«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

l'ultima

La mia Sicilia. Peccato

 

 

Peccato. In perfetta malafede Roma-polo e Roma-ulivo hanno sacrificato un'occasione, quella di dare un significato politico al rinnovo del parlamento siciliano. Peccato, peccato. La palermitana Donna Arabella Salviati, gran dama della solidarietà e del passatempo s'intrattiene a Enna con Vladimiriello Crisafulli, furbissimo capo post-comunista, e nella giravolta delle proporzioni, quasi pensano di recitare la pièce di Massimo D'Alema alla corte di Angiolillo. Peccato, peccato. Si fa un gran parlare di liste «separatiste». Ma, innanzitutto, perché immediatamente «separatista»? Perché la Sicilia non dovrebbe essere «indipendentista» o magari completamente «autonomista»? Il signor Salvatore Ipsale, candidato di Forza Italia, ha scritto nel suo santino: «Sicilia, da terra di conquista a terra che conquista». A Catania, un manifesto invita a votare la lista «Sud in movimento». Lo slogan è «vota Sud e vaff». Peccato, peccato.

La storia di Turiddu Todaro potrebbe essere emblematica. Comincia, che è un ragazzo comunista: «avanti popolo e bandiera rossa». Stare sotto la falce e il martello è una tappa quasi ovvia per un bracciante agricolo forgiato dalle durezze di una vita difficile, e dire che «la rabbia è eterna» in Sicilia, è quasi un eufemismo, ma Turiddu scopre di essere solo un «corporativista impaziente» quando Enzo Amoruso, segretario della sezione missina di Agira spiega la dottrina del lavoro, la battaglia della socializzazione, e infine, l'idea di Giovanni Gentile -«il filosofo paesano, di Castelvetrano»- quella di far partecipare i lavoratori agli utili delle aziende. Erano gli anni '70, in Sicilia soffiava il vento della Fiamma, Turiddu Todaro prende la sua zappa e scava i ripari alle fave, ai piselli, ai ceci, ma anche a un fagotto di ribellione inzeppato di proclami e di sbrigative sollevazioni su cui qualcuno si preoccupa, ma a cui, Turiddu, affida la sua terza trasfigurazione rivoluzionaria: scopre di essere semplicemente siciliano, e vuole per sé, per il popolo, per quel popolo di cui lui è quintessenza, la Sicilia. Sicilia allora. Una, libera e indipendente, per come avevano insegnato i separatisti lungo il corso di quegli anni furiosi, dal 1943 al 1947: «suonare le campane a stormo -così spiegava Antonio Canepa, il Pancho Villa dei siciliani- chiamare a raccolta i cittadini, seminare la rivoluzione». E perciò Sicilia, con tanto di bandiera e gonfalone rosso giallo, con l'avvocato Attilio Castrogiovanni che chiude il suo studio legale di Catania e mette alla porta il cartello «studio chiuso, l'avvocato è stato richiamato alle armi dalla Patria Siciliana». E quindi pensieri scappati dal sentimento, le montagne sopra Messina che scivolano dentro il mare, la pasta con il finocchietto selvatico, le sarde e la mollica di pane tostato al posto del formaggio, e poi tutta una folla di mantelli rossi, boccoli di capelli, baffi di pece, lacrime di mamma e Cristi crocefissi in ogni chiesa e spade che sembrano lupare, lupare che sembrano aratri, e coltelli lunghi quanto un desiderio, e sicuramente negli occhi neri neri e nella faccia scura scura di Turiddu, che è un carbone saraceno, si avvampò la dolce brace dell'utopia: in un balcone di via Etnea, la sede catanese del Movimento Sicilia libera, trovò la strada per arrivare al paradiso dei contadini dove ogni parola è grande come un'icona e un'icona è larga quanto l'orizzonte del sole e della luna. Sono gli anni '80, i furbi si annidano nelle tane del clientelismo, Turiddu invece, comincia la sua battaglia. Predica il verbo dei popoli, decifra il «Libro Verde» di Gheddafi, il capo dei fratelli libici. Fabbrica una miriade di liste elettorali, buone per ogni occasione: amministrative, politiche e ovviamente «regionali». Urla dai microfoni dei comizi il suo borbottio siciliano di rivendicazione e di orgoglio, dice ai «paesani!» che è giunta l'ora, ma siccome «la Sicilia -come diceva Agostino Depretis- è un paradiso governato da diavoli», e le cicale fanno szz szz, tutto svanisce. Ogni lista, ogni «Sicilia indipendente» ogni «Movimento autonomista», ogni «Giustizialismo siciliano», ogni fatica di Todaro è, elettoralmente, «un disturbo», però i concittadini ridono, applaudono comunque, ci bevono su, perché è meglio, molto meglio, il paradiso dell'assistenzialismo democristiano dove ogni parola è grande quanto basta, e ciò che basta serve giusto per non sbagliare la misura della consuetudine e dell'obbedienza. Oggi, Turiddu, lavora in un «cantiere scuola», una diabolica invenzione della fabbrica del consenso. Peccato, no?

Oppure la storia di Liborio La Vigna, un architetto di Nicosia, che, armato di pennello e di un secchio di vernice, gira in lungo e in largo tutta l'isola per scrivere sulle fiancate delle strade, «Svegliati, Sicilia!». Scrive e poi fotografa. Scrive, fotografa e poi ancora scrive, sul giornale del Lions Club, che -foto alla mano testimoniano- la Trinacria è già bella che pronta.

Peccato, peccato. Troppe le storie di indifferenza, e di disperazione. Troppi i sogni che ingombrano la mente di chi vuole incendiare (i sogni sono fatti della materia umida delle nuvole e ogni incendio perciò si spegne lasciando questi Prometei nella nebbia saturnina della malinconia). Peccato, peccato. Ah, gli idealisti del Carroccio! Quelli sì che sanno come fare. Altro che paradiso dei contadini! Altro che vernice e pennello. Ma gli è, dice un proverbio zen di Leonforte, «che il sazio non capirà mai il digiuno».

Pietrangelo Buttafuoco
da "II Foglio", giugno 1996

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