«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

Dopo la batosta del 21 aprile
Tutti gli errori di Fini, minuto per minuto
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Dalle stelle alle stalle. L'on. Giuseppe Tatarella, «Pinuccio» per gli amici e per il popolo, nell'occasione della grande kermesse trasformistica del passaggio dal MSI-DN ad Alleanza Nazionale aveva mobilitato, loro malgrado e senza neppure informarli, i magni spiriti pugliesi Gaetano Salvemini e Giuseppe Di Vittorio nonché il siciliano Luigi Sturzo ai fini della plausibilità del pentimento «antifascista» suo e del suo degno amico di Via della Scrofa. Tutto ciò venne allora ovviamente giudicato da noi una piccola commedia frutto di pessimo gusto e di scarsa onestà intellettuale. Nel giro di un paio di anni i fatti si sono incaricati di convalidare la fondatezza della nostra pessimistica valutazione. L'appropriazione indebita, infatti, è venuta in luce meridiana allorché il cosiddetto «ministro dell'armonia» è andato a Taranto per stringere un patto di ferro elettorale con l'ex sindaco Cito -e, quindi, con tutto quello che costui è e rappresenta- onde mettere il suo partito in condizione di appropriarsi dell'amministrazione cittadina. E così il buon Tatarella non si è limitato a tradire Benito Mussolini, ma ha esteso il tradimento a tre illustrissimi nemici di Benito Mussolini. Nel suo genere un piccolo capolavoro, non c'è che dire, anche se restiamo in attesa che il "Secolo d'Italia", organo degli urlatori della maggioranza silenziosa, ci spieghi che senso ha tutto ciò in riferimento alla strategia complessiva della destra cosiddetta «nazionale».

Il Lettore certo si chiederà cosa c'entra il regional-tatarellismo con l'argomento cui è dedicato il nostro saggio in duplice puntata. C'entra, eccome! Perché Fini è Allah e Tatarella il suo Profeta. Di più: in «Alleanza» non si muove foglia che Gianfranco non voglia. Pertanto, l'erranza tatarellesca di mescolare il sacro (i grandi personaggi della storia e della cultura) con il profano (i protagonisti di una certa cronaca) è anche erranza finesca. Dunque, siamo in tema... E forse non è male avvertire i due «compagni di merenda», come direbbe l'ineffabile Mancuso, che queste strumentalizzazioni ineleganti (ci limitiamo a così definirle) prima o poi sempre si pagano e, inoltre, visto e considerato che si dicono cattolici, che Iddio usa accecare coloro che vuoi perdere. Avvertenza, questa, di cui ben volentieri gratifichiamo il tandem di vertice alleanzista, se non altro per renderlo edotto della infondatezza di una voce, strampalatamente propagata, stando alla quale noi nutriremmo un odio viscerale nei suoi confronti. Come già altre volte significato, casomai è il contrario.

Ma la simpatia umana, ancorché vasta, non può sopprimere l'esigenza -allorché si fa politica onesta- della critica, anche severa, molto severa, se del caso. Come dicevano gli antichi? Amicus Piato sed magis amica veritas. E poi sono proprio sicuri gli esponenti «existi» con i quali abbiamo intrattenuto rapporti di conoscenza, o di simpatia o, addirittura, di amicizia, che la nostra frombola a mezzo stampa sia loro meno utile, o perfino dannosa, delle piaggerie cortigiane e opportunistiche che infittirono i mesi della precaria permanenza governativa delle due destre (il centrodestra non è mai esistito) e sono ora in via di diradamento onde tempestivamente autopilotarsi in direzione del centrosinistra? Ci facciano un pensierino sopra il quesito che proponiamo alla loro riflessione.

 

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E veniamo ai duelli che hanno costellato la leadership dell'on. Gianfranco Fini lungo l'arco temporale dei governi di Berlusconi e di Dini. Li ha persi tutti, indistintamente. Ci limitiamo ai più vistosi: quelli col Presidente della Repubblica e con lo stesso Dini. Al primo ha dato prevalentemente vita per interposta persona, affidandone le fasi più provocatorie e aggressive all'ex-rautiano Giulio Maceratini, anche lui neo-antifascista dopo la militanza in Ordine Nuovo, vicende da far dimenticare per essere in condizione di mettere sulle maniche della giacca e, nei mesi invernali, del cappotto i galloni di presidente del gruppo senatoriale. Ebbene, dalla pugna col Quirinale sia Gianfranco che Giulio sono usciti con le ossa rotte, sconfessati dal corpo elettorale e, crediamo, dalla componente più responsabile e accorta del loro stesso partito e dei membri del suo gruppo dirigente meno attratti dalle sirene dell'avventurismo, dalle caldane dell'agitazionismo eversiveggiante, dai perigliosi richiami della piazza, dalle suggestioni manichee incentivate da una potenza ritenuta reale e, invece, soltanto virtuale, supposta, sperata.

E dire che al loro fianco erano perfettamente schierati, con chiacchiere urli e pettegolezzi in tenuta da combattimento, i cosiddetti «riformatori» di Marco Giacinto detto Pannella -cioè del peggior voltagabbana della Prima, della Seconda e possibilmente della Terza Repubblica-, sputtanatore inveterato in versione demagogica e piccolo borghese di tutto e di tutti. Il Pannella ebbe a gareggiare in fraterna emulazione con il Maceratini nel volgare killeraggio scritto e parlato contro il Capo dello Stato cui si è testé accennato. Per Giacinto il Presidente era reo del reiterato rifiuto di fargli da ventriloquio per sdebitarsi della campagna da lui promossa per portarlo al Quirinale sull'onda dello slogan «L'Italia ha bisogno di un Pertini cattolico».

Intendiamoci, nel viluppo della lotta per ascendere alla massima magistratura della Repubblica il gruppuscolo dei sedicenti «riformatori» contò quanto il due di coppe: ossia, tranne qualche breve manciata di votarelli, tutto il suo contributo si ridusse alle note capacità di chiassata del capataz. Eppure costui, con la faccia tosta che lo distingue, sostiene l'incredibile tesi che Oscar Luigi Scalfaro deve a lui la elezione al soglio presidenziale. Dicendo di... sentirsi tradito si mise a raccogliere firme per strade e piazze d'Italia al fine di provocare la messa in stato d'accusa del Presidente per tradimento della Costituzione. Naturalmente ci ha pensato l'elettorato a rimettere le cose a posto scacciando dall'aula parlamentare questo megalomane -giustamente definito a suo tempo da Renato Guttuso «taumaturgo da baraccone»- insieme ai quattro gatti che gli erano restati fedeli dopo il passaggio a Forza Silvio con armi (poche) e bagagli (molti) di Taradash, Vito e Galderisi.

Ugualmente deludente il risultato della «singolar tenzone» con il penultimo inquilino di Palazzo Chigi, Lamberto Dini detto Lambertow. Nonostante una martellante, persecutoria, aggressiva campagna di denigrazione e di delegittimazione tessuta di cattiverie di ogni genere e specie -nella quale il leader del partito ha temerariamente ritenuto di doversi personalmente impegnare mettendo così in gioco tutta la sua autorità e tutto il suo prestigio- l'attuale ministro degli affari esteri ha vinto alla grande la battaglia. Ha superato brillantemente la soglia di sbarramento del 4% portando alle Camere un discreto gruppo parlamentare, ha assunto la leadership di un partito che non appena fondato può già vantare una discreta consistenza, si è assicurato tre ministeri importanti nel governo Prodi (Esteri, Lavoro, Commercio Estero), è felicemente inserito nel ristretto establishment dell'Ulivo, si trova in buona posizione strategica per influire notevolmente nelle manovre poste vastamente in essere per un raccordo fra tutte le forze di centro.

Ma il più grande e grave errore di Fini è, come usa dire, a monte. E consiste nell'avere, di fatto, abdicato alla benché minima autonomia ideologica, progettuale, culturale, strategica, programmatica per lasciarsi tranquillamente omologare -todos liberaldemocraticos- dal berlusconismo rampante, vale a dire dall'ultimo arrivato sulla scena dell'alta politica. Deficit di personalità? mancanza di grinta? timidezze paralizzanti nei confronti del Grande Sdoganatore di Arcore? Non diremmo. Diremmo, piuttosto, che Fini è nato berlusconiano: nel senso, si capisce, dell'architettura complessiva del pensare politico, del modo di reagire di fronte ai comunisti, ai «rossi», ai «sinistri» e ai loro piani «per impossessarsi del potere». Dunque, l'impossibilità di essere visibile pur nell'ambito del cosiddetto «Polo delle Libertà» e delle sue regole era in re ipsa. Per emanciparsi dal suo Lord Protettore il fondatore di Alleanza Nazionale non aveva che una strada davanti a sé: l'inversione del rapporto di forze all'interno della coalizione. E su questo ha puntato lungo tutto il 1995. Purtroppo per lui -che troppo si era illuso stando dietro a sondaggi e sondaggisti, a giornali e giornalisti che gli opinavano il nirvana del sorpasso di Forza Silvio magari in buona fede ma illudendolo e danneggiandolo con la loro dabbenaggine- l'operazione non gli è riuscita nonostante ci si fosse messo di buzzo buono contrastando Berlusconi sia nei suoi approcci con l'Ulivo per il varo concordato del governo Maccanico in vista della riforma istituzionale, sia nei tentativi di caratterizzare e stabilizzare il Polo in senso centrista. Ancora più infecondo, soprattutto perché insincero, l'annuncio di una connotazione «sociale» di Alleanza Nazionale, cui non hanno prestato fede neppure i più irrecuperabili babbioni ben sapendo che su questo terreno solo i fatti riescono ad essere più eloquenti della eloquenza stessa. E i fatti dicono che la vantata vocazione sociale degli ex missini ha sempre allegramente latitato ogni qual volta essa era reclamata dalle circostanze. Così, tanto per fare un esempio, felicemente regnante Silvio Berlusconi si riuscì a intavolare un profittevole dialogo con i sindacati destinato a portare all'accordo sullo scottante tema delle pensioni solo perché il Ministro del Lavoro, Mastella, ebbe a minacciare le dimissioni se, nel Consiglio, si fosse affermata la linea dello scontro di classe. Orbene, se l'aspirazione sociale della destra fosse stata una realtà e non un alibi, quale migliore occasione per il drappello di ministri capeggiato dal Vice Presidente «Pinuccio» di farla energicamente valere anziché farsi scavalcare dal tanto vituperato democristiano Clemente da Ceppaloni?

La vera verità è che gli impulsi sociali se un partito non li ha non se li può dare. Proprio come il coraggio nel Don Abbondio di manzoniana memoria.

Insomma, amici carissimi di Alleanza Nazionale, vogliamo dirci una buona volta, una volta per tutte, come stanno effettivamente le cose in casa vostra? Stanno esattamente in questi termini: fra il '74 e il '75 avete abborracciato un processo revisionistico culminato nell'assemblea di Fiuggi -e successivi «completamenti»- a conclusione della quale avete gettato via il bambino insieme all'acqua sporca. Ossia la socializzazione, cogestionaria o autogestionaria, la linea nazional-popolare, lo Stato del Lavoro, la democrazia partecipata, la pacificazione vera con gli avversari veri, il dialogo con le forze popolari di massa e con le avanguardie sociali, il superamento della ingiusta emarginazione sindacale della CISNAL insieme al nostalgismo astratto e infecondo, al rievocazionismo in chiave oggettivamente carnevalesca, al reducismo a scoppio ritardato, al liturgismo fuori stagione e fuori luogo, all'esaltazione minoritaristica e aristocratizzante, alla retorica dell'«altra Italia» che orgogliosamente si autoesclude.

Effettivamente l'esservi liberati dell'«acqua sporca» è stato pagante, e non solo nella accezione utilitaristica del termine (basti pensare alla presenza della delegazione del PDS al congresso). Viceversa, il cinico ripudio del «bambino» si è rivelato, come era inevitabile, autosconfiggente. Infatti la secca e devastante perdita della quota positiva di identità vi ha rapidamente e violentemente proiettati -che ciò fosse o meno inscritto nei vostri disegni poco o nulla conta- verso una operazione omologatrice ed egemonizzante posta in essere al quartier generale di Arcore, a conclusione della quale Alleanza Nazionale appare poco più -o poco meno- di un possedimento coloniale di Forza Silvio, oppure, se si vuole, una filiale prevalentemente meridionale della Fininvest e della Slanda. E ciò malgrado gli sforzi dell'on. Fini diretti a coprire l'inconsistenza autonomistica -a livello ideologico, culturale, politico- del partito con un confuso, forsennato, pernicioso attivismo che è alle radici degli insuccessi elettorali a ripetizione. Perché mai, o signori, nuovi e anche vecchi elettori dovrebbero votare per voi se, mutatis mutandis, finite sempre per dire e fare le stesse cose del vostro Grande Fratello, magari con minore realismo e saggezza e agitandovi spesso molto e a vuoto?

Certo, on. Fini, avere alla testa del "Secolo d'Italia" un intellettuale dello spessore, della caratura di Gennaro Malgieri è una risorsa, perché il neo deputato -a proposito: complimenti e auguri- è anche un produttore di ragionamenti, un uomo di pensiero, un ideologo, e fa sforzi non di rado riusciti per «inserire delle idee in un tessuto di intrighi», per dirla con un nostro caro amico e collega che da vari lustri ci ha lasciati. Che ragionamenti e idee malgieriane siano distanti dai nostri trilioni di anni luce non ci impedisce di correttamente ciò riconoscere. Ma a parte che San Gennaro miracoli non può farne a getto continuo anche quando è in splendida forma, c'è anzitutto, da rilevare che il problema è solo quello di alimentare la identità di Alleanza Nazionale per essa costruendo indefessamente, giorno dopo giorno, proposte progetti e culture per quanto originali e brillanti possano apparire ed effettivamente essere. La vera questione consiste nel far coincidere l'identikit con quanto di meglio, di accettabile anche dagli avversari migliori e non ringhiosamente faziosi, di pagante e di spendibile risulta esistere nella tradizione cui sia pure fra mille contraddizioni, contorcimenti, ambiguità sembrava richiamarsi il Movimento Sociale Italiano mentre non più vi si richiama una Alleanza Nazionale in fregola di autocontestazione e di cupio dissolvi, di pollice verso sempre che non si tratti di ministeri, di situazioni di potere, di voti altrui in più o meno libera uscita.

Proprio mentre redigiamo queste note la TV ci rende edotti dell'esito delle urne sicule di questi ultimi giorni di primavera nei quali imperversa una calura agostana. Il Polo vince ma al suo interno succedono sfracelli. Forza Silvio è al disastro, con i voti dimezzati, ad onta della presenza nelle sue file di personaggi consolari quali, a tacer d'altri, del calibro del ministro degli esteri figlio di un ministro degli esteri on. Antonio Martino e del presidente dei senatori Enrico La Loggia figlio di presidente della Regione. Povero Cavaliere! Era stato in Sicilia per ben dieci giorni per fare ben tre «bagni di folla», come li chiama il povero coordinatore regionale Gianfranco Miccichè, alighierianamente «spiacente a Dio e a li inimici sui», e soprattutto a Martino e Taradash che lo vedono come il fumo negli occhi. Ma tornato in quel di Arcore speranzosissimo e anzi carico di splendide certezze, il creatore di Fini e della Fininvest si è accorto di aver fatto un tuffo in una piscina con dentro due dita d'acqua. Ha tutta la nostra comprensione. Però come fare finta che i dati elettorali siano diversi da quelli effettivamente emersi nella sua domenica di passione? Che dal 10 aprile al 16 giugno nell'«isola sonante» -questo il linguaggio omerico- la suonata abbia assunto le seguenti dimensioni: la perdita di 14 punti, ossia il 47% del proprio elettorato. «Un disastro peraltro annunciato -avverte su "l'Unità", quotidiano fondato da Antonio Granisci e trasferito da Walter Veltroni in un Nuovo Mondo scoperto da Colombo (Furio, neo deputato PDS: anche a lui complimenti e auguri), la bravissima collega Rosanna Lampugnani- perché solo una settimana fa, nelle parzialissime amministrative, Forza Italia aveva subito una sconfitta dell'11%. Ma la vicenda siciliana, dopo il risultato delle politiche, è davvero bruciante, perché non solo da lì, dall'isola dove un mese fa Forza Italia aveva ottenuto il 32% (20,6% il dato nazionale), avrebbe dovuto ripartire la lunga marcia del movimento e del Polo, per prendersi la rivincita sull'Ulivo».

Sic stantibus rebus, fa tenerezza il berlusconiano di strettissima osservanza e obbedienza, di rito antico e accettato, on. Miccichè, che si accinge a essere salvato dal Capo dopo aver opportunamente e doverosamente rassegnato le dimissioni, quando dichiara alla stessa Lampugnani: «Se l'errore è stato di escludere ex DC o ex PSI per avere 7 o 8 punti in più dico no, questo non è stato un errore. Perché Forza Italia ha il 17%, ma è un risultato libero. E poi siamo il primo partito siciliano». Trenta e lode e bacio accademico a conclusione di un esame di etica della politica. Bocciatura irrimediabile per quel che attiene al realismo della politica. E comunque, chi si contenta gode, secondo recita l'antico, giudizioso adagio popolare. Certo, rispetto alla mazzata rimediata dal tandem Berlusconi-Micciché il negativo esito delle liste finiane è da valutare alla stregua di uno schiaffoncello con qualche contenuto di affettuosità. Come dire: sbrigati, caro Gianfranco, a darti una regolata altrimenti io, elettorato, mi vedrò costretto a rivolgermi ad altri e altrove. Eppure, quel 2 virgola qualcos'altro in meno è pur sempre un arretramento, una niente affatto irrilevante battuta d'arresto, un campanello d'allarme per chi, solo un paio di mesi or sono addirittura si cullava nella speme di giocare all'azzurro Cavaliere di Arcore e Dintorni il tiro birbone del sorpasso.

Ma c'è di più: il successo dei due aggruppamenti democristiani del Polo -e indirettamente, almeno in una certa misura, anche quello dei popolari di Bianco- suona minaccioso per AN. Perché? Perché il fantasma della grande «federazione di centro» (FI, CCD, CDU più altre eventuali frattaglie della vecchia Balena Bianca) tende ormai a materializzarsi, a prendere corpo forma fisionomia. Tale aggregazione è intuita pensata elaborata proposta in chiave egemonica, ossia diretta ad instaurare con la destra un rapporto non paritario, a considerarla una sorta di male inevitabile ma in un certo senso provvisorio, una realtà da gradualmente assorbire. Essa, in altri termini, è vista come composta, per così esprimerci, da truppe di colore, ammesso e non concesso che su soldati del genere sia lecito esternare in modo sprezzante. Cose, queste, «diplomatizzate» ma non nascoste ad un'altra eccellente scrittrice de "l'Unità", Paola Sacchi, da un Pier Ferdinando Casini e da un Clemente Mastella straordinariamente rivitalizzati dal responso veterodiccì dello squittino di Sicilia.

Ecco le loro parole: «In Sicilia il Polo ha tenuto perché ha assunto una configurazione di centro. È la riprova una volta di più che c'è un elettorato moderato, maggioritario che non è di destra, che non crede nella sinistra e che cerca una rappresentanza politica coerente con i propri valori». Ed ecco la Sacchi riferire sulle aggiuntive e integrative dichiarazioni di Buttiglione: «E, alla luce anche del tracollo di Forza Italia, ora il leader del CDU non esclude che "si possa rinnovare la leadership del Polo"». Quanto ai tempi, afferma che «se fra due mesi è troppo poco, tra due anni è troppo». Dunque, subito al via la federazione di centro che raggruppa Forza Italia, eCCD e CDU perché «un'alleanza tra AN e FI che schiaccia il centro è stata punita». E poi: «AN deve completare la svolta di Fiuggi.» E scusate se è poco. Secondo noi Rocco e i suoi fratelli politici stanno commettendo un errore: quello di significare a Berlusconi che dovrà prima o poi -più prima che poi- sloggiare dalla cabina di regìa della coalizione. Inutile dire che Silvio il Grande da questo orecchio non ci sente e che non c'è peggior sordo di chi non vuoi sentire. Dice di essere indispensabile e con tutta probabilità ci crede davvero. Certo, con tutte le vicende giudiziarie che si tira dietro viene in evidenza come una palla di piombo al piede del Polo. Tuttavia, chiaro è che più gli si fa capire che deve fare un passo indietro -e magari non uno solo- più lo si lega e collega a Fini, il cui «sostituzionismo» è meno visibile perché più sofisticato, paludato, allusivo, ma non per questo meno reale ancorché bloccato dai verdetti elettorali primaverili ed estivi e, dunque, forzosamente nonché astrattamente dilazionati a più propizi tempi.

Comunque, gli sviluppi della offensiva neocentrista non saranno una villeggiatura per il leader di AN, destinato alla danza sull'abisso allorché verrà a trovarsi nella non piacevole situazione di isolato all'interno di una lega che abbia trovato il proprio ubi consistam in un rapporto privilegiato fra i partecipanti di indirizzo moderato antico ed accettato. Solo allora, forse, l'on. Fini si renderà pienamente conto di come e quanto abbia sbagliato dogmatizzando una linea di destra che in Italia non ha mai portato fortuna a nessuno, ivi compreso Benito Mussolini, tanto vero che negli ultimi anni della sua stagione terrena ebbe ad amaramente pentirsene dando così implicitamente ragione a ciò che tanti lustri dopo avrebbe detto il suo vecchio commilitone della Settimana Rossa prima e dell'interventismo poi, Pietro Nenni: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro Capo ed a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette "plutocrazie dei paesi arrivati"». (1° gennaio 1995, "Paese Sera") E ancora, successivamente: «A destra non c'è nulla. Non c'è neppure l'avventura». Beh, diciamo pure, per puro e esclusivo amore di obiettività -e senza che ci faccia velo il benché minimo nostalgismo, ovviamente a noi non congruo- che altri «elementi rispettabili» sono reperibili in quella «tradizione», così come, del resto, nelle altre, tante altre. E tanto per dirne una: che forse le bonifiche pontine e relativa fondazione delle città sui suoli redenti dal lavoro intellettuale e fisico degli Italiani ci fanno schifo?

Enrico Landolfi

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