«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

21 aprile: e poi?
 

Psss... si sgonfia come un palloncino l'arroganza del Polo liberista, del suo cavaliere ridens, dei suoi baldanzosi scudieri. Alle 22.01 del 21 aprile 1996, un minuto dopo il primo exit poll, l'«Unto del Signore» torna a fare il presidente, ma solo del «suo» Milan. In tanti, «giù per li rami», ne seguiranno la sorte, tornando ai «loro» posti, con funzioni e ruoli ridimensionati, congrui ad intelligenze spesso più modeste di ciò che i teleschermi, per due anni, lasciavano «immaginare». Ricorderemo a lungo la notte successiva al voto: il cancello chiuso, in fondo al viale, insolitamente deserto della villa di Arcore; la faccia inebetita dell'on. Maurizio Gasparri incaricato dei primi commenti o quella patetica, preoccupante, di Emilio Fede, sull'orlo di una reazione psicotica ma, soprattutto, ricorderemo le facce che non c'erano, quelle degli introvabili leaders: passeranno ben quindici ore prima di poter ascoltare una dichiarazione di Gianfranco Fini, circa venti dall'apparizione di Berlusconi.

Psss... e anziché con ministeri, sottosegretariati, presidenze di Enti, poltrone, velluti, auto blu, autisti in livrea, bisognerà fare i conti con il ben più duro e gramo mestiere dell'opposizione. Peraltro, con la poco rassicurante prospettiva che la stagione possa essere nient'affatto breve, checché ne dica, con tono consolatorio, il presidente di Alleanza Nazionale: «Siamo destra di governo transitoriamente all'opposizione». Non sarà per caso vero il contrario, cioè che transitoria ed effimera sia stata quell'ubriacatura estiva tra crociere, elicotteri, «vertici» in Sardegna, aragoste, champagne, di cui è rimasta traccia soltanto nelle cronache mondane?

Il tempo dell'opposizione: chi se lo ricordava più? Quante notti dei lunghi coltelli caleranno minacciose! Quante teste cadranno! Chi sopravviverà? Per far cosa e con chi? Né si potranno invocare le pur evidenti contraddizioni dell'Ulivo. Governeranno, altroché! Figurarsi se Bertinotti vorrà assumersi la responsabilità storica di riconsegnare l'Italia alle «destre» dopo aver contribuito a conquistarla alla causa di Prodi, del centro-sinistra, post-comunisti compresi. Non solo, ma si può azzardare che il governo che sta per nascere, non potendo certo far rimpiangere i precedenti, in specie quello presieduto da Berlusconi, godrà di un periodo sufficientemente lungo di positive attenzioni e di critiche «costruttive» da gran parte dello schieramento avversario.

Già, il potere! Quando ti lasci abbagliare dalle sue sirene al punto di metterti frettolosamente sotto i piedi passato, memoria, radici, ragioni ideali e politiche, vale la definizione di uno che se ne intende: «logora chi non ce l'ha». Ergo, ciò che sta accadendo in questi giorni (le polemiche, i distinguo, le prime manovre, i riposizionamenti) non è che un assaggio di ciò che vedremo nei prossimi mesi.

Del resto, è ben nota -i liberisti l'hanno appena sperimentata!- l'attitudine tutta italiana di soccorrere i vincitori. Quanti intellettuali, quanti giornalisti, quanti imprenditori, boiardi, burocrati, magari senatori e deputati si lasceranno «rifolgorare» lungo le strade di ritorno da Damasco, questa volta inebriati dal fascino irresistibile di Prodi (sic!), Jerry White-Bianco o Lambertow-Dini?

No! Non cercate, amici lettori, lampi di soddisfazione nello stato d'animo di chi scrive. Non ve n'è traccia alcuna.

Quando scendono dal piedistallo e tornano a calpestare le piste polverose, monarchi, gerarchi, presuntuosi, narcisi attirano più pietà che vendette. Chi perde, fosse anche il peggiore tra gli uomini, acquista d'improvviso tinte e lineamenti meno ributtanti. Eppoi, lo confesso: questo voto è andato oltre le aspettative. I miei desideri, più dei sondaggi, indirizzavano l'attesa verso un «pareggio» che avrebbe inaugurato l'ennesimo capitolo del consociativismo, aprendo tanti spazi ad un progetto politico antagonista. Con il risultato uscito dalle urne, invece, gli scenari muteranno rapidamente e tali cambiamenti non saranno inin-fluenti rispetto alla prospettiva, solo apparentemente contraddittoria, di rilanciare sul territorio una rinnovata iniziativa meridionalista, contemporaneamente contribuendo alla ricostruzione di una più vasta ed articolata area popolare-nazionale: difficilissimo compito, al quale si è convenuto di impegnarsi, nell'incontro di qualche settimana fa, a Lido di Camaiore.

Che succederà adesso? Il voto spinge davvero verso una definitiva polarizzazione del quadro politico? Se così sarà, quanti e quali poli nasceranno? Durerà ancora Berlusconi o si defilerà non appena avrà avuto le necessarie garanzie sui versanti aziendale e giudiziario?

Forza Italia potrà sopravvivergli? Si farà il grande Centro? Ci sarà Di Pietro? E Fini? Che farà Fini -vero sconfitto di queste elezioni!- davanti al rischio di un nuovo isolamento? E la Lega, forte del suo riconfermato, foltissimo, radicamento, soffierà ancora, e fino a quando, sul fuoco della secessione? E quando vorrà smettere, l'incendio potrà essere controllato o sarà in grado di autoalimentarsi? Domande. A decine si affollano, mentre scrivo. Le lascio cadere per motivi di spazio, senza cercar risposta.

Una, al contrario, la devo a Vito Errico che sull'ultimo numero della rivista (2 del 31 marzo) mi ha lanciato la sfida a scendere in campo, ragionando da par suo su come, nonostante tutto, il campo «nostro» sia quello dove cresce l'Ulivo. Senonché, quel campo, chi scrive lo ha esplorato in lungo e in largo, portando alle estreme conseguenze la scommessa, forse troppo ardita, per la quale davanti ad una «destra» avanzante che si era fatta liberista, reaganiana-tatcherista, deflettendo dalla sua originaria traiettoria sociale, la «sinistra» si sarebbe finalmente aperta a riflessioni, ragionamenti ed aggregazioni del tutto inedite, tuttavia rafforzando una sua identità antagonista all'altrui selvaggio liberismo ed egoismo. Ciò, a mio avviso, non è avvenuto. Quando, e se dovesse accadere, ne prenderei volentieri atto. Al momento, purtroppo, ciò che vedo è la palude, l'omologazione, l'appiattimento: tutti liberali, tutti mercantilisti, capitalisti, moderati, benpensanti. Ho assistito sin qui, caro Vito, ai soliti pellegrinaggi oltre oceano, alle benedizioni dei banchieri londinesi, alla spregiudicata operazione di assemblaggio di un'alleanza ibrida come lo era l'altra, con il solo scopo di costruire un paese «normale», di rendere «buoni» gli italiani, di trasformare i «nemici» in avversari, in definitiva di render tutto un po' più... americano. Il che, ovviamente, più che interessarmi mi ripugna.

Non trovo affatto fascinosa una «rivoluzione» al termine della quale il Parlamento è zeppo di democristiani, come neppure all'epoca dei fasti della DC, partito-Stato. Per carità, non ho nulla contro costoro. Non importano gli uomini, ma le idee di cui sono portatori. Io, per queste idee, non riuscirei proprio a far «comizi», arringare folle, cercare proseliti. Tony Blair? Il partnerariato, la stakeholder economy? II «socialismo come esigenza di vita»? Proprio perché su questo convengo, non riesco ad entusiasmarmi per l'Ulivo? Che c'entrano con tale «esigenza» Dini, Agnelli, la Confindustria, quel bel po' di «poteri forti», di tecnocrati che si apprestano a gestire le sorti del «paese»? Se dovesse nascere una «sinistra» come la descrivi tu lo leverei eccome «il culo dalla poltrona». Perché lì -non altrove!- è il «mio» fascismo.

A proposito, chi mi conosce a fondo, giura che «questo» fascismo sia più una condizione psicologica (dalla parte degli ultimi, dei più deboli ...) che non il portato di una ideologia. Tanto meno di una dottrina. Forse ha ragione, chissà. Certo, il risultato non cambia.

A Lido di Camaiore, su un punto ci siamo trovati tutti d'accordo: Tabularasa non è stata soltanto una rivista, ma una emozione, una passione, una volontà comune, un profondo sentimento condiviso che ci ha permesso di andare avanti, di sopravvivere. Potrebbe diventare un manifesto politico-programmatico, intorno al quale ricomporre un'area, riaccendere una speranza. La vera partita, in Italia, potrebbe iniziare ora. Tolto di mezzo l'aziendalismo, il soffocante potere delle televisioni, la fiction, i doppiopetti, le cravatte, i trucchi, i ceroni..., torna la politica, la piazza, gli uomini e le donne in carne ed ossa. Perché intrupparsi adesso?

I nuovi meccanismi elettorali, e le scoppole rimediate da chi li ha sottovalutati, dimostrano quanto i piccoli numeri possano diventare decisivi. Non si tratta di fare un partito, ma di decidere «insieme», di scegliere «insieme», di lottare «insieme» -se sarà possibile- senza per questo privarci di quella libertà ed autonomia di cui siamo gelosi. Fa rabbia, a fronte di un ceto politico mai così mediocre, che le tante energie che hanno gravitato e gravitano intorno a Tabularasa debbano svolgere compiti di mera testimonianza.

Queste elezioni han dimostrato che quando tutto sembra definito, in politica, accade sempre qualche cosa di imponderabile che rimette tutto in discussione e in movimento. E si ricomincia daccapo.

Beniamino Donnici

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