«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

Il giardino dei melograni
 

«La ragione ha un bel gridare, non è lei a stabilire il prezzo delle cose»

Blaise Pascal

 

"La modernità e i suoi nemici" (A. Mondadori ed.) è un libro davvero istruttivo, da leggere e meditare. Non foss'altro per riscontrarvi, ancora una volta, la pretesa dell'uomo di essere egli in grado, con i suoi propri mezzi, di dare una risposta esaustiva ad uno dei tanti perché dell'esistenza. Ovvero, nel caso nostro, di poter scrivere la parola fine alla perdurante nostalgia verso il passato -sentimento che accomuna nello spazio e nel tempo ogni forma di civiltà- cui il Nostro autore (: si tratta di Melograni) vorrebbe opporre, dati alla mano e una volta per tutte, il frutto incontestabile che la società odierna risulta -per istruzione, salute, alimentazione ecc.- superiore a tutte quelle che l'hanno preceduta. Questo elogio al presente di Melograni (ora arruolatesi -a ragion veduta- fra gli intellettuali organici di FI) non appare in verità privo di argomenti e documenti. Né si può, del resto, misconoscere come lo sviluppo tecno-scientifico abbia in genere sollevato l'uomo da improbe fatiche, o che oggidì si partorisca di solito in condizioni di sicurezza ed igiene un tempo sconosciute. E nemmeno può esser negata la scomparsa di alcune malattie endemiche, l'utilità del computer o la praticità del freezer, ma...

Ma ciò detto e ribadito e raffrontato, siamo comunque sicuri «di vivere nel migliore dei mondi possibili»?! La domanda, io credo, è ponibile, senza che ciò significhi la rincorsa a ritroso verso paradisi perduti e l'iscrizione ipso facto nel registro dei laudatori del bel tempo antico... Non è dunque in predicato -almeno per chi scrive- se, in che modo o misura l'evo contemporaneo comporti e abbia comportato un generale innalzamento del grado di «benessere». La questione è piuttosto se esista qualcos'altro oltre la prosperità, le sue immagini, rappresentazioni ed imitazioni. Un qualcosa –intendo- di non traducibile in termini di benessere materiale e che, pur non rilevato statisticamente, fa parte, parte integrante, delle necessità dell'uomo.

Non sto osservando nulla di nuovo sotto il sole: quella «questione» è antica quanto l'uomo. E non occorre, d'altro canto possedere una particolare sensibilità (quale quella di un Piepaolo Pasolini, ad esempio, che -da «comunista»!- avrebbe volentieri scambiato l'intera Montedison con il ritorno delle lucciole), per accorgersi di come l'uomo non sia -nonostante ogni sforzo in tal senso- solo un ventre da riempire e soddisfare, ovvero non sia riducibile ad un'entità economica e/o ad un fattore di produzione. Vorrei allora dire, ai tanti progressisti di ritorno alla Melograni, che gli indici di sviluppo, i tassi di crescita economica, l'incremento dell'alfabetizzazione sono sicuramente numeri importanti; e che «la modernità» presenta vantaggi e comodità di cui anche la maggioranza dei suoi «nemici» non saprebbe fare a meno. Ma che tutto ciò richiede costi sempre maggiori. Uno dei quali, assai oneroso, è rappresentato dal crescente degrado dell'ambiente. Esiste poi un aspetto ancor più inquietante di quei costi, riguardante la nostra ecologia interna, ossia i danni arrecati alla sfera emozionale, all'equilibrio psicologico, ai sentimenti naturali di uomini e popoli.

E vi è un aspetto di questo processo, per così dire, di mutazione anti-antropica che mi pare di dover sottolineare: per l'odierno senso comune si direbbe ormai superfluo, se non dannoso, avere una qualsivoglia morale. Qualora interrogassimo la gente di oggi -la famosa ggente!- per sapere ciò che per essa è bene o male, ne ricaveremmo un campionario di risposte appena inimmaginabili solo qualche anno addietro: fornirebbe, un simile test, una prova e una misura scientifica di una «evoluzione» che va verso l'imbarbarimento... Ha scritto Evola: «L'equivoco in cui cadono gli esaltatori del "progresso" e della "marcia in avanti" dell'umanità si basa sul confondere la "civiltà" con la "civilizzazione" (...). Sembra essere invece destino che i due termini siano antitetici: ogni progresso in fatto di "civilizzazione" viene pagato con un regresso -spesso impercettibile per lo sguardo superficiale, ma non per questo meno reale e fatale- in fatto di "civiltà"».

In diversi termini si potrebbe dire che l'umanità (o meglio: una ristretta e privilegiata parte di essa) è diventata moderna e benestante senza passare attraverso la cultura della modernità.

 

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Un passaggio di status epocale, questo, che si riconosce e si fa riconoscere (almeno qui nel Nord-Est della Padania, laddove buon gusto e buona educazione sono dati per dispersi, assieme all'uso del congiuntivo) nei monotoni filari di villette e fabbrichette, lungo strade sempre più «animate» da traffico e pubblicità, all'incessante ricerca di mode e miti di passaggio. (Un benessere triste e volgare, il nostro, che è andato diffondendosi disordinatamente e al di fuori di ogni autentica «libertà dal bisogno»).

Dunque, nessuna regola morale e valida e degna di rispetto. Ogni regola è provvisoria, destinata all'obsolescenza più o meno programmata.

Gli effetti di tale disancoramento sono (dovrebbero esserlo!) sotto gli occhi di tutti i vedenti. Si chiamano massificazione, solitudine, disorientamento, noia di vivere... Ma a Melograni, e a quelli della sua specie, non sorge il sospetto che si possa ipotizzare l'esistenza di società meno ricche, ma più equilibrate, più serene, più felici?! A Melograni, e ai tanti come lui, non dicono nulla le statistiche sui suicidi, sulle malattie nervose, sull'uso di psicofarmaci e di droghe sintetiche - proprie ai Paesi progrediti?!

No, Melograni, e i liberali del suo calibro, sono troppo assorbiti dai dati produttivi, dagli incrementi di reddito, dai tassi di sviluppo, per accorgersi dello squallore che li (e ci) circonda!

Di più: hanno chiamato lo squallore «mutamento di valori», e l'han inserito in un sistema filosofico. I valori in quanto tali, dunque, non sarebbero scomparsi, bensì sostituiti da altri, più moderni ed al passo coi tempi. I nuovi valori si chiamano beni di consumo.

Chi compra non è allora il consumatore succube del potere pubblicitario, ma l'uomo consapevole del fatto che solo possedendo riesce a dare un senso alla sua posizione nel mondo. Nell'acquisire e nell'ostentare i beni si disvela la metafisica liberale; e la scelta di un prodotto anziché di un altro costituisce il nuovo modo di essere liberi. L'emotività, le passioni, le ideologie vanno stemperandosi nella ragion pratica: l'intera vita va racchiusa in un supermarket (PS: ricordate lo spot della Coop?), dove ogni giudizio morale si traduce nell'espressione di un'opzione commerciale.

Nella celere parabola di Voltaire "Candido" si narra, com'è noto, dell'ingenuo discepolo del dottor Pangloss, il quale insegna che tutto va per il meglio e che l'uomo vive nel migliore dei mondi possibili. Dopo una lunga serie di peripezie, il protagonista deve però convincersi del contrario, e concludere che, anziché far tanta filosofia, è meglio «coltivare il proprio giardino». È un invito che vorrei fosse accolto, in primis dal dottor Melograni.

Alberto Ostidich

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