«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

gli uomini

Fidia Gambetti, impietoso testimone di un secolo terribile
 

«La Grecia fu il grande scioccante esame, la vera bocciatura di tutta la nostra vita fino allora, fu veramente il principio della fine. Perché quella disfatta era politica, storica, irreparabile, irreversibile. Disfatta più grave per il fatto che soltanto l'intervento delle divisioni tedesche impedì ai greci di buttarci nell'Adriatico. Era il primo prezzo della vera sconfitta finale dell'Italia; poi seguì la seconda rata per l'Africa settentrionale e la terza sul Don. Per noi non restavano in nessun caso, né scampo, né speranza. Anche se Hitler avesse vinto saremmo stati i suoi schiavi più bistrattati e oppressi. Ero ancora fascista? Non lo so. So però che dovevo andare fino in fondo. E, con i camerati-compagni del mio battaglione, ci andai. Fino al Don. E in Siberia».

Così Fidia Gambetti, nel bel libro di Aldo Grandi "Autoritratto di una generazione", rievoca il momento spartiacque della sua ricca, intensa esistenza conclusasi, in un silenzio fervido di attività, alla fine di questo marzo 1996.

 

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Era nato, Fidia Gambetti, nel 1911 a Bagni di Porretta (Bologna). Aveva pubblicato le sue prime poesie e i primi articoli a sedici anni; prima dei vent'anni era redattore del "Popolo di Romagna". Dal 1931 al 1940 giornalista e direttore di diversi settimanali, a Forlì, Ravenna, Rimini, Brescia, Asti, partecipò ai Littoriali del 1934 e 1935 per il giornalismo, la poesia e la critica cinematografica. Sospeso dal partito nel 1935 per volontà di Starace, vinse nel 1936 il Premio «Poeti del tempo di Mussolini» con "Il canto dei giovani esclusi", ripreso da diversi quotidiani fra i quali "Il Popolo d'Italia". Nel giugno del 1940 scelse di andare come volontario in guerra rinunciando ai gradi e partendo come semplice camicia nera. Nel dicembre del 1942 fu preso prigioniero in Russia. Dopo la guerra e la prigionia è stato redattore de "l'Unità", condirettore di "Vie Nuove", redattore capo di "Paese Sera", scrittore, autore tra l'altro di una "Inchiesta sul fascismo" (premio Saint Vincent 1952), e di una trilogia autobiografica "Gli anni che scottano" (1967), "Né vivi né morti" (1972), "La grande illusione" (1976) cui si sono aggiunti negli ultimi anni "Dietro la vetrina a Botteghe Oscure" (1989) e "Comunista Perché, Come" (1992).

Fascista scomodo finché è stato fascista, poi comunista scomodo. Appena appena tollerato in larghi settori del PCI per il suo passato e per il suo amore per la verità proprio del giornalista di razza. O forse per il suo voler continuare, sotto questa nuova appartenenza, il sogno di una rivoluzione a cui la strategia togliattiana aveva già abdicato prima ancora del 25 aprile.

Nonostante un'attività intelligente ed indefessa, Fidia nel PCI e nei suoi giornali non farà mai molta strada: al massimo condirettore di "Vie Nuove" e poi, ancora giovane e pieno di vigore e d'idee, l'ultima mortificazione. Lui, giornalista per storia e per vocazione, messo a fare il direttore della "libreria Rinascita", lui che i libri non amava venderli, ma scriverli. E ne aveva scritti tanti: da quella raccolta di poesie intitolata "Sete all'ombra", pubblicata a Forlì nel 1932 sotto lo pseudonimo di Livio Randi, a "Cronache del tempo fascista" (1936), "Controveleno" (1942), "Purgatorio" (premio San Pellegrino 1948) ... e tanti altri. Modesto e competente, saggio -di quella saggezza che viene a chi ha molto vissuto, amato e ne ha viste tante- ed autoironico.

Sempre disponibile con tutti, in modo particolare con i giovani, non si risparmiava a raccontare il secolo di ferro e di fuoco in cui gli era toccato vivere. Articoli, interviste, contributi di idee e di esperienze a tesi di laurea, queste le attività degli ultimi anni della sua vita, spesi anche a pubblicare gli inediti e a ripubblicare quanto, a suo parere, potesse ancora interessare le generazioni dell'oggi. La sua ultima presenza in Versilia coincide con un impegno che Fidia si era assunto: in occasione della presentazione del libro di Aldo Grandi a Viareggio aveva sollecitato una maggiore sensibilità della città nei confronti della memoria di Silvio Micheli. L'invito, sia pure con qualche ritardo, era stato raccolto e nel giugno 1993, con una manifestazione a latere di quella edizione del premio Viareggio, si tenne un modesto convegno sulla figura e l'opera di Silvio Micheli, scrittore viareggino.

Il giovane e rampante assessore alla cultura del Comune, equivocando con il suo nome, lo presentò come «la professoressa Fidia Gambetti». Fidia alzò gli occhi al soffitto, scosse la testa, poi sorrise preparandosi al suo intervento, come sempre colto ed informato.

«Certo -mi disse- se anche i rappresentanti delle istituzioni commettono queste gaffes ...» Sono trascorsi tre anni e gli atti di quel convegno aspettano ancora di essere pubblicati. Sarebbe un bel modo, il migliore, per onorare la memoria di Fidia Gambetti, giornalista di razza, scrittore di verità, testimone impietoso di un secolo terribile.

Luciano Luciani

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