«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

La mia risposta è: Sud
 

Sembra passato un secolo da quella domenica di marzo, a Lido di Camaiore. Era riaffiorato da chissà quali profondità il sogno di costruire intorno a "Tabularasa" un progetto politico, di farne una sorta di «manifesto», un foglio di lotta. Qualcuno tra noi rifletteva: ci deve pur essere un motivo, una qualche inconfessata ma significativa esigenza, se si continuava a scrivere, a discutere, magari ad arrabbiarsi, mandarsi reciprocamente al diavolo, senza tuttavia recidere quell'esile filo che faceva da collante alla rivista. Ci han pensato Umberto Groppi e Vito Errico a far piazza pulita delle residue illusioni al riguardo. E di questo personalmente gli son grato. Del resto, trovo che non vi sia nulla da aggiungere, nessun commento da fare. Quelle argomentazioni si condividono o sì contestano.

Per quel che mi riguarda l'ho già fatto nell'ultimo numero di "Tabularasa". Il «gruppo» della redazione non esiste più. Vito Errico è ormai «dentro» l'Ulivo. Ha fatto la sua scelta, ce l'ha comunicata, dobbiamo rispettarla. Gli piace Tony Blair, almeno quanto Roberto Veltroni. Ciò potrà contraddire certi strali di visceralismo antiamericano, ma ciascuno di noi ha le sue contraddizioni, le sue incoerenze. Buona fortuna, Vito. Umberto Croppi, «organico» alla sinistra lo era già da tempo. Si era «spiegato e piegato» come ad altri consiglia di fare. Né la sua condizione è diversa da quella dei tanti, troppi, redattori con la tessera di AN in tasca.

Aggiungo soltanto che è meglio così. Prendere atto che siamo ormai assai diversi da come eravamo fino al luglio del 1991, quando insieme recidemmo il cordone ombelicale dall'allora MSI-DN. Profondamente cambiati, al punto che la sola cosa che ci accomuna è la cocciutaggine del direttore che continua a sollecitarci «pezzi» che non formeranno mai più un mosaico. Ed è solo per l'affetto e la stima che porto alla sua vecchia pellaccia che continuo a mandare il mio, ben comprendendo che il lettore, purtroppo per lui, si accorgerà di come progressivamente si van perdendo gli stimoli.

Esiste e non può più essere elusa una «questione rivista». Mi ero permesso di sollevarla in un'altra, non remota, occasione. È stata rimossa, ritorna.

Come allora, resto convinto che il suo futuro dipende in misura decisiva da un necessario e non più differibile chiarimento sulla impostazione, sulle direttrici culturali, sulla «linea». Anche perché, se dovessimo fare un «sondaggio» tra i lettori ci accorgeremmo che essi, a differenza degli amici della redazione, una chiara scelta di campo l'han già fatta. E non corrisponde certo agli auspici di Vito ed Umberto, di Peppe e Pietrangelo. Personalmente, per modesto che possa essere, il mio contributo a "Tabularasa" non verrà mai meno. Ma sarei ipocrita se non dicessi che "Tabularasa", nell'attuale snodo politico italiano, potrebbe avere ben diverso ruolo e tensione. Un grande «compito».

Dunque, politicamente soli. Ognuno per la sua strada. Strade che probabilmente si eran già separate per sempre e che, nel loro incerto e sinuoso inerpicarsi, si son sfiorate qua e là, dando l'impressione che potessero ricongiungersi. Ma era, appunto, solo un'illusione. Ed allora, avanti.

La mia fa rotta verso Sud. Ed io la seguo, o inseguo, come le questioni che appartengono al destino. Nelle scorse settimane si sono tenuti numerosi incontri e riunioni organizzative nelle città più importanti del Meridione durante le quali si è centrato il non scontato obiettivo di portare finalmente a sintesi esperienze, progetti, programmi: qualcosa come una ventina tra Movimenti, gruppi, associazioni che superando diversità culturali, politiche ed ideologiche han dato vita a «SUD». Nel primo documento elaborato dal Comitato promotore c'è scritto: «... dalla nostra rabbia contro un ceto politico corrotto e corruttore che per mantenere sé stesso al potere ha svenduto gli interessi del nostro popolo, consentendo lo sperpero delle risorse ed il saccheggio dell'ambiente e del territorio; dal nostro disgusto per una politica che è solo intrallazzo e clientelismo, oggi come ieri; dalle nostre speranze; dai nostri sogni; dal nostro orgoglio di essere meridionali; dalla nostra voglia di cambiare è nato «SUD», movimento politico unitario al quale aderiscono tutti coloro che, con noi, vogliono battersi per le sacrosante ragioni del nostro Popolo e per la nostra Terra ...» E, nella parte conclusiva, dopo l'elencazione dei pochi ma «rivoluzionari» punti programmatici la cui illustrazione, anche per motivi di riservatezza legati ad una iniziativa che terremo nei prossimi giorni, preferisco rimandare al prossimo numero, si legge: «... potremmo anche noi come gli altri scrivere il solito libro dei sogni. Ma non siamo come gli altri. Potremmo dire che siamo di destra o di sinistra, magari di centro, per accontentare i moderati ed i benpensanti. Ma non siamo moderati, né ci interessano quelle distinzioni. Siamo da un'altra parte. Più avanti, più in alto. «Ci riconoscerete dalle nostre azioni, non per le solite chiacchiere. Non siamo il solito partito. SUD è Movimento di Liberazione ...» .

C'è qualcuno, tra i lettori di questa rivista, che vuoi far rotta verso SUD? Non ha che da dirlo. Ma sappia fin d'ora che si tratta davvero di un Movimento di lotta, che si pone l'obiettivo di spezzare le catene della colonizzazione che dura da 135 anni per recuperare al popolo meridionale la sua dignità, l'orgoglio delle radici, per avviare la stagione del protagonismo, culturale, politico, sociale ed economico. Non posso davvero aggiungere altro. Quello che stiamo facendo è cosa molto seria per farla scivolare sulla buccia di banana di un'intempestiva fuga di notizie.

 

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Torno alla questione iniziale per dire che davvero non riuscirei a nuotare nelle acque della palude. Che differenza c'è tra Fisichella, Martino, Urbani, Ciampi, Dini, Maccanico e via dicendo? Altri devono spiegarmi -non io a loro- dov'è la destra, dov'è la sinistra, quali le differenze. Magari è questo il mondo che verrà: omologato e piatto, dominato da una sola cultura, felicemente proteso verso un modello: quello americano.

Non mi piace e lo combatterò. E non è questione dochisciottesca, ma assai decisiva. Un conto è riconoscere

che siamo già nell'era del villaggio globale e che non vale esorcizzarlo, altro è pensare a chi e che cosa dovranno stare al centro del villaggio, sia che si tratti di una tribù dell'Amazzonia o dell'universo-mondo che dilaga e dilata per le infinite vie della telematica, della cibernetica, della robotica.

Già, perché fin quando, dentro i circuiti di Internet ci infiliamo le soppressate, come ha fatto quel geniale mio omonimo di Bocchigliero (CS), tutto bene. Ma quando ci infilano dentro le passioni, le emozioni, i sentimenti, quelli che ancora ci ostiniamo a chiamare «valori», qualcosa si rompe per sempre, né potremmo ripararla.

È ciò che avviene quando, entrando nel sistema «virtuale», ci trovi per esempio proposte di adozione di bambini, tutti belli, sani e sorridenti e tant'altro ancora che cozza contro i più elementari princìpi etico-morali. Fuori dal sistema, purtroppo o per fortuna, c'è il mondo reale, con le sue tragedie, le sue miserie, la fame, i morti, dei quali ci interessiamo sempre meno.

Sarà palude? Sarà l'America? Io non ci sto.

Almeno i miei figli non potranno dirmi che il mondo nel quale saranno obbligati a vivere è nato anche con il mio plauso. O, peggio, dalla mia indifferenza.

Beniamino Donnici

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