«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 3 - 31 Maggio 1996

 

l'ultima

Il figlio del pastore
 

A te Raffaello, fratello mio, che nascesti quando la casa nostra rumava, che volontario in guerra con l'erpice del tuo caccia arasti incolume l'Adriatico dal 1915 al 1918 e, in pace, cadesti fulminato al termine della tua giornata di lavoro, questo libro inscrivo e consacro.

 

I miei antenati e mio padre e mia madre, fino a che non discesero al mare, per motivi di cui parlerò, furono contadini e pastori ed ebbero sacri la stalla e l'ovile. Io sono nato nella Darsena vecchia in Viareggio, la sera di Tutti i Santi del 1882. Sono stato battezzato il giorno seguente, che è quello dei Morti, al fonte battesimale della chiesa di San Francesco. Furono miei compari i coniugi Chevalot, i quali erano servi di Don Carlos di Borbone al cui soldo era pure mio padre. [...]

Mio padre, allora, non scalpellato dai patimenti né mortificato dalle umiliazioni era florido e tarchiato. Le sue mani erano ancora scabre e terragne, e avevano ancora il cavo della giomella di quando egli si abbeverava, a mani accoppiate, su per le selve con l'acqua che pollava limpida dai canali. Il sorriso del servo stonava su quel volto bronzato e duro. [...] Perché mio padre scese al mare?

Dirimpetto al «luogo» ov'egli e i suoi travagliavano da secoli, da stella a stella, in vetta al colle di San Martino in Vignale, c'era il palazzo di Maria Teresa Fernanda Felicità di Savoia, l'inconsolabile madre di Carlo III, Duca di Parma, trucidato da Antonio Carrà. [...] Mio padre riuscì ad allogarsi come servitore nel Palazzo e lasciò la terra. [...] Non vide altra salvezza nella sua vita che nel servitorame; digrumarsi della melma impastata di lordura feconda e mettere sulla bocca il sorriso imbelle del mascherotto, lordarsi con gli abiti a strisce, galeottismo profumato di canfora e di radica saponaria.

La terra, la ferace terra della Pieve di Santo Stefano che sanguina dove la intacca il marrello, che sotto i geli del verno diventa d'acciaio murando la sementa nel suo seno caldo; le selve, nelle cui ceppale si arrovellano i picchi pertugiandole, quella del Rimortaglio che aveva dato le travature alla casa, il timone ai giovenchi, lo stilo alla vanga, l'arca alle spose, la cassa alla morte, videro le spalle di mio padre fuggiasco verso l'abbiezione del pane assicurato. Pane di segale, pane di scandella, pane di granturco, pesante come il minerale, era stato sfornato per tanti secoli dalla bocca del forno sotto la nostra casa, confinante con lo stallino dei porci e l'ovile; quel pane che tiene l'acqua anche dopo la cottura, che abbraccia e riempie lo stomaco, che quando si mette in catana pesa e spiomba le spalle. Quanta tela era uscita dal telare: tela di canapa di tiglia soda che rode la pelle come i pidocchi, che lima l'anche e le succide e le infiamma, tela ergastolana, tela da Tebaide, tela che eleva, tela con cui tutti i nostri antenati ci si fecero la cappa della Compagnia che sotterra i defunti.

Quanto vino era sprizzato razzente dallo zipolo delle botti allineate giù nel celliere, botti capaci, acetate, incrostate di tartaro, dentro le quali, per il manfano largo come una finestra, mettendovi il capo quando son vuote, si respira vino.

Quanta lana avevano dato i manti delle pecore per lo starno che le donne torcevano sulla rocca leccandolo con la lingua bollente e misurandolo coi palmi, quanti panciotti di maglia che ritenevano il lezzo delle pecore, quanti calzerotti a sette capi che ammorbidivano gli zoccoli rinceppati d'ontano.

Quante olive aveva tritolato la ruota del frantoio, cavata da un piastrone ruzzolato dalle piene della Freddana: olio verde che dava i raschiori, pizzichente; olio per tanto condime, spremuto dopo aver sverginato l'olive per quello Santo che aveva umettato le fronti e i polsi di tutti i nostri morti; olio che metteva una costellazione sulla zuppa di cavolo nero. E quanta sansa aveva schiacciata la ruota di bardiglio, sansa che non brucia mai e che condisce l'aria col fumo. I granturcai avevano gonfiato di lor foglie i sacconi e il pacciame della selva aveva imbottito i guanciali.

Scotta e ricotta aveva dato il latte munto al tramonto. La bigoncia colma di salamoia, entro cui si saporivano i rocchi di ciccia del maiale, dava il condimento per tutto l'anno. Sul «Luogo» di mio padre c'era la grazia di Dio.
 

Lorenzo Viani

dal romanzo autobiografico "II figlio del pastore", Vallecchi Editore, Firenze, 1955

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