«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 2 - 31 Marzo 1996

 

Socialismo come esigenza di vita

 

Beniamino, e se provassimo noi a levare il culo dalla poltrona? A volte provo come un senso di vergogna perché sono costretto a dare spiegazioni del mio presente, del mio passato e, se potessero, del mio futuro. A distanza d'un mese leggo quel che ho scritto trenta giorni prima e salgono i picchi diastolici. La scienza dice che devo stare tranquillo. Ma come si fa? Viviamo un tempo concitato, caotico, frenetico e questi qui ti dicono di star calmo. È una sensazione di stordimento: se vai avanti t'impallinano, se torni indietro ti fucilano, se stai fermo ti lapidano. Ed io mi sono rotto i coglioni. Perdono per la caduta di stile ma è questo quel che mi succede.

Alle convenzioni zonali dell'Ulivo, in mia assenza, mi hanno eletto delegato alla Convenzione nazionale di Milano. Mò che fo'? Il mio amico giudice Magrone, che gira scortato perché la Sacra Corona Unita gliel'ha giurata e ne ha ben donde (da Pubblico ministero quel magistrato ne spedì una trentina all'ergastolo), mi ha detto che non posso continuare a lanciare il sasso e nascondere la mano. Cioè, non posso più far lo stilita. Arriva sempre il giorno delle responsabilità. Ecco che cosa faccio: seguo il mio destino, mi accollo le responsabilità. Qui, in questa mia Puglia bella disperata, neghittosa e levantina, c'è la destra, la solita destra degli agrari, dei nipoti di Caradonna, dei servi di Lattanzio, dei pretoriani di Formica, che sta «facendo cappotto». Qui il «fascismo democristiano», di cui parlava Pasolini, non solo non è mai morto ma vive d'una salute di ferro. Qui, nel Collegio 28, l'unico sottratto alle grinfie di Tatarella due anni fa, perché noi eleggemmo il giudice Magrone, non posso più stare a guardare. Ma quanti «collegi 28» ci sono in Italia?

Seguo il mio destino e vado. So quel che troverò, perché so quel che c'è, che del resto non è molto diverso da quello che ho lasciato. Qui almeno, quando parlerò di antiamericanismo, di anticapitalismo, son sicuro che non mi minacceranno di condurmi al rogo. Mi faccio forza pensando che il genere umano è pieno di lordure. I santi, gli eroi, i navigatori sono eccezioni d'una regola peccatrice, pavida e statica. Affronterò la lotta, come ho sempre fatto, convinto come sempre che l'uomo è quel che dice e quel che fa ma, soprattutto, quando quel che fa corrisponde a quel che dice. Andrò a dire che c'è bisogno di socialismo.

Già, nel momento in cui questa parola evoca spettri ributtanti, affari melmosi, onestà e moralità violate e violentate, esercizio di potere autocratico, io sento quel bisogno. Una necessità che nasce mentre il mercato globale aizza, stimola, pungola un individualismo senza più limiti e forma il carattere di esseri umani, ormai incapaci di cogliere tutta la bellezza d'un'alba splendida e d'un vivido tramonto, di ascoltare lo zufolio del vento fra le canne, di sognare di fronte al baluginio di luce degli occhi di un bambino, di respirare la salsedine del mare, la cui risacca può portare a riva il riverbero del sole e della luna. Non c'è più poesia né amore nell'animo dell'uomo. Tutto è interesse, egoismo, egocentrismo, egotismo. È per questo che sento bisogno di socialismo, di un'idea che comprenda comunità e comunanza, di destini, di bisogni, di necessità negate. Socialismo come idealità, contrapposta all'individualismo, che uccide l'uomo e lo fa lupo del suo simile. Socialismo come prassi antagonistica d'un liberismo, che svuota l'uomo dell'anima e lo lascia freddo involucro della maceria.

Vivo nel terrore della guerra, perché sento ch'è lì che stiamo andando. No, non è catastrofismo. Ci ubriachiamo di amenità ma riflettiamo poco sui percorsi del mondo. Il capitalismo occidentale ormai soffre d'un processo d'autosaturazione. Non riesce più a smaltire, alla pari dei suoi rifiuti, quel che produce.

Vuole nuovi spazi di mercato e di fronte alla riottosità di culture secolari, che rifiutano questo «modello di sviluppo» venefico, il capitalismo tenterà il colpo di maglio. Ognuno di noi ha il dovere di fare la sua parte per scongiurare questo cataclisma. Dobbiamo finalmente imparare che la libertà è il rispetto d'ogni singola specificità. Amor di patria, come diceva Beppe Niccolai, è amore per le patrie altrui. Socialismo patriottico, idealità in cui la libertà di immaginare il destino d'un popolo non cozzi contro un'altra simile, così come l'idea della realizzazione d'un uomo non confligga con un'altra analoga. Partecipazione al posto di scontro, nella convinzione che la libertà dell'uomo non può avere limiti nel pensiero professato. Il pensiero va discusso, non combattuto. È uno sforzo che dobbiamo compiere se vogliamo finalmente che il «grande banco di macelleria» di hegeliana memoria non abbia ancora ad esporre i suoi scampoli di carne umana, che la storia ha ostentato nel cammino dei secoli.

 

* * *

Noi veniamo da lontano. Portiamo sulle spalle il peso di anni e anni di lotta alla democrazia, più ostentata che praticata. Quella lotta non è più sostenibile. Noi siamo figli del nostro tempo e questo tempo ha fatto della democrazia un metodo di vita. Quale sarebbe l'alternativa? Io non ho più voglia di discutere di élites e Pareto non è uomo del Duemila. Oggi le élites sono il bersagliere che si lancia nel campo minato di Sarajevo e salva la donna ferita, il ragazzo d'un paese vicino al mio, la cui morte ha ridato la vita a sei esseri umani in attesa di trapianto d'organi, i medici che lasciano lo sfavillio occidentale per andar a curare la lebbra delle savane africane, Costanza, che ha negato i diritti della sua giovinezza, per curare il suo bambino Alessandro, affetto da miopatia neurogena spinale. Il resto è facile ma inutile retorica.

La democrazia è un metodo, dei mille che ci sono per governare i popoli, imperfetto per quanto si vuole ma le alternative sono Pinochet, Papadopulos, Ceasescu e tutto quello di simile che la storia ha elencato. Di fronte a queste affermazioni so bene che tutto il nostro passato subisce un sisma terrificante. So bene che ci sarà chi inveirà e parlerà di genuflessione al mito del numero e non perderà occasione per ricordare ch'è la qualità a fare il mondo e non la quantità. Non mi sottraggo al processo, purché esso sia accusatorio e non inquisitorio. Cioè, voglio prove e fatti. Non voli teoretici che non producono prassi. Anche perché quello che stiamo vivendo è un momento storico di democrazia e libertà virtuali. Qualcuno ha capito cos'è il mondo di Internet, la navigazione nella cibernetica e nella telematica? Qualcuno ha avuto percezione che quel mondo costringe l'uomo alla solitudine, all'afonia di pensiero, al mutismo di parole, all'asocialità? Qualcuno ha avuto contezza che il «grande fratello» tende ad isolare l'individuo perché solo così l'idea d'un singolo può diventare l'idea di tanti? Qualcuno s'è reso conto che proprio in questo momento c'è bisogno di lottare per una democrazia partecipata, proprio nel momento in cui c'è il trionfo della verità virtuale?

Mi spiego meglio. Quando illuminate un video, cosa vi vedete? Corpi giovani, sani, belli e sinuosi. Città allegre, sfavillanti di luci, vibranti di suoni. Case sontuose, deterse, brillanti. Macchine, veloci, scintillanti di metallizzazione. Ma il mondo è solo questo? Dove sono i vecchi con le facce rugose, i corpi piagati dal decubito, le carni martoriate dai gliomi del «progresso»? Dove sono i giovani, arsi dalla droga, avvizziti dalla noia, bruciati dalla disperazione? Dove sono gli angiporti umidi, le periferie buie, i ghetti lerci? Dove sono i muri scalcinati dei Quartieri Zen, dove i vecchi maledicono la vita, i giovani implorano la morte e i bambini aspettano di implorare e maledire? Non c'è traccia sui sentieri telematici di queste miserie, che sono tutte umane, perché la democrazia virtuale è antitetica alla realtà della vita. E voi dite che non c'è bisogno di socialismo? Io dico di sì e andrò a dirlo a Milano. Andrò con tutte le mie più profonde convinzioni, per le quali le guerre martorieranno sempre la vita dell'uomo, l'egoismo e l'individualismo faranno il paio genetico e fondante della razza umana. La prassi starà nel dominarne le manifestazioni, nel gestirne i processi d'incubazione. Nel mondo ci sarà sempre ricchezza e povertà ma c'è la necessità di conferire dignità ad entrambe, frenando le prevaricazioni della prima e garantendo le limitazioni della seconda. Questo processo non può essere gestito dal capitalismo. Meditate un attimo su un dato. In quell'Inghilterra, che tenne a battesimo il capitalismo, oggi c'è Tony Blair che parla di stakeholder economy. Letteralmente, si traduce in «economia dei detentori di interesse». È quella che noi abbiamo sempre chiamato «partecipazione». E Tony Blair è un socialista. Beniamino, lo leviamo il culo dalla poltrona?
 

Vito Errico

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