«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

Amici miei fascisti immaginari
 

«Cento e una vena ha il cuore;

di queste una sale verso la testa;

colui che sale attraverso questa va verso l'immortalità;

attraverso le altre si esce in tutte le direzioni»

Chandogya-upanishad - VIII, 6,6

 

Bentrovati! Torno, per una volta, a chiedere ospitalità a questo foglio. Lo farò in punta di piedi e chiedendo fin d'ora venia per un titolo che può sembrare supponente ma che deduco da una -ormai invecchiata- pubblicazione perché mi aiuta ad entrare in argomento. Decisi, qualche anno addietro, di ritirare la mia firma da questo giornale (che pure avevo contribuito a fondare), lo feci senza polemiche e senza strappi, semplicemente prendendo atto che i presupposti su cui credevo esso dovesse fondarsi, fossero esauriti e -in qualche misura- traditi da una incapacità di continuare coralmente un percorso attraverso il deserto che ci si parava dinanzi, senza ricorrere al conforto di categorie che pensavo ormai alle nostre spalle. Senza descriverci per antifrasi con i vecchi compagni di strada, senza quell'horror vacui, quella paura di un vuoto che avremmo dovuto riempire con il duro lavoro di un pensare nuovo e con qualche doveroso silenzio, piuttosto che lasciarci calanutare dal miraggio di vecchi sentieri. Lasciavo il campo a chi, legittimamente, non mostrava la pazienza ed il realismo per la costruzione difficile di nuove possibilità, adoperando i materiali che la realtà ci offriva. L'ho fatto in maniera netta ma senza perdervi di vista. E trovo ora elementi interessanti, importanti di riflessione, stimoli e proposte che stuzzicano la mia curiosità, confermano certe mie speranze, misti a qualche ritardo formale e qualche ingenuità. Anche questi ultimi giudizi li esprimo come modesta opinione personale, nel rispetto assoluto delle altrui. Del resto è chiaro che neanch'io ho nulla da insegnare e quasi nessuna certezza da mettere in campo.

Il dibattito che è andato crescendo sugli ultimi fascicoli mi induce a mettere a vostra disposizione queste brevi riflessioni.

Mi capitò nell'ultima fase di permanenza nel nostro vecchio, comune partito, e nei mesi successivi di trovare una mia risposta, di dare un nome al travaglio che aveva accompagnato i lunghi anni della mia residuale appartenenza. Un travaglio che, dopo il giovanile rifiuto per tutti gli inestetismi del neofascismo nostrano, mi aveva fatto mettere in crisi, una dopo l'altra, tutte le formule, tutti i caposaldi dello stare in quel luogo della politica che già avevo smesso di chiamare fascismo. Sorvolo sui giudizi storici, che non appartengono a questa sede, non sulle definizioni che, più avanti, mi serviranno in questo mio ragionamento. La mia personale soluzione, più volte espressa, consisteva nella constatazione che quel qualcosa che ci aveva fatto stare insieme -me, voi, Almirante, Rauti, Niccolai, Tremaglia, Franchi, Fini o Mennitti- era semplicemente svanito, non era più moneta politica corrente e che, di conseguenza, ognuno poteva rivendicare una propria ortodossia senza che credibilmente io potessi ritenere di essere nel giusto più di un altro. O si ritrovavano nuovi motivi per stabilire chi dovesse stare con chi oppure, questi motivi, bisognava andarseli a cercare altrove.

Fare politica -per chi la vuole fare- è agire nel mondo, provocare eventi, contribuire a governare le cose. E qui è di politica che si parla, altrimenti si confondono i piani, si fanno pasticci. Mi chiesi allora, vi chiesi, se qualcuno di noi aveva motivi sufficienti per tentare assieme traversate, per tenersi per mano attraverso spazi bui e cercare comuni soluzioni, soluzioni politiche. Debbo dire che ne trovai pochi, chi spaesato nel disorientamento di trovarsi in campo aperto, chi con la fretta di avere approdi che non passassero attraverso il difficile lavorio di costruire nuovi legami, di darsi ragioni, di farsi capire, di spiegarsi ma anche di piegarsi alle esigenze che ogni nuova costruzione impone. Vi ritrovo oggi a discutere con parole vecchie di cose nuove, più nuove di quanto qualcuno di voi sia disposto ad ammettere, nel tentativo di dare forma a quella esigenza con cui Vito Errico, più tenace di me, vi ha fatto scontrare. Ecco allora fiorire una quantità di aggettivi: «fascismo sconosciuto», «sognato», «eretico», «impossibile», «di sinistra», «in camicia rossa», «anarchico», «libertario». Per cercare una qualche radice alle proprie idee, una legittimazione, per dire quello che non si ha il coraggio di ammettere e cioè che quel fascismo non c'è, non c'era, non c'è mai stato.

Perché quello non è fascismo. Ciò che qualcuno di voi ha in testa, quello che hanno detto i Nicolino Bombacci ed i Berto Ricci rappresentano un pensiero marginale che per un caso ci si è trovati a declinare all'interno di un contesto altro, a dargli un nome che non gli apparteneva. Senza lasciare tracce nello svolgersi fattuale della storia, se non l'illusione collettiva e tutta interna del neofascismo italiano, sostenuta da chi, quella idea di un fascismo di sinistra, alimentava come collante per poi spenderne costantemente il potenziale su di un versante addirittura opposto. Per tener fede ad un contratto a suo tempo firmato con i padroni della nuova Italia.

L'unico fascismo che si da è quello (non starò a dire se bello o brutto) che governò l'Italia per venti anni e che allora, inesorabilmente, chiuse il suo ciclo vitale: neanche quel fascismo aveva più senso dopo la sua fine. Nel cambiare delle cose, nella riscoperta civiltà del dialogo, nel nascere di una storiografia distaccata, non c'è neanche più il gusto dell'irriverenza che qualcuno vuole ancora attestare nel dichiararsi fascista. E poi, parliamoci chiaro, anche i protagonisti di Fiuggi non hanno operato nessun tradimento (se non rispetto alla loro precedente demagogica retorica), lì si è solo preso atto di quello che la forza delle cose imponeva, spiegava. Fini ha fatto onestamente quello che noi per primi chiedevamo a gran voce quando rompemmo i nostri vincoli: ha messo fine ad un inganno, ha sciolto il mosaico delle diverse anime ed ha fatto l'appello, riassumendo con chiarezza le posizioni che, nell'ambiguità, il suo partito già esercitava, rilanciandole con una forza nell'agone politico. Vero è che Occhetto e Fini sono passati come un tagliaerba sulla cultura politica del Novecento ma quel che gli va rimproverato non è di aver «rinnegato un patrimonio culturale sociale inestimabile» (ormai corroso, insignificante ed indelebilmente macchiato dalle aberrazioni che esso aveva prodotto), ma di non aver saputo maturare una svolta, di non aver creato un pensiero politico originale che, depurato dagli orrori e dalle scorie del tempo, indicasse nuove soluzioni. Ma anche questo appiattimento è solo il sintomo, non la causa, di una transizione ancora in atto. È questa la grandezza del passaggio che stiamo vivendo, all'interno del quale tutto, ora, ancora è possibile ed è dentro questa transizione che è necessario portare la propria voglia di fare.

Dove sta, a che serve il bisogno tutto ideologico (o etologico) di «ritrovare radici, memoria storica» per avere «motivazioni, punti di riferimento»? Che roba è la «fedeltà»? Foss'anche quella alla «propria giovinezza»? Pensarsi fascisti «veri e pensanti»? (Perché non ammettere semplicemente che anche Fini o Rauti pensano, ma pensano diversamente da voi?). Sono parole che servono soltanto a riempire vuoti di parole. Le motivazioni le si ha o non le si ha, i punti di riferimento si creano. Certo non da soli, non col collocarsi programmaticamente «dalla parte del torto, con le minoranze», alternativi al «sistema» (qualcuno mi spiegherà, buon Dio, cosa significa sistema! Sono quindici anni che lo chiedo a gran voce. Provo a dirlo io: è una delle tante formule vuote inventate in altre ere geologiche da Almirante, di cui ancora vedo qualche suo vecchio oppositore essere prigioniero).

Allora per «infrangere l'egoismo, l'indifferenza, essere con gli indifesi» e tutto il resto bisogna stare nelle dinamiche in atto, capire che altri -tra e nei soggetti politici troppo spesso scambiati per «i nemici di sempre»- ci sono tanti che cercano nella stessa direzione (che significa dire «lo si è anche a sinistra» per citare Cohn-Bendit su questo giornale?). Capire anche che il transitorio ripiegamento sul modello di un capitalismo in crisi non si deve confondere con le nuove, ineludibili forme in cui si va strutturando la vita sul pianeta. Con queste bisogna imparare a convivere senza strapparsi i capelli per paventate «globalizzazioni», che costituiscono già oggi il teatro su cui inscenare nuovi confronti, riorganizzare il pensiero.

È proprio questo, semmai, il terreno su cui quel vecchio modello capitalista sta inesorabilmente inciampando, come mirabilmente dimostra Emanuele Severino. Insomma, quello che vedo, è una gran voglia di dichiarare il proprio vero sentire senza avere la necessaria forza per liberarsi da un conservatorismo latente, che cozza con certa proclamata voglia rivoluzionaria.

Bravo Errico! Hai posto, nella maniera diretta che ti caratterizza, il problema. Ora è il momento di pretendere altrettanto chiare risposte.

Umberto Croppi

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