«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 2 - 31 Marzo 1996

 

Su cosa si deve discutere
 

La collegialità, lo stare insieme, l'agire nella prospettiva di uno sforzo comune rappresenta sempre un lavoro con caratteristiche che tendono al complesso. In fondo, si intrecciano le percezioni culturali, le declinazioni di natura psicologica ed umorale, e si tratta di elementi che nessuno può trascurare. Ciononostante una piena riflessione sul sé, una continua consapevolezza delle pieghe che si increspano nella vicissitudine che coinvolge la comunità è sovente difficile. Le insidie nascono per la natura intrinsecamente nascosta di tanti significati e di tanti obiettivi. Sulla stessa «cosa» si nutrono e si elaborano giudizi separati da distanze di rilievo; il valore stesso che si conferisce ad un lessico politico che dovrebbe essere per tutti noi usuale rischia di apparire tanto variabile quanto determinato dai singoli caratteri e dalle specifiche sensibilità.

D'altra parte è naturale, e se vogliamo a tratti inevitabile, correre sul filo che separa chiarezza ed intimismo, oggettività e temi storici e sociali da un lato e versione individuale della presenza, dell'esserci. Per questo indire un convegno come quello del 30 marzo costituisce un appuntamento che può presentare, sullo sfondo, una caratteristica generale non univoca, dialetticamente vivace e quindi non scontata. Non c'è ragione di qualificarlo come rischio, poiché in sé non v'è contenuto alcun fattore di dispersione o di disaggregazione, la piattezza delle posizioni snaturerebbe il clima, e si vivrebbe una problematica condizione centrifuga.

Richiamiamoci al tema. «La voce dell'impegno» si presenta già da sola come il mezzo attraverso il quale prende corso un desiderio di espressione di un gruppo di persone immerse a vario titolo nella società civile.

Persone connotate politicamente. Che hanno all'attivo una precisa serie di eventi, di coinvolgimenti, di legami che si sono attivati, per poi forse sciogliersi e quindi riannodarsi.

Non nascondo che sarei più soddisfatto se il convegno potesse assumere il carattere di una ricognizione all'interno ed all'esterno del gruppo. All'interno, in quanto un minimo di elaborazione «circolare» è pur sempre necessaria. All'esterno, perché è indispensabile rammentare costantemente la aspirazione, che nel Paese persiste, a costruire una ipotesi di lotta antagonista all'attuale assetto di potere o, se vogliamo, dei poteri.

Si tratta di due aspetti concatenati, che non è utile e forse neppure possibile disgiungere. Il prossimo 21 aprile rimane, in quanto all'esito che riserva, avvolto in una coltre che non consente di decifrare una stabilità prevedibile del sistema. L'informazione, malata e lottizzata, raccoglie elementi di valutazione che sfuggono, ad avviso di chi scrive, ad una decifrabilità immediata e senza tema di smentite. È però vero che la cosa può anche non rivelarsi utile. Poiché, e questo è il punto, il futuro assetto delle aule parlamentari non pregiudicherà la tendenza di fondo che anima certi tratti ontologici. Ormai, chi più chi meno, i soggetti politici vecchi e nuovi si sono spostati, nella maggioranza dei casi, nella comune sponda di accettazione del meccanismo capitalistico. La dottrina liberale e liberista, accuratamente declinata nelle forme contingenti più efficaci, resta in salda posizione. Ne è d'esempio il tema centrale delle privatizzazioni, che rappresentano un po' l'anima del dibattito politico-economico sin qui privilegiato sul versante della ristrutturazione. Da Fini a D'Alema la trasversalità della comune percezione dell'ineluttabilità del processo di svendita delle partecipazioni statali è chiaro; rimane sospeso, sullo scenario, un insieme piuttosto misero di sfumature sul quando, sui tempi che dovranno scandire certi processi. Siamo infatti di fronte ad una tracimazione del momento economico, del peso e dell'influenza dei grandi potentati, in Italia peraltro da sempre riconducibili a certi «grandi nomi» del mondo finanziario ed imprenditoriale. Il fenomeno non è solo italiano. Pervade, viceversa, l'intero occidente. Siamo alle prese con uno stadio più avanzato di quella «globalizzazione» alla quale prestano sempre più scoperta attenzione anche coloro che un tempo, in veste di studiosi, non a-vrebbero forse immaginato di porre in evidenza certi lati decisamente inquietanti.

Solo su questo punto, lo sappiamo tutti, meriterebbe soffermarsi per il giusto tempo, tante sono le implicazioni che rendono oggettivamente impegnativa una analisi della congiuntura trans-nazionale che in questo momento si sta palesando negli Stati economicamente più avanzati. Potremmo dire, solo di passaggio, che la più estesa fase dell'integrazione nel Mercato mondiale stabilisce sempre più sbarramenti ed inibizioni strutturali all'autodecisione ed ai princìpi di governo connaturati alla sovranità quale la si è intesa sinora nei termini dello Stato nazionale.

Il peso preponderante e distruttivo del principio economico, reso infinitamente più sovrastante dall'enfasi tecnologica, spinge anche alla messa in crisi delle identità etniche e culturali. Si potrà anche discutere sul rapporto di funzionalità subordinata che, ad esempio, può avere la spinta massiccia all'immigrazione che interessa anche l'Italia: saremmo d'accordo, e lo si è anche a sinistra (come rileva D. Cohn-Bendit nel suo recente "Patria Babilonia") sul fatto che alla generale tendenza alla assimilazione ai ritmi del capitalismo più maturo si aggiunge e si sovrappone il rischio della rimozione e dello sfilacciamento delle differenze e delle specificità legate ai popoli europei.

Sul versante nazionale, il congegno produttivo continua difatti a macinare tutto e tutti; continua cioè, il processo di «sussunzione», a rapportare ogni valore precedente e già costituito a sé stesso, facendosi misura d'ogni cosa e metabolizzando i fattori non in linea. Addirittura strumentalizzando anche le opposizioni, «inventandole», dandole in pasto (vedasi il cosiddetto movimento «Skin») nell'arena mass-mediale. A tutto questo i flebili politicanti che celebreranno il 21 aprile nulla potranno opporre, e nulla vorranno aggiungervi. Lo ha in qualche modo sostenuto poco tempo fa anche J. Habermas su "Reset" ("Nel mondo senza confini un futuro senza politica?") del febbraio di quest'anno, che merita di essere letto. L'inquietudine e l'incertezza dominano insomma laddove si cerca di interpretare questo scampolo di storia. Globalizzazione; perdita delle identità professionali, sociali e -prima ancora- culturali; restringimento dell'area di operatività della politica. Sono i tratti invarianti della tendenza che investe sinanche i recessi della società consumistica e livellante. Ma non solo. Perché -come sostenuto da osservatori postisi sulla scia di A. Touraine e J. F. Lyotard- siamo in mezzo al guado rappresentato dall'emergere della società «post-industriale» e «post-moderna». Una società che -come osserva D. De Masi, sociologo autore de "L'ozio creativo"- progetta il suo futuro. Ma anche una società -possiamo rilevare- che si esprime come moderna Babele, come labirinto di voci ed impulsi che partoriscono oramai un grande spettacolo enigmatico, poliedrico, immane. Lo scenario è multivocale, tale da far sì che si produca un immenso rumore di fondo, nell'ambito del quale diventa difficile individuare un indirizzo, una possibilità di scelta che non venga immediatamente resa superata da qualcosa di nuovo, di più veloce, di più moderno. La proiezione dei messaggi, l'amplificazione dei numeri e delle velocità, la progressione senza fine dei mezzi rinvia, in questo senso, ad un punto oscuro dove l'economia, la politica, la vita sociale divengono, più che progetto, un meccanismo. Quasi come se, in declino le «grandi narrazioni», la società complessa dispieghi tutto il suo potenziale, tanto da mostrarsi come ritmo, cadenza accelerata, continuità inesausta che perpetua sé stessa, senza un tracciato teleologico, senza uno scopo. Senza una fine che non sia un cortocircuito che gli antagonisti auspicano ma che non arriva mai. Se si crede che possa anche essere lecito osservare che rinveniamo nelle cose soprattutto il congegno, il movimento senza direzione, potrà forse apparire meno sospetto parlare di presenza anziché di progetto riferiti a «chi sta contro». Una presenza, quindi, che si fa egemone di sé stessa, che non ambisce al «potere» e non si misura, nelle sue radici motivanti, con scopi che non siano quelli di affermare sé stessa come appropriazione decisa della sua realtà. La realtà di chi avverte di porsi in una dimensione di rifiuto totale e generazionale, che non ha paura di fare politica poiché non cerca lo scranne ma il contatto, la spinta realizzata verso la comunità, la compattezza delle sue componenti, pronta a non assolutizzare il «successo».

Questo è nella fase odierna lo spazio e l'ispirazione sui quali ci si deve confrontare e ridiscutere.
 

Roberto Platania

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