«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

Sul da farsi
 

La buriana elettorale è passata. Sembra che il dibattito politico stia rasserenandosi, se si esclude qualche pericolo, che resta latente. Uno è quello della Lega o, come sarebbe più giusto affermare, una parte della Lega. Il pericolo è rappresentato da quella fazione leghista, che davvero pensa alla secessione.

Soffermiamoci un attimo su questa faccenda. In Italia, a mio avviso, non c'è una Questione Nord. Non esiste perché la «questione Nord» è quella meno preoccupante. Bossi non è quel cialtrone, che si vuoi far credere. È il portatore di un pensiero comune. Quel che dice Bossi è affermato dalla gente comune, dagli uomini di strada che popolano le zone pedemontane della Brianza e dell'Oltrepò. La conoscenza diretta, riveniente da un terzo della vita trascorsa in quelle contrade, porta ad affermare tanto. Il linguaggio comune dei pedemontani è il linguaggio di Bossi: il Sud è una palla al piede, l'Italia finisce al Po, oltre il ponte di Piacenza c'è l'Africa. Sono questi i luoghi comuni affermatisi in cento-cinquant'anni di colonizzazione nordista. E in questo digredire la parte forte viene sostenuta (contrariamente a quanto si può pensare) da quei meridionali trasferitisi lassù ai tempi del «miracolo economico». I meccanismi di rivalsa contro una terra matrigna si mettono in moto e producono quanto esposto.

Ma il pericolo, si diceva, non è questo e non lo è soprattutto perché la Brianza e l'Oltrepò, e nemmeno le valli della bergamasca, non presentano quelle caratteristiche di sapore estremistico, che troviamo nelle regioni di frontiera. E la «frontiera» in Italia è stata quella di Nord-Est, dove passava il discrimine politico e militare fra due mondi in antitesi. C'è una verità, che va riconosciuta. Il Veneto, il Trentino, il Friuli e quel pezzo superstite di Venezia Giulia hanno caratteristiche «particolari» rispetto al resto dell'Italia. È il risultato di un retaggio storico, che determina sempre il carattere delle popolazioni. È la storia di quelle terre, è la storia dei reggimenti politici che ha fatto gli uomini di quelle zone. La Mitteleuropa, prima d'essere un fatto politico, è stato un fatto culturale. Certo, ha giocato moltissimo in favore l'ultimo mezzo secolo di storia, durante il quale proprio in quelle zone s'è sviluppato quel potere democristiano, che solo per comodità di linguaggio s'ha da chiamare «illuminato».

Anche se va detto che proprio lì è naufragato il portato culturale di un potere, che per dirsi cristiano e politicamente cattolico, doveva sviluppare un atteggiamento solidaristico, i cui tratti non appaiono, non solo ma fanno scoprire una vena d'egoismo, che alimenta un razzismo aberrante. Il Nord-Est è chiuso nel suo benessere economico e vuol prendere il volo. E questo è il vero pericolo e lo è soprattutto perché da quelle parti non si alzano gli urli farneticanti di Cassanmagnago. Di solito, il can che abbaia non morde. Invece lì, nel Nord-Est, non ci sono latrati e tutto procede in un silenzio carico e denso, foriero di sventure. Quel silenzio va rotto. L'unità dello Stato non si tocca né si discute. Senza abbandonarsi alla retorica, va ricordato che quelle terre sono state concimate dal sangue di un popolo, che divenne uno proprio in quell'operazione. Però questo Stato, così com'è, non può tirare avanti. Occorre sburocratizzarlo e decentrarlo. Occorre farlo con determinazione, iniziando a cassare quell'istituto inutile che è la Provincia, ultimo vestigio d'un impianto statuale, creato dai napoleonici.

Povera cosa sarebbe se la creazione di un nuovo Stato avvenisse privilegiando soltanto l'aspetto amministrativo-burocratico del problema. Occorre partire da un dato. Fin dalla metà degli Anni Settanta, Pasolini scriveva in Lettere luterane: «L'Italia di oggi è distrutta esattamente come l'Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave perché non ci troviamo tra macerie, sia pure strazianti di case e monumenti ma tra "macerie di valori ": valori umanistici e, quel che più importa, popolari.» Occorre ripartire da quelle «macerie» e l'operazione è né semplice né facile. Ma qualcosa si muove.

Nel catino del Palatrussardi ho sentito Michele Salvati, economista di sinistra, impartire una lezione ai diecimila dell'Ulivo: «Necessita riappropriarsi dell'orgoglio di dirsi italiani». Scrive Gian Enrico Rusconi, "Se cessiamo di essere una nazione", II Mulino: «(...) Il solidarismo della cittadinanza non è più soltanto l'esito dì uno "scambio di ragioni e reciproci interessi", ma anche il risultato del riconoscimento di una comune appartenenza di cultura e storia, per quanto gravosa e carica di ambiguità da depurare criticamente».

Ora, quella «comune appartenenza» c'è, esiste nei fatti. Quest'Italia l'hanno fatta gli italiani, con tutte le ambiguità, con tutte le contraddizioni, in un continuo altalenarsi di fasti e nefasti. L'Italia è quella che è, l'Italia è quella che c'è. E la rimozione di quelle «macerie» di pasoliniana memoria è compito di tutti gli italiani, di quelli di destra e di quelli di sinistra. In questa terra non ci devono più essere «esuli in patria». È una volontà che da sinistra è stata più volte rimarcata. Le riforme vanno fatte insieme perché la Legge Suprema dello Stato non può che avere l'apporto corale dei cittadini e delle loro rappresentanze, i quali firmano con l'Autorità Suprema il patto sociale. Sarebbe strano che la destra si sottraesse a questa elementare funzione. Dopo aver piagnucolato per mezzo secolo (ed aver la sua classe dirigente di vertice vissuto di rendita) sulla sua «morte civile», riveniente da una guerra persa, suonerebbe strana se non interessata questa sua volontà di auto-esclusione. Naturalmente la sinistra non deve caldeggiare questa possibile «auto-esclusione» con atteggiamenti derivanti dalla protervia della storia. Può valere alla bisogna il pensiero di un insospettabile. Adriano Sofri ha sostenuto che «non si può presentare la destra come egoismo e sopraffazione». È necessario lasciare a ciascuno l'orgoglio della sua storia, di tutta la sua storia.

Il brindisi a Togliatti, il calice levato da Nilde Jotti la notte del 21 aprile è un atto nostalgico, compiuto da un essere umano che appartiene storicamente ad un evo trascorso e passato per sempre. Non ha valore diverso, non può averlo. E Togliatti non gliene avrebbe dato. Avrebbe capito, il Migliore, qual è la situazione. Come la capì quando, portato via in barella dopo i colpi di Fallante, ingiunse a Scoccimarro di non perdere la testa. La storia ha voltato pagina e quel ch'è stato non sarà più. Ecco perché qualsiasi richiamo al passato non ha senso politico. Ciò può rappresentare un dramma per la nostra che è una generazione ormai di ultraquarantenni, situata a cavallo fra la fine e l'inizio di due cicli storici. Non è piacevole vedere vacillare quelle che si credevano certezze. Però questa fase di stordimento può superarsi se si riconsidera la vita dell'uomo e la si netta delle incrostazioni assolutizzanti. Nulla è assoluto, tutto è relativo. E c'è da convincersi di più se si guarda con più attenzione alla natura del mondo che ci viene incontro. È un mondo cibernetico, altamente tecnologicizzato, veloce e velocizzato. Può anche non piacere ma questo è e non serve rimpiangere il piccolo mondo antico, ch'è stato. È politicamente sterile abbandonarsi a queste meditazioni.

Fertile è invece cominciare a pensare alle modalità di gestione di questo mondo, sempre più in preda di agguerrite oligarchie. È un po' quello che s'è messo a fare Tony Blair. È un personaggio che merita attenzione, non fosse altro perché le sue idee non appartengono ad un sistema ideologico. Beppe Severgnini lo ritiene «vagamente idealista, moderatamente liberista, scarsamente assistenzialista». Certamente ha il dono della chiarezza. Blair sostiene: «Se la gente non sente interesse nella società, ha anche scarsa responsabilità nei suoi riguardi e poca inclinazione a lavorare per il suo successo».

È un ragionamento che si basa su due parole d'ordine: interesse e responsabilità. Ambedue formano la partecipazione. È il disegno d'un ordine economico, è soprattutto il progetto d'un modello sociale, è il superamento della vecchia idea socialista per la quale lo Stato deve accudire il cittadino dalla culla alla bara. Per Blair lo Stato deve dare a tutti una quota d'interesse nella società. Il cittadino in cambio deve prendersi il carico di responsabilità. È da questo impegno reciproco fra Stato e cittadino che nasce la coesione sociale, il comune interesse al futuro della collettività.

Ci deve essere qualcosa di destabilizzante se i conservatori britannici, notoriamente i peggiori del mondo, urlano contro Blair, ritenendo le sue idee un cavallo di Troia che restituirà potere ai sindacati, completamente esautorati dalla Thatcher. Il blairismo è una speranza. Ed è il superamento del capitalismo con metodologie che per qualcuno di noi possono avere un sapore antico. Alle privatizzazioni, all'individualismo, all'egoismo si oppongono fiducia, cooperazione, parità di opportunità, cittadinanza attiva, diritti e doveri. Può essere un'utopia ma noi sappiamo che sono state le grandi utopie a far progredire l'uomo e ad averlo portato dal livello neanderthaliano a quello moderno.
 

Vito Errico

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