«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

Fra possibile e improbabile
 

Discutere sul possibile o discettare sull'improbabile? Personalmente si fa una considerazione sul proprio trascorso di vita. Un bilancio pesante, fino a rasentare la convinzione d'aver sciupato un irripetibile spazio di vita, in cui si sono massacrate adolescenza e giovinezza. S'è creduto possibile l'improbabile. A questo punto si possono operare due scelte. Continuare a sciupare la propria esistenza. Oppure rivedere l'errore, constatarne l'improbabilità in quanto tale e darsi a perseguire un progetto possibile. La possibilità d'un progetto non può prescindere dalla conoscenza dei fattori, che stanno a base e devono agire in vista dell'obiettivo. Questa conoscenza non può ignorare i fatti, che vanno a costituire il brodo di coltura, in cui i fattori si muovono e vivono.

In parole povere, per costruire il possibile, si deve far uso di materiale disponibile. Quando si parla di politica s'ha a che fare con uomini, che formano popoli e stati. Ora, si può avere dell'uomo una considerazione «extra-reale». Allora tutto finisce in maiuscolo: Popolo, Stato, Nazione, Famiglia, Lavoro e quant'altro. Oppure si può tenere dell'uomo un'idea reale e allora, per fare un esempio, si comprende perché la grandezza di Francesco d'Assisi è un'eccezione di una norma, che stabilisce l'uomo in minuscolo.

A parere personale le «grandi cose» sono figlie di tante «piccole cose», le quali spesso danno dei risultati inaspettati e imprevisti. Alla luce di tanto qualsiasi progetto finisce per essere di massima. È chiaro che in politica qualsiasi progetto deve proporsi come fine il bene dell'uomo. Tante son le vie per giungere a quella meta. La più errata è sicuramente quella che parte da una visione stravolta della vera essenza di un popolo. Per star nel campo delle scienze esatte, si dirà che il «paradosso» è un esercizio matematico, che da dei risultati esatti partendo da un postulato sofistico.

Perché questo preambolo, che può sembrare ampolloso? Per dire ch'è ora di smettere di impartire cattive lezioni. Perché poi può capitare che qualche sprovveduto ci creda davvero, tirandosi addosso una montagna di guai. Com'è successo, per esempio, negli Anni Settanta, della cui storia s'è capito molto ma non s'è compreso tutto. E quando si chiede di colmare questa lacuna, le bocche restano cucite. Chi sa, non parla favorendo così la conseguenzialità del discorso in base al quale chi tace, acconsente.

Abbiamo bisogno, in quest'Italia, di uomini, di ribelli, di eretici che sappiano interpretare le «esigenze» del Popolo (in maiuscolo)? Non c'è tanta convinzione perché questo materiale abbonda. Il Popolo «esige» conti in banca, carte di credito, case comode, calde d'inverno e fresche d'estate, «settimane bianche» a Natale e crociere a Ferragosto, panza piena fino a superare barriere trigliceridemiche, auto col «tigre nel motore», l'airbag e il condizionatore d'aria.

È un Popolo (con la maiuscola, in grafia imperiale) che vuol caldo e freddo quando Madre Natura dispensa freddo e caldo. Chi è disposto a «vivere pericolosamente»? Neanche chi lo pontifica. «Passare al bosco»? Certo, per far funghi, andare a caccia o godere della frescura. Non altro. E non c'è chi abbia voglia di cambiare oro in acciaio. Primo, perché quello da la vista anche ai ciechi e poi perché l'Italsider ha chiuso i battenti. Taranto, dai suoi crogioli arrugginiti, cola solo Cito e le sue «masaniellate».

Allora, qual'è la prima necessità? Sicuramente quella di spazzar via l'«extra-reale» e ragionare coi piedi in terra per far posto al «possibile» e dimenticare l'«improbabile».

 

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È improbabile che il Sud insorga. Io vivo al Sud, giro il Meridione, scorrazzo a Mezzogiorno ma questa voglia di rivoluzione non la vedo e non la sento. Si piagnucola, questo sì, ma non di più. Come s'è fatto sempre, del resto. Chi s'aspetta sconvolgimenti sotto il Garigliano rischia di far la fine di Drogo. Anzi, peggio. I tartari giunsero quando Giovanni era vecchio e malato. Qui il deserto non si popolerà più. Resterà deserto. Quello meridionale è un popolo di carabinieri, finanzieri, poliziotti, soldati, ferrovieri, postini, gabellieri, maestri, professori, adusi a percepir paga, «poca, maledetta e subito». Questo popolo è Stato e lo Stato non fa la rivoluzione. L'unica rivoluzione degna di essere combattuta è quella che revolve il proprio status: da disoccupato a carabiniere, finanziere o postino. Un revolvere che da il posto fisso e lo stipendio, col quale comprare a rate auto, frigo, stereo e, se si fa lavoro nero o si sposa un altro stipendiato, anche la casa, tre vani e servizi con garage in condominio.

Ci potranno essere delle rivolte, come spesso è capitato a questo popolo di rivoltosi. Qualche povero cristo resterà sul selciato ma basterà quello e un battaglione della Celere, fatto tutto di «figli del Sud», per sedarle. Avete visto il film "Sud" di Gabriele Salvatores? Se non l'avete fatto, accomodatevi in poltrona. Chi non sa ancora cos'è il Sud, apprenderà qual'è l'unica «rivoluzione» possibile nel Regno delle Due Sicilie, dove sta risorgendo la vecchia Balena Bianca. Chi fu a dire che non moriremo democristiani?

 

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Lasciarsi prendere dalla disperazione? Questo sentimento pervade quando si sono nutrite eccessive speranze. Se invece si conoscono i fatti con i quali s'ha a che fare, diventa più facile vivere. E ragionare sensatamente. Sono pienamente d'accordo che fare politica è agire nel mondo, provocare eventi, contribuire a governare le cose. Aggiungo di mio: senza bisogno d'avere un nemico né di ridisegnarne il volto. La complessità del vivere moderno ha eliminato la comodità del nemico. Questo è un fatto. Il nemico non ha più fattezze. E non avendo tratti definiti, non lo si può più combattere.

È vero o meno che l'uomo non può più nascondersi? È vero o meno che la notte non può più velare l'azione di un uomo, né può farlo la superficie del mare e l'immensità del cielo? Ci sono ordigni che dalla stratosfera «guardano» nella Fossa delle Marianne e ne descrivono la vita. Ci sono macchine che sentono l'inconscio dell'Io e ne decrittano comportamento e sussulti. Non c'è più protezione e senza scudi ogni guerra diventa un'ecatombe di amici e nemici.

Questo è il mondo e non si può staccare la spina. Poteri forti, poteri occulti, poteri di sinagoghe, cattedrali e moschee? Abbiamo creduto e siamo stati ingannati. Continuare è furia ideologica, sterilità culturale, ambiti ristretti in cui ci si vuoi rifugiare per godere onanisticamente. Essere protagonisti di storia è stare nella storia, costruire il fatto, partecipare al suo divenire, partendo dalla considerazione del reale. C'è caduta di tensione ideale fra i più giovani? È così ma non sempre. Non è certo tanto per i molti che sento vociare sui moli del mio mare, in attesa di partire in soccorso del mondo che soffre. Sono giovani volontari. Partono per fronti di guerra, spesso impugnando una croce. Quand'è che ci convinceremo che imbracciare un fucile è un fatto eccezionale e spesso lacerante?

Non è «buonismo», il mio. Agli slavi non ho offerto una coperta, che ho dato invece ad un albanese. Ma ammiro chi fa l'una e l'altra cosa. La normalità della vita prevede l'avversario come ente di libertà. Il nemico è un'eccezione. Lasciamola alla regola della vita. Anche perché il nemico può ravvedersi. Può aver nutrito il suo cane con filetto al sangue in coppe di pregio; può aver dischiuso i cancelli dell'ergastolo nell'esercizio di un potere; può aver criminalizzato una pagina di storia, che resta esaltante per gli uni e mortificante per gli altri. Ma quando quel nemico vuol capire e comprendere, vuol leggere quella «pagina» e ne incolla i lembi strappati rabbiosamente un tempo, non va respinto.

Può darsi che ci siano motivazioni strumentali. Ma ne siamo certi? E non può essere che l'«extra-reale» prenda la mano al «possibile»? A me quel che sostiene Luciano Violante non dispiace. Può stordire e lo ha fatto di prima mano ma le meditazioni, in questi casi, sono necessarie. Nella mia vita ho patito l'esilio in patria perché mi riferivo ad una storia vinta. Ora che qualcuno vuoi capire quella storia, devo vietargli di farlo? Non ne capisco le ragioni. E non le capirei di più se dovessi ritenere strumentali le «considerazioni» del Governatore Fazio sui padroni, avvezzi ad arricchirsi smodatamente, il riconoscimento dello Stato sociale quale valore della nostra cultura civile, il dibattito, aperto da Luigi Manconi, sull'indulto ai terroristi.

Se c'è un mondo che si apre alle riflessioni, l'accetto con benevolenza. Vivendo in quel mondo, standoci, operando, lavorando. È importante essere atto piuttosto che prenderne.

Vito Errico

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