«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

Dopo la batosta del 21 Aprile
Tutti gli errori di Fini, minuto per minuto
(1)

 

Mai abbiamo creduto alla favola di un Gianfranco Fini novello Napoleone Bonaparte dell'alta politica italiana e internazionale, asso pigliatutto sia fuori sia dentro il cosiddetto Polo delle Libertà. Senza, con ciò, negare che l'uomo ha dei numeri; come dicemmo nel rimbeccare un suo ex-detrattore e attuale esaltatore il quale, all'indomani del congresso sorrentino del MSI-DN che lo aveva incoronato «leader» con e per i favori di Almirante, durante una riunione conviviale cui eravamo occasionalmente invitati con altri giornalisti di varia tinta, volle incautamente squalificarlo con questa abborracciata definizione: «Un paio di occhiali sul niente». Il 21 aprile -fatidico dì che già vide il Natale di Roma mentre oggi vede la morte della speranza del cartello delle destre di aggavignare il potere onde avviare la «soluzione finale» contro tutto ciò che abbia una benché minima parentela con l'idea stessa della Sinistra sia politica che sociale- si è brillantemente incaricato di adeguatamente ridimensionare l'immagine «napoleonica» del Fini, squadernando dinanzi agli occhi tanto del VIP quanto dell'uomo della strada tutti i macroscopici e talvolta puerili errori da lui commessi dal momento dell'assunzione del potere nel partito almirantiano fino ai nostri giorni. Con buona pace anche degli existi delle più svariate specie, passati -proprio come sergenti messicani- con armi (poche) e bagagli (molti) dalla parte del Giovin Signore di Via della Scrofa.

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Gli errori. Cominciamo dai più recenti, il primo dei quali è da individuare nella strenua, ossessiva, intransigentissima opposizione al buon esito dei tentativi posti in essere da Berlusconi (una volta tanto ragionevole e ragionante) con il consenso delle «colombe» di Forza Silvio e dintorni per raggiungere un accordo con D'Alema e Maccanico sulle grandi innovazioni costituzionali e sulle nuove «regole» atte a realizzare il passaggio alla Seconda Repubblica. Il Fini -più che mai in pessima compagnia con il turbolento Vittorio Feltri, il graffiante Giuliano Ferrara, il neo destrorso Marco Giacinto detto Pannella- era convinto che, promuovendo la trattativa con l'Azzurro Cavaliere d i Arcore, il leader del più grande partito della Sinistra tentava di battere la via di una resa onorevole allo scopo di evitare elezioni da cui l'Ulivo sarebbe uscito sconfitto con le ossa rotte. Evidentemente si era drogato con quegli idolo di fine secolo che sono i sondaggi. E tanto ha detto e ha fatto -son lì a testimoniarlo titoli e pezzi de "Il Secolo d'Italia", organo del fascismo defascistizzato e antifascistizzato- che ha silurato l'operazione, facendo perdere la faccia al Grande Socio Meneghino che in essa, sia detto ad onor del vero, si era impegnato con encomiabile serietà, prima però di perderla lui qualche settimana dopo già dentro le prime urne dell'ultima decade di aprile. In esse, infatti, era scritto non solo che il Polo aveva perso, ma che, al suo interno, Alleanza Nazionale era ben lungi dall'avere sorpassato Forza Silvio e, pertanto, la candida fronte del neo-antifascista Gianfranco Fini avrà ancora da attendere chissà quanto -e se mai accadrà- prima di essere cinto col serto d'alloro del trionfo, del primato in assoluto nella leadership delle destre. Va da sé che ora mala tempera currunt per il presidente della destra sedicente «sociale» -quasi che una destra, qualsiasi destra, possa essere definita sociale-, perché il Cavaliere non è uomo da dimenticare gli sgarri. Di più: i tanti centristi laici e, soprattutto, cattolici fondatori del Polo hanno ora alcuni pesanti argomenti in più per chiedere una sua più netta collocazione al centro atta a liquidare una volta per tutte il rapporto privilegiato fra Berlusconi e Fini nonché a configurare quest'ultimo come un alleato «accettato» da «tutto» il Centro atteggiantesi nei suoi confronti in un ruolo formalmente paritario e sostanzialmente egemonico.

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II secondo errore, quello che ha inferto ad Alleanza Nazionale il colpo di grazia, è da cogliere nella sottovalutazione sprezzante di Rauti o e del suo ancora piccolo ma attivo e combattivo partito. Questo ennesimo comportamento arrogante è costato al partito biancazzurro -nemmeno nei colori del vessillo il capo della destra sedicente «sociale» ha voluto bastevolmente distinguersi dai reaganiani-thatcheriani di Forza Silvio- la bellezza di cinquantasette seggi parlamentari. In tal modo i dirigenti del Movimento Sociale -Fiamma Tricolore possono ben vantarsi di avere cambiato la Storia d'Italia così come era stata programmata dal consorzio delle destre. Possono essere ben fieri proprio in quanto assertori di una estesa e profonda socialità, di avere impedito che nel maelstrom delle privatizzazioni -alla cui responsabilità non è estraneo, in una certa misura, lo stesso centrosinistra, purtroppo- finisse anche la scuola, la sanità, la previdenza. C'erano stati contatti tra Fiuggiaschi e Rifondatori Fiammanti per un patto di desistenza come quello stipulato fra Olivo e Rifondazione Comunista, cui i rautiani avevano acceduto per dare prova della loro volontà di non eccitare oltre misura la inevitabile rivalità fra le loro smilze schiere e quelle dei rivali, ingrossatesi e ingrassatesi sotto gli stimoli dell'opportunismo conformistico e di una inedita -tanto più vasta e «irresistibile» proprio in quanto inedita- voracità di potere e, conseguentemente, di ben guarniti posti e posticini. Gli amici di Fini avevano ripagato questa disponibilità con abominevole e sacrosantemente punita micragnoseria, cioè offrendo tre parlamentari ai carissimi nemici che ne avevano proposti cinque. Rifiutarono e mal gliene incolse. Gliene negarono cinque, ne hanno persi cinquantasette. Invece di andarsi a nascondere per la barbina figura, si cimentano con analisi del voto. Ma ben altro hanno da analizzare. Per esempio: il comportamento cinico e disumano tenuto nei confronti non soltanto degli oppositori alla linea di Fini, ma anche dei semplici obiettori, di chi chiedeva spiegazioni, di chi voleva capire, perfino di gente fedele e mansueta che aveva aderito alla svolta senza fiatare o fiatando a favore, ma che ormai non serviva più perché strideva con i personaggi di mezza tacca provenienti dalla suburra moderatistica interna alla Democrazia Cristiana, nonché con l'immagine «antifascista» -visto mai niente di più ridicolo, purtroppo con l'avallo del Partito Democratico della Sinistra!- sdoganata al convegno di Fiuggi da convenuti o plagiati o famelici nel quadro di una sedicente pacificazione nazionale realizzata non con chi ha titoli per rappresentare la Resistenza nel suo insieme, in tutto il suo più ampio spettro espressivo -dai monarchici ai comunisti-, ma con... il partito di Berlusconi, che in materia di resistenza conosce solo quella attuata contro il pool dei magistrati di Milano. Gente, dunque, spremuta come un limone e gettata via con incomparabile cinismo. Esattamente come fatto con una personalità della storia controversissima ma che, miracolosamente, ancora tira a livello elettorale ed emozionale: Benito Mussolini. Il tutto, si capisce, per la gloria del supremo capataz e dei vari generali, colonnelli, ufficialità e sottoufficialità, sicuramente meno allegri e fiduciosi dall'alba tragica del 22 aprile, allorché finalmente seppero che i sondaggi di Pilo, più o meno... pilotati, hanno lo stesso valore delle promesse di ritorno e di matrimonio fatte dai marinai quando prendono il mare per ignota destinazione.

Men che meno ilari e ottimisti dopo l'ennesimo buco nell'acqua dell'ineffabile Mirko Tremaglia, l'amerikano di Via della Scrofa, l'amico intimo di Antonio Di Pietro, del cui cuore garantiva la collocazione nella destra «sociale» in attesa di poterne assicurare la scesa in campo quale paladino dei colori di Alleanza Nazionale. Di Pietro, invece, è ministro del LL.PP. nel governo Prodi, mentre si era rifiutato di accettare gli Interni offertigli nel '94 da Berlusconi. È la seconda, colossale topica del Tremaglia in un fazzoletto di tempo. Aveva infatti candidato Gianfranco Fini alla leadership del Polo sulla base di critiche di tipo «dipietriane» al Cavaliere.

Con Pino Rauti il gruppo dirigente si era comportato con inaudita scorrettezza fin da prima della svolta. Per isolarlo, indebolirlo, colpirlo politicamente, offrire la sua testa ai «defascistizzatori» della destra di ogni genere e specie, metterlo in condizione di doversene andare per una elementare esigenza di dignità negandogli ogni spirito di confronto, venne organizzata, staremmo per dire scientificamente, una campagna acquisti -non in senso venale, intendiamo, bensì politico- destinata a non arrestarsi neppure dinanzi alla soglia di casa sua. Assistemmo così al deprimente spettacolo di tanti giovani e men giovani «rivoluzionari», nazionalpopolari, anticapitalisti, antiborghesi, socializzatori, contestatori del sistema sociale -gente, insomma, che si era dichiarata con scritti e allocuzioni molto, ma molto più a sinistra di una Sinistra sbeffeggiata come integrata- farsi attivamente coinvolgere con grande faccia tosta in una politica che, ove il loro nuovo amico e protettore Gianfranco Fini l'avesse spuntata nel tardo aprile, avrebbe consegnato tutto il «sociale» nelle mani dei grandi gruppi monopolistici italiani e, magari, anche stranieri. Meglio finirla qui. Non olet.

Noi, ai Rauti padre e figlia, agli Staiti di Cuddia, ai Della Rosa, ai Pantano, ai Guido Mussolini etc. abbiamo, certo, da muovere -in veste di militanti della Sinistra quali siamo- certe obiezioni sicuramente niente affatto irrilevanti. Tuttavia ciò che in essi ci piace è, anzitutto, la combattività, il non arrendersi mai, l'improvviso risorgere quando tutto sembrerebbe irrimediabilmente perduto, compromesso. È così che hanno cominciato a regolare i loro brevi conti con Fini e sodali, innescando un processo di recupero ormai irreversibile. Ma di costoro ci convince pure il foltissimo sentimento sociale che li ha sempre collocati fuori e contro la destra, anche quando della destra formalmente facevano parte. Di ciò farebbero bene ad accorgersi le varie sinistre, invece di ripararsi, per non assumersi responsabilità che è invece giocoforza non ignorare, in quelle varie volte che osammo definire, suscitando scandalo e reazioni emotive veramente degne di miglior causa, «un tipo di antifascismo vetero formalistico targato 1945», ossia fuori luogo e fuori stagione. Notevole, fra i tanti effetti negativi che produce, quello di impedirci di agire sulle contrapposizioni interne al campo delle forze reazionarie, perché lo unifica, lo solidifica, lo estende, coinvolge forzosamente in esso gruppi, correnti, movimento, individualità che non gli apparterrebbero ma che vi restano prigionieri solo perché a sua volta, il mondo della Sinistra è succube di un modo di intuire, concepire, vivere l'antifascismo non come «verità interna» alla democrazia, con essa intimamente appastato, da essa totalmente assorbito e quindi da essa, in certo qual modo, «superato», ma come autodafé moralistico e intollerante, come minacciosa e vendicativa «verità ufficiale», «di Stato»; come «pensiero unico» obbligatorio e totalizzante; come fenomeno storico di cui è lecita, legittima, ineludibile, doverosa una sola interpretazione e unica visione, quanto meno per ciò che attiene all'avversario contro il quale si è combattuto e vinto, un avversario visto come un tutto indistinto, senza differenziazioni, contraddizioni, divaricazioni, sfumature, conflitti, ripensamenti e novità di analisi nel suo ambito. E così possono capitare cose strane, atte a stupire solo chi procede nella disamina storica, nella verifica politica, nella speculazione intellettuale, negli sviluppi tematici, nella riflessione teorica non con gli strumenti offerti dalla modernità, cioè dallo spirito laico, ma a colpi di demonizzazioni, di anatemi. Insomma, quando si deciderà questa benedetta o maledetta Sinistra a essere meno azionista e più marxista! Quando si ricorderà del monito di Antonio Granisci, rivelatore del dialogo come arma poderosamente rivoluzionaria? Quando si renderà conto che il dialogo è laicamente concepibile solo con i diversi e non clericalmente, loyolescamente (da S. Ignazio di Loyola), lajolescamente (da Davide Lajolo) solo con i convertiti? Quando di tutto ciò avranno -usque tandem!- contezza i vari portavoce della Sinistra, quotidiani e periodici di grande, eccezionale autorevolezza quali "l'Unità", "il Manifesto", "Liberazione", "Critica Marxista", "Le Ragioni del Socialismo", "Ragionamenti sui fatti e le immagini della storia", "Polis", etc, allora veramente la Sinistra sarà in grado di comprendere perché, come mai, correndo l'anno di grazia 1996, essa, e con essa tutta la democrazia -la vera democrazia, intendiamo-, è stata salvata da Pino Rauti e dal suo Movimento Sociale -Fiamma Tricolore, dal Pino Rauti già demonizzato come nazista, terrorista, Gramsci nero, bombardo di uguale colore, golpista e via elencando. Un «miracolo» (ma sono veramente necessarie le virgolette?). Un miracolo cui, peraltro, non è affatto estranea pure l'azione di questa "Tabularasa", diretta con sacrificio, coraggio, lungimiranza da Antonio Carli, e del gruppo di amici di varia collocazione politica che vi collabora.

 

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Ma torniamo alle erranze finiane, tali e tante da far ragionevolmente supporre che se il presidente di AN fosse stato pagato dall'Ulivo per servirne diligentemente la causa, non avrebbe fatto di più e di meglio. Anche il suo atteggiarsi nei confronti di Lamberto Dini e del suo governo può essere tranquillamente definito suicida. Lambertow, di cui fino alla primavera del '94 solo gli addetti ai lavori sapevano qualcosa, era stato fatto ministro del tesoro da Berlusconi per essere poi dallo stesso indicato, a cosiddetto ribaltone avvenuto, al Presidente Scalfaro quale capo del governo tecnico di transizione. Non c'era alcun motivo perché Fini «tradisse», come scorrettamente dice la destra, il Polo e il suo leader, né sotto il profilo ideologico né in rapporto ai suoi interessi personali. Ebbene, il Giovin Signore di Via della Scrofa è stato capace di capovolgere questa ottimale situazione di «governo amico» nel suo preciso opposto. Si è lanciato in una guerra personale contro il Presidente del Consiglio, fiorentino beffardo e sfidaiolo capace di stare nella rissa con la stessa sprezzatura con cui usa comportarsi nei salotti. Dalla mischia l'aspirante number one delle destre conglobate è uscito con le ossa rotte. Contrariamente a quanto da lui vagheggiato, l'esperienza governativa diniana non è durata pochi mesi bensì dal gennaio '95 al maggio '96; il suo protagonista si è assiso fra i vincitori di elezioni decisive, storiche; ha fondato un partito che ha varcato la soglia del 4% risultando così determinante per il successo dell'Ulivo e per la formazione del governo di centrosinistra con presenze parlamentari niente affatto irrilevanti; quando questo pezzo apparirà si sarà già assiso o sulla poltrona di Presidente della Camera dei Deputati o su quella di Ministro degli Affari Esteri. Con buona pace dell'on. Gianfranco Fini, il quale allorché si azzarda a parlare di tradimento dell'ex direttore generale della Banca d'Italia si sente immancabilmente e impeccabilmente rispondere che non si sente traditore bensì tradito da chi lo ha aggredito dopo avergli caricato sulle spalle il fardello «tecnico» di una congiuntura politica e di governo difficilissima. Lamberto Dini, certo, è il conservatore illuminato che tutti ben conosciamo e, dunque, non è organico a nessuna componente dell'area della Sinistra. Come, tuttavia, non dargli ragione?

Un'altra gaffe il Nostro l'ha combinata con Domenico Fisichella, di sicuro un liberale conservatore anche lui, come Dini, distante trilioni di anni luce da noi e da ciò che pensiamo e vogliamo; e tuttavia da amici ed avversari stimato e visto con interesse per le sue aperture culturali, per lo spirito dialogico da cui è animato, per il senso della misura del quale sempre da prova, per la conosciuta capacità di indirizzare il civile dialogo verso sbocchi conciliativi e unitari rigorosamente avulsi, però, da pasticciacci di infimo profilo. Insomma, un gentiluomo intellettualmente raffinato e disponibile al confronto costruttivo, proprio l'ideale per rappresentare nel governo Berlusconi quei ceti borghesi inequivocabilmente orientati a destra ma, cionondimeno, alieni dalle piazzate dei Gramazio e dei Buontempo, dagli scontri fisici a Montecitorio, dalle gazzarre reazionarie, dalle cialtronate diciannoviste, dagli pseudo populismi sbracati e mendaci. Un esempio di moderazione da fortemente «visibilizzare» con la carica di Vice Presidente del Consiglio dei Ministri nell'interesse non della opposizione ma dello stesso Polo. Il fondatore di Alleanza Nazionale gli preferì l'ancora acerbo ancorché vetero-parlamentare Pinuccio Tatarella, e non solo perché doveva sdebitarsi degli appoggi ricevuti nella scalata alla guida del partito ma anche in quanto più controllabile essendo uomo di apparato di antica militanza. Così Fisichella venne dirottato ai Beni Culturali, un ministero relativamente secondario. Più recentemente gli è capitato qualcosa in un certo senso anche più grave: la plateale sconfessione del suo operato nella commissione unitaria (costituita da lui, da Urbani per Forza Italia, da Bassanini per l'Ulivo) varata con l'incarico di elaborare uno schema di proposta per le riforme costituzionali. L'accordo fu raggiunto con un risultato per tutti soddisfacente, tosto però messo in non cale da un autentico coup de théàtre: la pubblica disapprovazione del presidente del partito, nonostante fosse stato puntualmente informato delle varie fasi di sviluppo della discussione e della intesa da «Mimmo» via via che si procedeva. La crisi scoppiata fra i due fu violentissima: Fisichella giunse al punto di dimettersi dal partito in un clima di affocata polemica. Successivamente si pervenne a una faticosa ricomposizione con relativo recupero dell'ex ministro ed Alleanza Nazionale. Oggi, dopo la profligata elettorale, in molti si chiedono se per caso questa vicenda non sia stata tale da indurre una zona della pubblica opinione moderata allergica all'avventurismo di destra a rifluire verso le liste di Lamberto Dini. Una bella soddisfazione per l'incolpevole biografo di De Maistre e una brutta scoppola per l'incauto Fini e connessi colonnelli. Ai quali pungerebbe a noi vaghezza chiedere se hanno deciso o meno di trarre qualche profitto dalla lezione del 21 aprile, magari ricordando che per fare buona politica è indispensabile stare con i piedi per terra e tenere la testa sul collo.

Mentre scriviamo la TV ci dice che il professor Fisichella figura nel gruppetto dei candidati alla presidenza del Senato, preoccupandosi però, subito dopo, di raccontarci che il Cavaliere Azzurro, in un discorso tenuto a Palermo per l'avvio della campagna elettorale delle regionali di giugno, ha candidato Francesco Cossiga alla medesima carica con l'assenso di tutti gli associati nel Polo. Dunque, l'apparato «alleanzista» non ha perdonato al prestigioso intellettuale messinese il gesto di fierezza in risposta al vulnus ridimensionativo inflittogli a freddo dal proprietario del partito. Gli errori commessi da Fini da quando è preda di un delirio di onnipotenza sono infiniti come la misericordia di Dio. Ci vediamo pertanto costretti continuarne l'elencazione, direttore permettendo, nel prossimo numero.

Enrico Landolfi

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