«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 2 - 31 Marzo 1996

 

l'ultima
 

Da Annibale alla Pivetti

 

 

L'idea che gli stranieri, a cominciar dal primo che fu Annibale, scesi a conquistar la Toscana, siano buffi nella loro tronfia superbia, è rimasta viva nel popolo, pur dopo tanti secoli. «Tu se' più buffo di Annibale» dicono i miei pratesi. Forse perché Annibale era fuligginoso, e aveva un occhio solo. E che dai toscani, assiepati sulle mura delle loro città a godersi la sfilata dei mori e degli elefanti, Annibale fosse accolto con grandi risate, è cosa certa, e nessuno verrà a dirmi che fosse sgarberia. Nessuna città toscana gli aprì le porte. E se Annibale volle dormire, gli toccò dormire fuori dell'uscio, se volle assaggiare del nostro vino, gli toccò comprarselo «co' su' chettrini», e se volle una donna gli toccò farsela venire dall'Africa: tanto, che una volta fuori della Toscana, non ci volle più rimetter piede, e preferì rimanersene a gironzolare e battagliare per vent'anni nelle Puglie e nelle Calabrie, dove, per mantenersi amici quei popoli, gli bastava dar spettacolo in piazza, la domenica, con i suoi elefanti ammaestrati.

Ripassar per la Toscana non era il caso, dopo quella bella accoglienza: rischiava di rimetterci l'occhio sano. L'altro lo aveva perso tra Massa, Montignoso, e Pietrasanta, o come altri vogliono, a Fucecchio, o nell'Osmannoro, che è la grande piana erbosa e paludosa tra Firenze e Prato: e dicono che ad accecargli l'occhio fu la malaria. Ma da quando in qua la malaria cava gli occhi alla gente? Lo perse perché qualcuno glielo levò. Senza quel brutto incontro, Annibale si sarebbe certo fermato in Toscana, come poi fece in Capua, a godersi l'aria fresca.

Ma se veder la Toscana gli era costato un occhio della testa, a rivederla ci avrebbe rimesso, come dicono a Prato, l'occhio del sedere, che è un gran bell'occhio. (Pensaci, Irene Pivelli!, N.d.R.) Mi ricordo di avere assistito da ragazzo, nell'Arena di Prato, che era a due passi dal Collegio Cicognini, a una tragedia in lingua pratese, chiamata "I cartaginesi". Annibale, tutto vestito di giallo con una benda nera sull'occhio perso, picchiava alla porta della città, che a guardarla bene somigliava alla Porta Pistoiese, quella da dove i pistoiesi entrano in Prato. (I cartaginesi, in Prato, sono sempre entrati, e sempre entreranno, per Porta Pistoiese).

«Tutti morti, costàe? O che 'un si bee?» vociava Annibale.

«Son passate le nove, va' a letto, bighellone!», rispondeva un pratese mettendo fuori la testa fra due merli delle mura. Quel pratese non era Stenterello, era Bernocchino, il più estroso e glorioso mendicante pratese, che nell'Arena di Prato faceva la parte che a Firenze, dove son di bocca buona, faceva Stenterello. Ai pratesi, e a tutti gli altri toscani, Stenterello, che è fiorentino, non garba. È una maschera che piaceva ai fiorentini del Granduca, che piace ancora ai bigotti, ai collitorti, ai grassimagri, ma agli altri toscani, massimamente ai pratesi, non è mai garbata. Stenterello ha il codino: e quando mai i toscani hanno avuto il codino? Stenterello ha la parolina liscia e rotonda, a càccola, dice «mamma mia», dice «gnamo, grullo», dice «la si tiri in làe, la mi faccia il piacere, la s'accomodi, la favorisca, servo suo». Servo suo? E quando mai i toscani hanno detto «servo suo»? Stenterello dice «billero». Billero? I toscani han sempre detto bischero. Stenterello, per farsi il segno della croce, si mette prima le dita in bocca: e quando mai i toscani si son fatti il segno della croce con la saliva? Ma nemmeno con lo sputo, come fanno a Firenze! Stenterello va in ciabatte: e quando mai i toscani sono andati in ciabatte? La ciabatta fa l'uomo ciabattone: e quando mai i toscani sono stati ciabattoni? E poi, la ciabatta è propria dell'uomo che ha le meline: e dove mai s'è visto un toscano con le meline? I toscani hanno le mele, e ci tengono: hanno le mele perfino le belle livornesi del quartiere della Venezia, benché siano le sole donne, in tutta la Toscana, a andare in ciabatte. E di qui nasce forse quel proverbio livornese che dice: «donna in ciabatte, mele basse».

«O che modi son coresti?» vociava Annibale.

«O che modi gli hanno a essere? son modi pratesi» rispondeva Bernocchino.

«Eh, son capitaho bene», diceva Annibale.

«Tu se' capitaho a Praho, e non potevi cascar meglio, ribatteva Bernocchino, o dove credevi d'esser cascaho? in Italia?»

«Perché? O Praho la'unn'è Italia!»

«Noe, che Praho la 'unn'è Italia!» gridava Bernocchino.

«O indo' l'è, vociava Annibale, se la 'unn'è in Italia?»

«Ell'è in Toscana!» rispondeva Bernocchino: e il pubblico sbottava a ridere, si spellava le mani, strepitava. Perché la storia d'Italia, in quegli anni, la conoscevano tutti, in Toscana, e lo sapevano tutti a memoria che in Italia nessuno ci può vedere, che nessuno ci vuole, e che gli italiani ci trattan da forestieri, perché han paura e soggezione dei toscani, perché n'hanno invidia e sospetto, e perché sarebbero il più felice popolo della terra se i toscani non fossero italiani. («Bada lì, diceva Bernocchino, come se fosse difficile essere italiani! A esser italiani tutti son boni: ci son riusciti perfino i piemontesi e i siciliani! ma provati a esser toscano, e pratese, se ti riesce!»)
 

Curzio Malaparte
"Maledetti toscani", Vallecchi Editore, Firenze, 1967

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