«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

le recensioni

 

Florio Santini
Il cuore non bruciò - Sulle orme di Shelley
Mauro Baroni Editore, Viareggio, 1995, Lire 20.000

 

 

"II cuore non bruciò" di Florio Santini? Si tratta, per dirla con il suo Autore, di «una storia dentro l'altra»: storie, quindi, che si dipanano sia nello spazio di un'area geografica vastissima -ben tre continenti-, sia nel tempo largo di oltre due secoli. Un testo complesso, concentrato, denso di tramature, orditi, rimandi, così scandito da rintocchi emotivi da risultare di non facile recensione. Quale il motivo centrale del romanzo? Il suo Autore-protagonista, un personaggio ricco di cultura, di umanità, dì esperienze distribuite lungo una Vita piena, nutrita di curiosità e di spirito di tolleranza, capace di rimettersi continuamente in discussione e in ricerca.

Come suo spirito-guida, nel tentativo di dare forma e senso all'affollarsi delle conoscenze, dei sentimenti, dei ricordi, Santini sceglie il poeta P. B. Shelley. Perché proprio questo poeta visionario, eccessivo, sempre anelante ad una totale libertà morale e politica? Shelley, nell'agosto 1819, aveva assistito inorridito alla brutale e sanguinosa repressione con morti e feriti contro un comizio di lavoratori nello spiazzo di St. Peter a Manchester ed era fuggito pieno di disgusto in Italia, una terra che gli sì presentava felice ed incontaminata.

Il poeta inglese voleva sottrarsi allo spettacolo della degradazione dell'uomo, dell'ateismo spacciato per pietà religiosa, dello sfacciato sfruttamento di un popolo di bambini, donne, uomini, cacciati dalle campagne e finiti nelle «macine diaboliche» delle fabbriche della rivoluzione industriale. Fuggiva Shelley le città inglesi sempre più simili a campi di concentramento, a prigioni sporche, fumose, disumane. La società gli appariva rozza, corrotta: in alto cinismo, durezza di cuore e un raffinato edonismo per pochi, in basso ignoranza e ottusità. Anche Santini, proprio a ridosso degli «anni formidabili» scelse di allontanarsi da un'Italia in preda alle convulsioni per riaffermare che alle pressioni dall'alto e dal basso non può sfuggire solo il singolo, solo il solitario col suo canto.

Ecco il nesso profondo che corre tra questo Autore dei nostri giorni e il poeta della cosmocrazia dell'uomo. Nella riflessione di Florio Santini si agita il fascino di affermazioni grandi, titaniche che hanno alimentato tutte le utopie di tutti i tempi: «Non voglio che alcun essere vivente debba soffrire», «Si potrebbe avere una vera religione divina, se la carità, invece della fede, ne fosse fondamento». E le linee di forza lungo le quali si distribuisce il materiale narrativo ed autobiografico sono appunto il mito di Shelley, della sua morte e del suo cuore inesausto; i suoi amici e gli amici di Santini; Lorenzo Viani e Ceccardo Roccatagliata; uomini e donne del terzo e quarto mondo; le miserie del servizio diplomatico; il ritorno a casa ancora pieno di curiosità, volontà, speranza e voglia di scrivere. Alla fine delle peregrinazioni in tre, quattro continenti, al termine di memorie dilatate per due secoli, Santini ci offre il regalo di una consapevolezza che sarebbe piaciuta a Shelley: «Sarai bello, ricco, felice, sano, avendo in te, dentro, non fuori, la fonte del tuo privilegio. E non avrai paura di nulla; né della solitudine, né dell'invidia, né della vecchiaia, né dell'oblio, né della morte fisica, né del rischio metafisico, né del disagio sociale. Sarai anche buono, perché l'ombra del male appena per un attimo ti offuscherà la vista, in quanto i tuoi occhi guardano lontano; sempre più lontano, mai paghi, mai spenti, mai quieti, come il ritmo eterno del mare. Tutti siamo scrittori; tutti potremmo riempire pagine di vita; tutti siamo personaggi dell'essere, trasformato in volere; in tutti noi urge Prometeo, in tutti noi soffre un Titano. Di tutti noi, ripeto, il cuore non bruciò ...»

Luciano Luciani

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