«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 2 - 31 Marzo 1996

 

le lettere
 

Buonismo, riconciliazione, amor di Patria e rispetto degli avversari

 

Sono indotto a scrivere questa lettera, sperando che venga pubblicata, dalla profluvie di messaggi incitanti alla riconciliazione che mi capita di leggere di questi tempi. Nella sostanza, si invita a superare certe divisioni del passato nella visione di un comune futuro. A parte il fatto che, se ci sarà un comune futuro, questo sarà rappresentato sicuramente dal superamento dei vecchi Stati nazionali nati nell'Ottocento, in una integrazione europea che sarà lenta quanto si vuole e sicuramente contrastata dai nostri nemici di sempre, ma che sicuramente sboccherà per ineludibili esigenze; c'è da chiedersi quanto, a tutt'oggi, potrebbe influire un atteggiamento di superamento degli steccati fra quanti 50 anni orsono si lottarono, in territorio nazionale, morendo per ideali diversi ma con lo stesso «amor di patria».

Se dalla parte avversa alla mia si cerca, in questi tempi, di storicizzare il Fascismo, relegandolo in un particolare contesto storico, con lo specifico intento di esorcizzarne la carica rivoluzionaria, ancor più valida oggi di ieri, allora possiamo anche fermarci a questo stadio, e con molta freddezza vediamo cosa è successo.

Quando Mussolini dichiarò guerra all'Inghilterra, specificando che tale guerra era contro coloro che detengono ferocemente il monopolio delle ricchezze e di tutto l'oro del mondo, evidentemente non c'era altro da fare. Come ampiamente dimostrato, l'Italia aveva fatto di tutto per evitare questa guerra che -era facile intuirlo- per noi sarebbe stata dura. Data la posta in gioco: supremazia dell'Impero inglese. Per fare un riferimento sul dibattito allora in corso da anni nell'Italia prebellica, Piero Pellicano, su "La Vita Italiana" del febbraio 1936, riferendosi ad una analisi geopolitica che riguardava i rapporti USA-Giappone-Inghilterra, non metteva minimamente in dubbio la necessità inglese di avvalersi della collaborazione italiana.

È evidente che, se si parla seriamente di storia, è in un'ottica geopolitica che gli eventi vanno analizzati, ed a questi ci atterremo. Documenti che stanno emergendo in questi giorni, vedasi tra l'altro il servizio su "l'Unità", ove il PDS sta mettendo le mani avanti, confermano la necessità di vedere tutta la questione esclusivamente in un'ottica geopolitica. L'unificazione risorgimentale d'Italia è avvenuta con un rapporto di parasubordinazione alla Francia ed all'Inghilterra, potenze egemoni nel Mediterraneo fin dai tempi della crisi della centralità italiana nel XVI secolo (Pietro Silva, "Italia, Francia, Inghilterra nel Mediterraneo"; P. Gentizon, "Difendo l'Italia"; A. Zischka, "Le alleanze dell'Inghilterra"; A. Zischka, "Lotta segreta per il petrolio"; M. Gianturco, "La guerra degli imperi capitalisti contro gli imperi proletari"; R. Gobbi, "Chi ha provocato la seconda guerra mondiale?"; N. Tommaseo, "Cronichetta del 1865-1866").

Uno dei primi atti di questa parasubordinazione, che condiziona i comportamenti delle grandi potenze per tutto l'arco del XIX secolo nei nostri confronti, è l'azione di mediazione di Francia ed Inghilterra a favore del Piemonte, dopo la disfatta di Novara del 1849. Parallelamente, e fino al 1870, l'Inghilterra ha sempre giocato, contro la Francia, la carta prussiana. L'Italia è stata usata da Napoleone contro l'Inghilterra, mentre l'Italia si è fatta sfruttando la Francia contro l'Austria, l'Inghilterra contro la Francia (spedizione dei Mille), barcamenandosi tra Francia ed Inghilterra per le conquiste d'Africa.

Per quanto riguarda le materie prime è ovvio che noi siamo stati sempre tributari di coloro che le detenevano - e continuano a detenerle. Quando si parla della II guerra mondiale, si tende a passare sotto silenzio il fatto che l'Inghilterra possedeva i 3/4 del globo terrestre (mari e terre emerse). Nel servizio apparso su "l'Unità" si sottolinea che nella borsa andata sparita a Dongo, Mussolini portava con sé la documentazione della approvazione delle grandi potenze all'impresa d'Etiopia. Il che, oggi, appare ovvio. Ciò che non è ovvio è invece l'imbecillità di chi continua ad accusare Mussolini di essere stato un «provocatore di guerre». Al contrario, abbiamo un documento certo che Mussolini lavorava con estrema difficoltà contro il tempo, ben conscio che erano molte le forze interessate a contrastare l'ascesa civile del popolo italiano. Questo documento noi possiamo trovare alla pag. 201 nel libro "Vita di Sandro e di Arnaldo" nella Edizione Hoepli degli "Scritti e Discorsi di Mussolini": «La sorte toccata al documento di Arnaldo -sorte dovuta soltanto, io voglio credere, alla confusione ed al dolore di tutti in quelle giornate- mi induce a dichiarare sin da questo momento -anche perché il mio trapasso potrebbe essere non meno improvviso di quello di Arnaldo- che io non ho fatto, né farò testamenti di alcun genere, né spirituali, né politici, né profani. Inutile quindi cercarli. Non ho che un desiderio: quello di esser sepolto accanto ai miei, nel Cimitero di San Cassiano. Sarei grandemente ingenuo se credessi di esser lasciato tranquillo dopo morto (Confermato, oggi, a 62 anni di distanza! N.d.R.). Attorno alle tombe dei capi di quelle grandi trasformazioni che si chiamano rivoluzioni, non ci può essere pace. Ma tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato, mentre il mio spirito, ormai liberato dalla materia, vivrà, dopo la piccola vita terrena, la vita immortale ed universale di Dio». Questo documento è del 1934. Siamo costretti a stringere, per comprimere l'essenziale.

Da quanto sopra scritto, e da quanto in merito sarebbe possibile scrivere, ne consegue che, una volta scatenata la guerra, e dovendo l'Italia parteciparvi perché fino ad oggi, come ben sanno coloro che conoscono la Storia, l'Italia non è stata mai assente da qualsiasi evento bellico, la scelta storica non poteva esser che una: sfidare l'Inghilterra, in quanto detentrice delle ricchezze del mondo, alleandosi con un paese, la Germania, che dall'Inghilterra era stato penalizzato in modo ignobile (A. Toso, "L'iniquo trattato di Versaglia", Roma, 1941).

L'unico evento significativo del XX secolo è stato pertanto la ribellione contro il cosiddetto «Impero Atlantico». L'Inghilterra ha perso, in conseguenza, l'Impero. L'Italia ha perso l'indipendenza, ma non stavamo molto meglio prima.

L'Inghilterra ci avrebbe strozzato comunque, come abbiamo potuto constatare nel primo dopoguerra, dopo che l'Italia aveva sparso il sangue della sua gioventù (600mila morti) per intervenire in «aiuto» delle potenze imperiali marittime.

Chi pensa che le guerre debbano essere formalmente vinte per stabilire chi è il vero vincitore, sbaglia. La Storia si muove con molta lentezza. Il fatto che l'Italia abbia passato 50 anni di mancanza di libertà non significa un destino eterno, né che nuovi assetti geopolitici, che stanno emergendo dalla fine di Yalta, non lascino possibilità di azione, a patto che qualcuno, libero da pastoie «sentimentali», culturali, finanziarie, si decida a proporre agli Italiani, finalmente, un reale progetto politico. Stabilito quindi che l'unica guerra storicamente legittimata non poteva essere che quella contro l'Impero Atlantico, ne consegue la totale squalificazione storica di quelle forze che, col 25 luglio e l'8 settembre, cogliendo l'occasione di una sconfitta inevitabile, ma sicuramente propiziata -oggi lo possiamo capire- da essi stessi, determinarono il «ribaltone» che rimetteva gli Italiani col vecchio cappio al collo.

Qualche anno fa, ad una inchiesta di chi fosse, per i francesi, il loro uomo più importante, la stragrande maggioranza rispose: Napoleone. Non Luigi XI, il «santo»; non Luigi XIV, il «Re Sole»; non Carlo Magno, che ricreò l'Impero Romano nel cuore d'Europa; non Robespierre che mise in moto quel «volano» della «rivoluzione che rovesciò gli eserciti di Napoleone nel mondo»; ma Napoleone che fece la sintesi fra il nuovo ed il vecchio, e con le armi le difese. Nel 1816 la Restaurazione si trovò a barcamenarsi, in tutta Europa, con zelanti, bonapartisti, reazionari, austriacanti, liberali, neoguelfi e quant'altro.

Ma la Restaurazione, dal 1816 in poi, nella memoria popolare, non ha lasciato traccia. Oggi, coloro che, in Francia, all'epoca, si erano messi contro Napoleone, non figurano fra i lottatori contro il dispotismo, ma fra i sostenitori delle potenze nemiche della Francia. Similmente, coloro che si posero contro la RSI possono essere considerati, in un giudizio storico, e ad esser benevoli, sostenitori dell'imperialismo inglese che si andava trasformando in quello americano. La Francia, in questa ottica, va posta fuori perché ormai divisa, al suo interno, fra i sostenitori della linea europea e quelli dell'alleanza atlantica. La crisi francese perdura fin dal 1940. La perdita delle colonie francesi nel dopoguerra essendo stata propiziata più dall'azione americana che dai vari Fronti di liberazione nazionale (vedansi i vari libri di Lartéguy).

Nel 1799 iniziò in Italia la reazione antifrancese, che venne dal di fuori come la Rivoluzione. Dalle Alpi calò in Lombardia il maresciallo Suvarov, il terribile tartaro che aveva massacrato gli ultimi eroi della libertà polacca al comando degli austro-russi; dalla Sicilia piombò in Calabria il Cardinale Ruffo seguito non solo da soldati borbonici, ma anche da un'orda disordinata di briganti, di preti, di frati e di contadini. Furono battaglie campali, fatti di sangue e di terrore, eccidi, massacri. A prescindere quindi dalle reali intenzioni dei singoli, in quel contesto storico a noi abbastanza vicino, chi ricorda più quegli eventi?

Similmente, io sono convinto che, per quanto accadde in Italia Centro-Nord negli anni 1943-45, errano tanto quelli che parlano di guerra di liberazione, quanto coloro che utilizzano il termine resistenza (importato dopo la fine della guerra, dalla resistenza francese, per la mancanza in Italia di un termine capace di «spiegare» il fenomeno - a dimostrazione di quanto fosse stato «genuino») quanto coloro che usano con raccapriccio il termine guerra civile. Come se tale condizione bellica non fosse una costante del nostro Paese per tutti i secoli, dall'antica Roma alla I guerra mondiale che vedeva contrapposti gli Italiani del Regno d'Italia agli Italiani dell'Impero Austroungarico, fra cui Alcide De Gasperi.

Sulla rivista mensile "Il secondo risorgimento d'Italia" a cura della Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate, il direttore Silvio Sirigu lamenta un fatto inoppugnabile. Egli scrive, testualmente: «La Storia della Guerra di Liberazione urge però rivisitarla, riscriverla, interpretarla. La sua storiografia non può essere quella propinataci dalle zavorrate fonti manipolatrici dei vari Biagi, Bisiach, Bocca, Eco, Petacco, Rendina e congrega, sempre intenti ad ignorare o misconoscere il sacrificio e gli eroismi delle Forze Armate Regolari ed a cantar le gesta del mito-epopea resistenziale». (Testuale!)

Poveretto! Egli non sa che l'apporto delle truppe regolari non può avere peso alcuno, perché storicamente non rappresenta nulla (chi ricorda le truppe francesi dei revenants che combatterono contro Napoleone nel 1814?) come le truppe tedesche di Von Paulus che combatterono sul fronte dell'Est come avanguardie dei Russi contro le Waffen SS europee.

Mentre il «mito resistenziale» appunto come un mito che deve giustificare la conquista d'Italia da parte dell'Impero Atlantico è sostenuto e finanziato affinchè venga inculcata l'idea della «ribellione degli italiani contro la tirannia asservita ai cattivi tedeschi», laddove, in verità, coloro che, sia pure con diverse e personali motivazioni avevano scelto la RSI, si battevano di fatto contro la tirannia mondiale dell'Impero Atlantico.

A conferma di quanto fin qui scritto, e che il mito resistenziale è esclusivamente in funzione degli italioti, sta l'esperienza di coloro che per lavoro vanno all'estero e che, parlando con la gente, si rendono conto che questo capitolo della storia italiana è pressoché inavvertito. La gente sa che l'Italia ha fatto la guerra assieme alla Germania ed al Giappone, perdendola; e sa anche che l'Italia, assieme alla Germania ed al Giappone, è fra le Nazioni più importanti, sia pure in posizione molto subordinata, e tale importanza è direttamente legata a «quella presenza». Perché, e questo è ovvio, o si è assenti o si è presenti.

È meglio perdere dignitosamente pretendendo la parità con gli altri che mettersi ignobilmente al servizio dell'apparentemente più forte. La cosiddetta "Sindrome dell'8 settembre" (Intervista a Cossiga su "Limes", n° 3, 1995) può valere soltanto per coloro per i quali l'8 settembre rappresenta qualcosa, cioè per le vittime del mito resistenziale. Non per coloro che hanno continuato l'unica guerra storicamente significativa per l'Italia del XX secolo. Similmente per noi cittadini d'Europa del XX secolo non ha alcun significato venire a sapere se i bonapartisti della Francia ante ascesa alla Presidenza della II Repubblica (presidenziale) di Luigi Napoleone, alias Napoleone II, nel 1948 abbiano o meno seguito una politica di collaborazione, o fossero stati emarginati e criminalizzati in quanto perdenti e responsabili delle guerre aggressive di Napoleone I, oppure se qualcuno di essi abbia, a prezzo della propria dignità, svenduto il significato storico delle battaglie alle quali aveva partecipato. Se, oggi, Chirac può trattare con Clinton, considerando la reale disparità di potenza tra la Francia attuale e gli USA, ciò si deve, anche, ad un tale Pétain, ad un tale Lavai, ad intellettuali come Drieu, Brasillach, Rebatet, etc.; a De Gaulle che ha riscattato, con la sua presidenza, una presenza funzionale agli interessi britannici; ed a quanti, nell'Italia del Centro-Nord, continuarono a battersi nella guerra del Sangue contro l'oro.

Se il Papa Giovanni Paolo II può proporsi come difensore dei popoli oppressi contro l'egemonia dei Wasp associati al sionismo, ciò si deve alla guerra del Sangue contro l'oro, che coinvolse, direttamente o indirettamente, tutte le popolazioni dominate dall'Inghilterra. Se è possibile, oggi, combattere ad armi pari contro la cultura economicistica che garantisce il potere di chi possiede su chi lavora, ciò si deve anche a persone come Ezra Pound che, in Italia, ed a nome di un'altra tradizione statunitense, contestava le ragioni culturali della guerra che l'Impero Atlantico stava conducendo contro l'Italia. Come ha lasciato scritto Degrelle nella sua ultima intervista prima della morte, l'Europa non slava rappresenta oggi il 5% della popolazione mondiale. Quale rivendicazione può essa portare nei confronti dell'altrui egemonia se non quella della dignità della propria storia?

 

Giorgio Vitali

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