«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 2 - 31 Marzo 1996

 

gli uomini

 

Giuseppe Micheli

 

Chi a Torre Spaccata, un pezzo di Roma molto eccentrico, imbocca Via dei Romanisti effettuato un certo percorso giunge all'altezza di una via dedicata a Giuseppe Micheli, un romanista, appunto, fattosi poeta, giornalista, storico della canzone romana, paroliere ed altro. Se vivesse, avrebbe 106 anni. Appartiene, quindi, a tempi e generazioni troppo remote perché di lui si sappiano cose tutto sommato importanti. Due, per esempio:

I) Che fu l'autore dei versi di "Faccetta nera", canzone che furoreggiò non soltanto in Italia prima, durante e dopo la conquista dell'Impero, nonostante qualche non irrilevante problema con certa zona «gerarchica» del tempo, tutta pervasa di infatuazione «razziale»;

II) Che fu un notevole sindacalista prima, durante e dopo il Ventennio littorio, ivi compreso il periodo della Repubblica Sociale Italiana.

E che, in definitiva, calato nel sepolcro e assunto ai fastigi della toponomastica capitolina, risulta essere forse -anzi, fondatamente riteniamo, senza forse- l'unico Scomparso con addosso l'esperienza della RSI cui una amministrazione dell'Italia democratica composta da partiti del centrosinistra abbia ritenuto doveroso intitolare una arteria cittadina.

Di più: con tutta probabilità Via Giuseppe Micheli è l'unica strada d'Europa, anzi del mondo, intestata a un nome in qualche modo e misura partecipe, fra il '39 e il '45, dello schieramento uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale. Vale la pena ricordare la data di aggancio del personaggio -Micheli fu personaggio nell'accezione più alta e positiva del termine- di cui ci veniamo occupando a una struttura di quell'Urbe il cui popolo egli teneramente e gioiosamente e generosamente illustrò e interpretò nelle sue rime colorite e profonde. Allorché il giovane assessore democristiano Antoniozzi con tanto di fascia tricolore, inaugurò la bella strada correva l'anno di grazia 1987 ed era una stupenda giornata di primavera: 11 giugno. Però la decisione di ricordare il Nostro ai Quiriti fino alla consumazione dei secoli era stata di un altro assessore dello stesso partito: Carlo Alberto Ciocci.

Giuseppe Micheli nasce a Ripi, paesino in provincia di Frosinone, esattamente il 12 novembre 1888 da una famiglia proletaria, talmente... proletaria da non riuscire a mandare a scuola il ragazzo oltre la quinta elementare. Compiuti gli undici anni i genitori si vedono costretti a impiegarlo in una tipografia romana: la «Rugantino», in Via della Panetteria. Anche lui, a dirla schietta, deve aiutare il focolare domestico, che nel frattempo si è trasferito nella Capitale, a sbarcare il lunario. Precocemente propenso alle buone letture, non esclude quelle stimolatrici dell'impegno civile e sociale, risparmia sui soldi della colazione per procurarsi giornali, opuscoli, libri. A furia di vivere in mezzo alla carta stampata entra nel giro di un editore piemontese, Ferino, ossia il proprietario della tipografia che edita, appunto, il "Rugantino", diretto da un romanista illustre, Giggi Zanazzo, definito da un acuto annotatore di un libro del Micheli, «fucina della più schietta romanità». Ed è lì che, fondamentalmente, il giovane si forma sotto la guida di Giulio Cesare Santini, poeta romanesco fra i più ammirati.

Ma esiste un altro aspetto del modo di essere e dell'attività del Micheli: quello politico e sindacale. Non ha ancora compiuto i venti anni quando aderisce al movimento giovanile del Partito Socialista Italiano. Ma al PSI da poco, preferendo dedicare il tempo che lavoro e letture gli lasciano libero, alla passione sindacale. Così avvia e sviluppa sempre più intensamente una militanza nella federazione dei Lavoratori del Libro, organizzazione gestita da socialisti e repubblicani con sede in Via San Martino ai Monti, un locale utilizzato insieme a un'altra categoria, quella dei canestrai (vulgo: monnezzari), con la quale si dividono le spese.

Apprezzatissimo sia come operaio che come sindacalista, Giuseppe Micheli una volta finito l'apprendistato viene chiamato dalla fiducia dei soci a dirigere la tipografia «"La Sociale", di proprietà di una cooperativa socialista con sede proprio in Roma. Bene amministrata, propagandata, accreditata, il lavoro affluisce copioso in una azienda resa grande grazie alla intensità e alla serietà dell'impegno del direttore, reduce da buone, recenti prove come semplice lavoratore in una stamperia di Via XX Settembre.

Siamo già nel dopoguerra e il prestigio di cui il Nostro gode presso i cooperatori «rossi» resta intatto e anzi lievita, nonostante sappiano benissimo cosa pensi della vexata quaestio della guerra, allineato com'è sulle posizioni di Mussolini e dei mussoliniani pur se non formalmente dissociato dal partito. E se non lo sapessero basterebbe ad informarli il nome messo alla figlia: Trieste, unica femmina nella non irrilevante prole del... proletario Micheli, andata a sommarsi a tre maschi: Renato, Corrado, Enzo.

Nonostante abbia onorevolmente servito la Patria in guerra nei servizi fotoelettrici, Micheli nel '29 viene assurdamente radiato dall'incarico nella cooperativa perché non iscritto al PNF. Ha diritto, si capisce, alla liquidazione. Chiede e ottiene che venga materializzata in una piccola macchina tipografica. Dopo di che va a impiegarsi alla tipografia Pailotta, in Via del Seminario, come compositore. Il fatto che sia stato epurato da un ruolo direttivo perché privo della tessera del partito potrebbe indurre a ritenerlo un antifascista puro e duro. Ma la cosa non sta in tali termini. Gli è che questo prestatore d'opera straordinariamente intellettualizzato e nel quale sonnecchia il poeta dialettale, il drammaturgo, lo scrittore e perfino l'editore delle future Edizioni Musicali Micheli del 1935 mal si appasta con la politica in sé, quale che sia. Dunque, niente lo contrappone al Fascismo, di cui, anzi, gli piace la robusta accentuazione nazionalistica. Tanto è vero che quando dirigenti novellini o immaturi del Sindacato fascista dei tipografi non sapendo a quale santo votarsi per la stipula del contratto di categoria decidono di affidarsi a San... Micheli, egli non esita a mettere a disposizione la sua sapienza sindacale acquisita a lume di candela nella sede di Via San Martino ai Monti e negli scontri di classe degli anni prebellici. La piattaforma rivendicati va e l'azione negoziale dell'ex sindacalista targato PSI si rivelano talmente centrate da indurre il direttorio ad «agganciarlo» come funzionario-consulente. Precisiamo che l'inserimento è reso possibile dalla decisione sua di chiedere la tessera del PNF.

Dal prosieguo della esposizione risulterà chiaro al Lettore che la risoluzione associativa della neo camicia nera non è, ad onta delle apparenze, frutto di conformismo, di opportunismo o di quant'altro di negativo pur esiste negli italici comportamenti di questo genere. Intanto, non appena immesso nella sfera attiva del sindacato comincia a farsi conoscere come militante austero e senza grilli per la testa, però non facilmente condizionabile in chiave moderatista, come piacerebbe a certi gerarchi gerarchini e gerarchetti aggregati agli ambienti conservatori del Regime. Fra il '34 e il '35 si produce un evento decisivo nella vicenda umana, sindacale e culturale di Giuseppe Micheli: l'incontro con Luigi Fontanelli, sindacalista ferrarese della covata rossoniana, all'epoca segretario nazionale del sindacato della carta e della stampa e membro dell'Esecutivo della Confederazione dei lavoratori dell'industria sotto la presidenza Cianetti. Assumerà poi la direzione de "Il Lavoro Fascista", quotidiano ufficiale del sindacalismo del Littorio, nell'ufficio di Via Boncompagni del brillante dirigente romagnolo -«nella manica di Mussolini» che ne ammira il vivo ingegno di teorico del corporativismo rivoluzionario, il corrosivo anticonformismo della penna e della favella, la frizzante causticità del linguaggio infiorato sempre di battute e freddure che nel dopoguerra faranno ridere e sorridere anche Giuseppe Di Vittorio, suo inesausto lettore- maturano una amicizia e una intesa destinate a mai spegnersi, una volta entrato nello staff fontanelliano Micheli assolve da par suo a compiti organizzativi di rilievo.

Il segretario giudica tanto apprezzabile l'opera del suo collaboratore che decide di non privarsi del suo apporto allorché approda alla guida del massimo organo sindacale che si stampa in Piazza Montecitorio. In pratica, egli è il vice del direttore così come, a Via Boncompagni, era il vice del segretario. Così come, nel dopoguerra, sarà ancora il vice del direttore quando Fontanelli fonderà "Il Lavoro Italiano". Tuttavia, una non ria sorte vuole che egli continui a servire la buona causa non soltanto a colpi di prosa ma anche in veste di organizzatore e consigliere nel sindacato. Edoardo Malusardi, subentrato all'intellettuale ferrarese alla testa del «carta e stampa», gli chiede di stargli accanto. Però Malusardi è a Milano e, pertanto, per il «romanista» Micheli è giocoforza immilanarsi. All'ombra della «Madunina» ci resta fino al '42, quando una malattia della moglie, la Signora Bice, gli suggerisce di tornare all'ombra del «Cupolone». Malusardi non gradisce, naturalmente, anche perché Micheli è, oltre al resto, suo braccio destro letterario. Infatti gli scrive i discorsi che pronuncia alla radio, allora EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche).

Venticinque luglio '43. Il Nostro viene licenziato e liquidato con Lire 50.000. Una bella somma, per l'epoca. Però non fa in tempo a godersela in santa pace mentre ancora infuria la guerra. Ecco: la fondazione della Repubblica Sociale Italiana lo rigetta nella mischia. Viene mandato a Terni, in qualità di segretario del sindacato lavoratori dell'industria. La sede è in San Valentino, che non è una chiesa dedicata al Santo degli innamorati bensì una frazione cittadina dove in uno dei non molti edifici risparmiati dal terrorismo aereo dei «liberatori» si trova un po' di tutto: commissariato militare, sindacato, uffici comunali etc.

Corrono tempi magri oltre che brutti e Micheli non può concedersi il lusso di un «vice» vero e proprio, secondo normalmente costumasi. Ma le cose da fare sono tante e di un numero due il segretario-letterato ha bisogno. Il problema è risolto affidando l'incarico... al figlio Enzo. Soluzione, questa, che presenta due vantaggi:

I) È persona di fiducia in un momento in cui, come recita l'antico adagio popolare, «fidarsi è bene non fidarsi è meglio»;

II) Non grava in alcun modo sul bilancio del sindacato. Ciò detto, occorre subito aggiungere che la gestione micheliana non tarda ad assumere aspetti di straordinaria singolarità. Caso più unico che raro in tutta la RSI, il segretario del sindacato fascista gode della benevola attesa del locale Comitato di Liberazione Nazionale. Perché mai? Non certo per uno squallido doppio gioco o per un occulto passaggio nei ranghi avversari. Cose assolutamente inimmaginabili in un uomo retto, integro, puro come il Micheli. Di ben altro e di ben più nobile trattasi. Egli non appena giunto nella città umbra si mette a praticare uno sport commendevole ma piuttosto pericoloso data la situazione: l'opposizione, nei modi e nelle forme concretamente possibili, ai tedeschi, che hanno approntato un piano per il trasporto in Germania delle strutture industriali ternane. (Le famose acciaierie, dove, peraltro, i partigiani non hanno fatto troppi complimenti, liquidando fisicamente i delegati sindacali fascisti di fabbrica.) L'opera di arginamento del nuovo capo del sindacato -che ha mirato a salvaguardare, insieme ai macchinari, pure i livelli occupazionali- si rivela positiva, da risultati correttamente valutati da tutta la cittadinanza, oltre che dalle autorità della Repubblica e dallo stesso Mussolini. Quando gli angloamericani entrano in città il CLN si guarda bene dal molestare un «repubblichino» tanto ben visto e benvoluto, che si accinge a tornarsene a Roma. Ma sarà il caso, a questo punto, di affidarsi all'agile penna di Giuseppe Micheli per una rapida narrazione di ciò che gli accadde nel dopo Terni. Il brano -illustrativo anche di toccanti e simpatici aspetti della personalità dell'uomo- lo espungiamo da "Ponentino Romano", pubblicazione che nel '62 vide la luce per iniziativa -una delle tante, tantissime- dell'inesauribile, infaticabile autore romanista.

Vediamo: «Erano i primi tempi in cui Roma era stata «liberata» ed io, ormai dimesso d'autorità dal mio posto di lavoro, ero ritornato alla mia casa con mia moglie ed un mio figlio (gli altri erano uno nella Repubblica Sociale, l'altro ancora prigioniero alle Hawai) dopo una estenuante camminata d'oltre cento chilometri passando, Dio solo sa come, attraverso mille pericoli, tra le autocolonne delle truppe alleate che avanzavano contro i tedeschi in ritirata. Nella nostra casa trovammo che mia madre era morta di dolore dopo che aveva appreso la fine di mio fratello fucilato alle Fosse Ardeatine. Trovammo l'ostilità di coloro che per istigazione dei partiti erano in agguato, segnalando chi ritornava dal di fuori alle proprie famiglie. Trovammo, infine, la più nera delle miserie, mentre mi si negavano i denari lasciati presso un istituto dello Stato dai miei figli lontani o prigionieri».

 Un giorno il sindacalista-scrittore viene convocato alla Tributaria... Seguiamolo ancora: «[...] in presenza di altra gente sottoposta come me ad accertamenti mi vennero contestati i profitti di regime, vale a dire tutti i grandi guadagni che io dovevo aver conseguito, secondo l'accusa, con la canzone "Faccetta nera". Ricordo anzi che mi fu precisato risultare a mio carico di essere stato per quella canzone largamente beneficato dal regime; proprio io che non ho mai chiesto e non ho mai avuto nulla da nessuno [...] Mi si chiese allora se possedevo case o terreni o azioni di qualche istituto e non si voleva credere che io non avevo e non potevo trovare nemmeno i mezzi per vivere alla giornata. Ed alla richiesta se io possedessi almeno azioni della Montecatini fu mia moglie che rispose e disse: "Ecco le uniche azioni che possediamo!" E aperta la borsetta esibì non ricordo bene se uno o più biglietti del Monte di pietà. Indi soggiunse: "Andiamo a rinfrescarli, come si dice a Roma, e se non ci credete veniteci anche voi"».

Mentre il Sor Michele, così affettuosamente lo chiamano tanti rispettosi conoscenti, studia il modo migliore per conciliare il pranzo con la cena -ardua o-perazione, visto e considerato che, da buon epurato, gli mancano sempre diciannove soldi per fare una lira- ecco scattare un evento che neppure la più sfrenata fantasia del più fertile dei romanzieri avrebbe potuto mettere nel conto: un invito a colloquio di Giuseppe Di Vittorio, leggendario leader della CGIL appena unitaria. Pieno di curiosità il «repubblichino» ancora fresco di RSI -siamo nel '44!- si reca dal Cerignolese che lo tratta non solo con correttezza ma addirittura con cordialità mentre gli propone di entrare nella Confederazione per aiutarlo nell'azione ricostruttiva. La risposta è tipicamente... micheliana. Grato, commosso per la offerta e per la fraternità dell'approccio, ma lui non è uomo buono per tutte le stagioni e per tutte le trincee. Si lasciano con immutata, reciproca simpatia e stima.

Ovviamente, non tutti gli antifascisti hanno la stoffa umana di Di Vittorio. Pertanto qualche gaglioffo si azzarda ad insinuare che il Nostro andando via da Roma si sia appropriato della cassa dei poligrafici. La miserabile panzana è smentita recisamente e con indignazione dagli stessi ambienti ciellenisti di Roma e di Terni. Di più: in essi si sa, si dice, che Micheli ha portato a Roma la cassa residua della Unione Sindacale di Terni, immediatamente consegnandola ai liquidatori nominati dagli Alleati. Fino all'ultimo soldo. Intanto, dopo un periodo di penuria pressoché totale, riesce a vivere dignitosamente con le 50.000 lire della liquidazione e aiutando il figlio Enzo, impiegatesi al Comune, a fare le liste elettorali.

Nella seconda metà degli Anni Quaranta si rinnova il rapporto di amicizia fra Giuseppe Micheli e Luigi Fontanelli. Quest'ultimo ha reimmesso la sua firma nel dibattito sindacale fondando un settimanale, "Il Lavoro Italiano", ideato per propugnare una costituente del sindacaslimo autonomo dai partiti, secondo un progetto in cui vive qualche scheggia virtuosa del sindacalismo rivoluzionario. Nella sede di Via Campo Marzio il Romano e il Ferrarese riattivano tradizionali vincoli sinergici. In modo particolare, da romanista irripetibile qual è, il primo si dedica a una storia a puntate delle varie categorie dell'artigianato capitolino. Tante «chicche» che ancora attendono un editore disposto a raccoglierle in un volume. Potrebbe pensarci, per esempio, il dottor Avanzini, della Newton Compton Editori, che già si è occupato del Nostro pubblicandogli in eccezionale veste tipografica una splendida "Storia della canzone romana", opera di ben 663 pagine, ormai un classico, apparso nelle librerie alcuni anni or sono a cura e con la prefazione di un noto e autorevole intellettuale di sinistra, Gianni Borgna, attuale assessore alla cultura della Giunta Rutelli, distintosi fino ad oggi per avere concesso i crismi della ufficialità a manifestazioni rievocative di personaggi quali Gentile, Bottai e Marinetti.

Ma il Micheli storico non si esaurisce in questo libro. Dalla sua feconda penna sono scaturiti pure una "Vita di Cola di Rienzo" e una "Beatrice Cenci". Imparentati con la storia sono anche il poemetto in vernacolo romanesco "Momenti della Repubblica Romana" e il volume in versi "Mussolini". La poetizzazione musicale dell'impresa etiopica fu fondamentalmente un prodotto micheliano. E non solo la già citata "Faccetta nera", ma anche con "Soldato del Lavoro", ambedue musicate da Mario Ruccione. Ma questi non sono che aspetti, ancorché importanti dell'imponente opera di Giuseppe Micheli. Ci limitiamo a citare qualche altra pubblicazione: una biografia di Ettore Petrolini, risolta in chiave di commedia musicale con il titolo "L'uomo che faceva ridere"; il romanzo "L'uomo che non ricorda"; la commedia "Letizia"; la commedia satirico-musicale "È arrivato Woronoo"; "La piccola storia del Sor Capanna", etc. etc. etc. Fondò anche periodici quali il settimanale "Ghetanaccio" -che diresse insieme a Leone Ciprelli, cui collaborò anche Petrolini insieme ai più illustri romanisti dell'epoca- e "Ponentino romano". Delle "Edizioni Musicali Micheli" si è già detto.
 

Enrico Landolfi

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