendomi nello specchio della mia coscienza. Io non scrivo per gli altri. Scrivo per me stesso. Affido le mie parole alla libertà del vento. I miei pensieri acquistano suoni e forme. Si fanno umanità. Io non ho una vita di società. I miei amici si contano sulle dita di due mani. Molti sono lontani. Sono solo? A volte l'avverto, la solitudine. Però mi basta girar le spalle e mi sento attorniato da moltitudini di voci amiche. Ho i miei libri. Tanti o pochi, mille o tremila, il numero non conta. Quando un uomo ha con sé un libro, che è uno, non è mai solo.

E poi ho i miei sogni. Sogno un mondo meno ladro. Sogno che un giorno un partigiano possa portare un fiore sulla tomba d'un legionario e questi sul sacello di quello. Sogno che un bambino nero sia finalmente visto come una normalità. Sogno che il ricco riesca ad entrare nella cruna d'un ago, come il cammello della parabola. Sogno anche un'Italia più seria, governata da uomini in piedi, terra di cittadini non più sudditi, dediti ai doveri, richiesti con la stessa determinazione della pretesa di diritti. Sogno ospedali che non ammazzino gli ammalati, città che riscoprano la grandezza delle cattedrali, borghi che gioiscano allo sbattagliare di campane. Sogno una giustizia giusta, che prescinda dalle classi d'appartenenza del giudicato. Sogno una fabbrica, gestita anche dagli operai. Sogno che gli operai non siano più mercé da scambiare o «risorse umane» da trattare, come fa il capitalismo moderno.

Sogno sogni. Li faccio anche ad occhi aperti e li accarezzo, con la stessa dolcezza di dita che penetrano fra i riccioli morbidi d'un bambino, con la stessa voluttà che viene da un corpo sinuoso. Sono un visionario? Non mi rimane che quest'ultima libertà. Ho visto le miserie degli uomini. Ho visto praticare il mercimonio delle coscienze. Ho visto utilizzare gli esseri umani come pedine d'una scacchiera infame, annullarne la dignità. Non le voglio più, quelle corresponsabilità. E rifuggo dal pensare che un dibattito non possa essere eterno o non possa assumere funzioni di auto-dibattito dilacerante. Trovo utilissimo discutere con la propria coscienza. Io sono di fanteria e non sono mai salito a cavallo e qualora l'avessi fatto, perché lo ritenevo opportuno, non ci sarebbe stato uomo capace di disarcionarmi. Convincetevi, la libertà dell'uomo non ha limiti e discutere sulle cose del mondo è senza tempo, perché è la questione degli uomini a non aver confini. Sul passato, sulla storia (che è quel che dura, non quel che passa) possiamo sempre accapigliarci. Ma resta sempre una discussione su quel che è stato. È come parlare degli avi. Ricchi o poveri che siano stati, non ritornano in vita. E siccome così è per l'eternità, solo allora potremo farci male senza costrutto e giustamente stancarci.

Vito Errico

Indice