«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 1 - 29 Febbraio 1996

 

Fuori dal cerchio


 

L’ordinamento economico occidentale, giunto al termine di una prolungata fase di stress, sta avvicinandosi a larghi passi verso l'implosione, con conseguente destrutturazione del sistema capitalistico.

È questo -mi pare di poter dire- il motivo conduttore di un agile libretto di Ralf Dahrendorf, “Quadrare il cerchio”, Laterza ed., la cui lettura, consigliatami da Antonio Carli, vorrei a mia volta suggerire ai «nostri» di “Tabularasa”.

L'osservazione che gli assetti del capitalismo internazionale sono in movimento e vanno rapportandosi secondo nuovi equilibri geopolitici, non costituisce in sé una «novità». Sarebbe anzi facile dimostrare come i riposizionamenti siano una costante dei processi capitalistici, a testimonianza –semmai- dell'intrinseca vitalità degli stessi (!). Ma il pregio del breve saggio di Dahrendorf non sta nell'originalità della tesi ivi sostenuta. Sta, oltre che nel rigore dell'analisi, nell'aver saputo indicare con non comune lucidità -e da dentro il sistema, va aggiunto- gli scenari che quei «più avanzati» equilibri s'apprestano plausibilmente a formare. Futuri scenari, entro i quali le prospettive socio-politiche ed esistenziali potrebbero essere tali da far rimpiangere, persino agli attuali suoi detrattori, il cosiddetto Primo Mondo, quello del capitalismo dal volto umano, con i suoi spazi di libertà, le sue isole di benessere, i suoi angoli d'individualità...

Il quadro così delineato è certamente realistico, e realisticamente orribile. Tuttavia, non accorreremo alle difese d'Occidente. Né rimarremo fermi in trincea, schierati sul fronte del Reno per respingere malesi, nipponici e coreani. Non sacrificheremo il modello anglo-americano per salvare il nostro modello di sviluppo. Non ci batteremo in nome della nostra democrazia di mercato...

No, occorre invece invertire la marcia, tornare sui propri passi; per poi puntare dritti al quartier generale alleato...

Quanto segue vuole, appunto, forni re alcune rapide indicazioni per un percorso fuoripista, dietro le linee ufficiali.

 

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Sarà forse bene chiarire, innanzi tutto, che il sistema capitalista non è solo un'aggregazione di nazioni aventi economia capitalista. Esso si raffigura piuttosto come un'unica struttura transnazionale e policentrica formata da più parti tra loro correlate ed operanti in modo globale.

Se la definizione testé avanzata è esatta, occorrerà anche aggiungere che detto sistema poggia su un insieme di forze -conflittuali, ma omogenee- le quali trovano in questa loro competizione continua una «armonia prestabilita». Ciò -aggiunto alle «magnifiche sorti e progressive» dell'umanità, cui sovrintende una «invisibile mano»- appartiene alla ben nota mitologia protocapitalista. Ma vediamo ora, con più prosaico spirito, come funziona il Sistema. Distingueremo, dunque, fra nazioni centrali ossia sviluppate, e nazioni periferiche ossia in via di sviluppo. Vi sono poi le nazioni sottosviluppate, quelle del Terzo e Quarto Mondo, alcune delle quali destinate a rimanere tali, ed altre invece che potranno essere salvate, secondo le volontà del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale per gli Investimenti, e di altri consimili organismi meta-economici... Orbene, la crisi che sta attraversando il Centro Sviluppato del Sistema (nel mentre alcune sue «periferie» risultano sempre più autonome dagli economici destini occidentali) è resa esplicita da vari indicatori. Fra i più evidenti ed immediati: la crescita della disoccupazione, l'aumento dell'inflazione e del debito pubblico - fattori che però, avvertono gli economisti, non sono che il termometro della crisi dei Paesi più industrializzati.

Il fenomeno prende origine e vigore agli inizi degli anni '70, con l'esaurirsi del capitalismo «a modello unico». Quando cioè entra in crisi l'economia da cow boys, basata sull'espansione illimitata verso le terre vergini, da conquistare e piegare alle buone leggi e regole del Mercato. La fine del monopolio capitalistico coincide quindi con la messa in discussione dell'egemonia USA sui mercati, ad opera di Germania e Giappone.

Il regime di partnership che ne seguì (dapprima a 3, poi allargatesi a 7, ai «Sette Grandi») viene oggi contestato -osservano Dahrendorf et alii- da soggetti che si chiamano, al momento, Taiwan, Malesia, Singapore e -un domani, in rapida successione- Cina, Corea, India, Brasile... Vogliamo tradurre in termini elementari?

La «causa vera», la causa scatenante «la crisi», va ricercata nel semplice fatto che, qui da noi, il Grande Capitale guadagna (relativamente) meno e meno di una volta, e vuole tornare a guadagnare di più. Sino ad ieri, per l'Occidente le regole del gioco erano, tutto sommato, piuttosto facili. Grazie ai disinvolti giochi senza frontiere delle multinazionali, capaci d'esportare con apprezzabile indifferenza uomini, denaro, tecnologie da un posto all'altro del Mondo cosiddetto Libero. Al più, bastava chiudere nei Paesi ricchi e viziati, ed aprire in più accoglienti e poveri Paesi. E i conti tornavano.

Sembrava anzi, per l'Occidente, che quei conti fossero destinati a migliorare; che, grazie alla caduta del Muro, il gioco si potesse quasi fare senza regole...

È invece accaduto che alcuni poveri Paesi abbiano nel frattempo imparato, e velocemente, le regole. Che, acquisito il know how necessario, quei Paesi abbiano raggiunto, assieme a capacità lavorative straordinarie, una qualche indipendenza economico-finanziaria, ed intendano entrare a loro volta nel gioco. Per conto loro e giocando al rialzo.

 

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Come ci si prepara, dalle nostre capitalistiche parti, a fronteggiare la sfida degli ex-sottosviluppati? Risultando obiettivamente non proponibile l'adozione automatica e pacifica, nel Primo Mondo, dei modelli di «capitalismo all'asiatica», con le condizioni di vita e i ritmi lavorativi che gli son propri - la strategia mondialista non può che essere, per noi e qui da noi, graduale e di medio periodo.

Facciamo allora qualche passo indietro, per meglio scorgerne le prime mosse.

Dal dopoguerra in poi, e per tutti gli anni '80, con l'avvento della democrazia liberale impura (in quanto contagiata per condizionamento dalla democrazia popolare - l'altra metà dei vincitori) gli Stati centrali s'erano retti con sistemi ad «economia mista». Era stato cioè stabilito che al loro interno quei Regimi liberali garantissero una certa percentuale dei propri redditi nazionali a salari, sussidi e previdenze; e che comprimessero per ciò la percentuale per gli investimenti produttivi alias profitti di capitale o d'impresa. Questa situazione di «equilibrio keynesiano» -vissuta dal Capitale come una grave distorsione, stoicamente sopportata in virtù della ragion politica- non poteva perdurare. Con la fine del socialismo sovietico, quel forzato equilibrio cessava, infatti, la sua funzione calibratrice per divenire fonte di diseconomie strutturali. Da abbattere quanto prima.

Ragion per cui, con la dichiarazione della «fine dell'età dei diritti acquisiti» (R. Samuelson), era tempo e luogo di prender coscienza del depauperamento delle risorse, della crescita irresponsabile della spesa sociale, dei gravami parassitari, delle malgestioni politiche, degli sprechi assistenziali, delle pastoie burocrati che, e via proclamando... Di sfuggita, si noterà come qui in Italia i depauperatori e malgestori di un tempo si trovino tutti (o quasi) bellamente riciclati, quando non beatamente restati ai posti loro primigeni... La ricetta anticrisi, qui e altrove, è ed è stata una sola: «i tagli». Tagli alla spesa sanitaria, tagli per l'educazione, per la sicurezza sociale, per le pensioni. Accanto a siffatto rigore, ovviamente a senso unico, si sono presentate le privatizzazioni quali soluzioni «cliniche» per il risanamento dell'economia (altrui). E ça va sans dire per entrare in Europa dalla porta di Maastricht.

Nel concreto, «privatizzare» significa non solo vendere i gioielli di famiglia, spesso frutto del risparmio di più generazioni del Paese, quanto invertire il ruolo naturale tra pubblico e privato; ovvero fare in modo che il settore pubblico paghi per servizi resi dal settore privato. Esempi di tale commistione sono: la chiusura degli ospedali pubblici e gli incentivi alle case di cura; le pensioni integrative e l'aumento degli oneri previdenziali; il finanziamento alla scuola privata e la riduzione di fondi per la scuola statale, e così via. Su questa strada, e di questo passo, non sarà lontano il momento in cui si pagheranno le tasse e si verseranno i contributi direttamente -ed a loro esclusivo beneficio- alle compagnie d'assicurazione, alle holdings sanitarie, agli istituti di credito o alle società finanziarie... Paradossi a parte, tagli e privatizzazioni vanno a mutare ragione sociale ai pubblici servizi, al fine di renderli non già più efficienti, bensì più disponibili al bisogno d'accumulo del Grande Capitale.

Contrariamente a quanto si vuoi far intendere, il Sistema non vuole affatto ridurre «l'interventismo di Stato», ossia l'ingerenza del sociale nell'individuale. Al contrario, vuole una riorganizzazione funzionale dello Stato-società; vuole una pervadenza dello Stato-gestore sulla vita, sulle scelte, dentro il privato dei cittadini !

A muovere codesta rivoluzione neototalitaria è una stretta alleanza tra la Vecchia Destra conservatrice e liberista, portatrice degli interessi dei settori forti dell'economia e della finanza, e la Nuova Destra, nella quale confluiscono interessi più spiccioli, e dove interagiscono spinte e motivazioni fatte di ordine, benessere, patriottismo, moralità - ovvero loro frammenti e facsimili. Ad unire entrambe le Destre, ad indirizzarle verso lo stesso obiettivo (sebbene con un diverso grado di consapevolezza) è la riforma dello «Stato opulento». È una sorta di patto antisociale quello che lega capitalismo internazionale e borghesie nazionali, e che è finalizzato a ridurre livello e qualità della vita alle fasce non adeguatamente produttive della popolazione.

Tale ristrutturazione liberale e liberista, di giorno in giorno più radicale, trova -come si sa- la propria «giustificazione» nella necessità di raccogliere quella «sfida» -interna al capitalismo mondiale- di cui si diceva.

Si tratta, è facile osservarlo, di una «ristrutturazione» quantomai violenta, che non passa però attraverso i consueti (e obsoleti) canali repressivi. Non ve n'è bisogno: il Sistema può far affidamento su metodi ben altrimenti persuasivi e assai meno a rischio.

Siamo, infatti, in presenza di un'offensiva in profondità e protetta da una profilassi d'ordine planetario, in cui tutti i generi di ideologi e tutti i tipi di ideologie sono stati mobilitati. Si vuole così (far) distinguere le buone dalle cattive azioni, le abitudini compatibili da quelle non compatibili; educare a corrette opinioni e ad oneste aspettative; suggerire, illustrare e dimostrare quali siano, e debbano essere, le scelte giuste e quali ingiuste.

Un condizionamento tiepido viene ad irradiarsi dalle centrali del Pensiero Unico: libertà, felicità e futuro si dicono essere alla nostra portata. Che esse dipendano da noi, da quello che sapremo fare per noi stessi «(...) ciascuno a sé stante e derivante da sé tutti i diritti e tutti i doveri che abbiano un significato per lui» (Giovanni Gentile).

 

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La grande «offensiva» è duplice. Da un lato, veicolando una serie d'idee politiche, morali, filosofiche, estetiche che spiegano la realtà; dall'altro, enucleando i vari comportamenti soggettivi che di quella «realtà» sono il riflesso, riflesso condizionato...

L'operazione in atto presenta dunque valenze antropologico-culturali. Anche nel senso di informare le generazioni presenti (soprattutto quelle con minor memoria storica) all'egoismo, all'edonismo, al narcisismo - accentuando in esse il naturale convincimento che è la risposta individuale l'unica adeguata a risolvere i problemi. L'unica, comunque, che valga la pena di fornire ai «nostri» problemi.

Ribadisco allora il concetto: l'ideologia dominante (che è poi una anti-ideologia) viene impiegata sia in forma attiva -per atomizzare ed omologare uomini e popoli- sia con funzione passiva, allo scopo di evitare una presa di coscienza «politica» della natura disumana del Sistema.

Nell'ambito di siffatto intervento di collettivizzazione psichica intervengono altri input tecno-culturali. Ne abbiamo già accennato: si tratta di messaggi univoci che riportano la presente recessione alla spesa sociale ed alla produttività: l'una definita in crescita e l'altra in calo. Ne sono imputati il costo del lavoro, l'assenteismo, la disaffezione, le tutele sindacali ecc.

L'insieme di tali cause -sempre riferite ai lavoratori dipendenti- assommato ai vincoli politici, ecologici e burocratici, determinano la stasi dell'espansione, il non richiamo dei capitali, l'allontanamento dall'Europa, dal Mondo, dal Mercato... Così van suonando Lorsignori con le loro allarmate sirene-portavoce. Non c'è soltanto dissonante malafede. Anzi, spesso il borghese -grande o piccolo che sia- crede all'effettiva coincidenza dei propri interessi con quelli della collettività, e che la propria visione delle cose corrisponda davvero alla visione universale. E dunque, per rendere quella sua «logica» e quelle sue «ragioni» più riposanti e sicure, ecco che la borghesia fa sì che tutto si svolga nella perfetta legalità. Perciò escludendo, tramite l'azione convergente di giuristi e di giudici, il manifestarsi di illegittimi, oltre che inutili tentativi di interpretazione in chiave non-capitalista della «crisi». E negando l'esistenza di modi diversi di produrre e di consumare in grado di superarla.

La «crisi» pertanto, quale parafrasi di verità. La «crisi» quale discrimine fra il retto e lo scorretto modo di essere e di pensare.

Non ci stiamo. Per quanto flebile, o velleitaria, o anacronistica, possa apparire questa mia e nostra dichiarazione, noi non ci stiamo. Convinti come siamo, in ogni modo, di essere assai meno patetici di quanto ci si vorrebbe magari dipingere, osserviamo di non essere titanicamente soli sul fronte del rifiuto. Che ci sono nel mondo altre presenze, altri segnali. Segnali di reazione anticapitalista, che si stanno estendendo a vista d'occhio col «ritorno dei comunisti» nell'Est europeo, con la ripresa dell'«integralismo islamico» (a proposito: non sarà la paventata creazione di un mercato comune tra Paesi di religione musulmana, o la programmata abolizione degl'interessi bancari secondo i dettami del Corano, la vera chiave di lettura per certi laicissimi furori verso il Giusto Ordine, partito risultato vincitore delle recenti elezioni turche?). Noi che islamici non siamo, e neppure comunisti o guerriglieri, non intendiamo con ciò rinunciare a perseguire una nostra Terza via, europea e nazionalpopolare. Una via antica e moderna, che ha provenienza da esperienze, idee, intuizioni dai nomi assai diversi: umanesimo del lavoro, solidarismo cattolico, movimento antiutilitaristico, socializzazione, comunitarismo, ed altri che basterebbe aver l'animo e la volontà di ricercare...

«Fuori dal cerchio», quindi -per rifarci a Dahrendorf- fuori dal cerchio infernale del liberal-capitalismo.

Anche perché -amici di “Tabularasa”, credenti e non credenti- qualcosa di «demoniaco» in quel Sistema deve pur esserci, se (notizia di oggi, 3 gennaio 1996) il colosso delle comunicazioni AT&T, all'annuncio di 40mila licenziamenti, ha guadagnato 60 punti in Borsa. Non vi pare?

Alberto Ostidich

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