«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

Per una politica che non sia d'occasione
 

È un richiamo al realismo, quello che vien fuori dall'ultimo numero di "Tabularasa". Un richiamo a più voci, alcune delle quali provenienti dall'interno della nostra Redazione.

Inizia Vito, col suo «sul da farsi». Prosegue Beniamino, che spazia sulle prospettive politiche del dopo 21 aprile. Continua Roberto, in un pressante appello a far «capire agli altri che cosa vogliamo». Ci sono poi i contributi esterni di Umberto Groppi (: "Amici miei, fascisti immaginari") e di Paolo Signorelli (: "Riprendere la lotta"), dai quali apprendiamo -da distinte visuali e con opposti metodi- come scendere da cavallo: dal cavallo bolso e ingovernabile dell'utopismo e/o dell'intellettualismo. Un filo comune annoda dunque gli interventi di questi nostri Amici: l'esigenza, condivisa da ognuno di essi, di rendere avvertibile e plausibile il proprio impegno civile e sociale.

Comprendo bene questa «volontà di esserci». Così come condivido (e non potrebbe essere altrimenti) gran parte di quelle riflessioni e quegli argomenti - denotanti, credo di poterlo dire, una stessa insoddisfazione per la distanza tra obiettivi e risultati di quella comune vocazione. Ma poi, al vaglio delle soluzioni per colmare tale gap, l'iniziale concordanza di idee e sensibilità, si disperde e divide su molte e possibili vie. Qui da noi c'è chi s'è perso fra le nebbie di Segrate, e chi, più a Sud, continua infaticabile a ricercare sentieri e scorciatoie. C'è chi pare ormai rassicurato al chiarore di una fiamma e chi, mosso da avventura, è in procinto di traslocare armi e bagagli all'ombra di un ulivo pugliese. Eccetera.

Se poi provassimo a mettere il naso appena fuori di casa, il panorama si presenterebbe, se possibile, più sconsolante.

Di fronte a chi s'è dichiarato «senza contropartite» per Rifondazione comunista, e vuoi far passare questa sua improvvisata per una linea politica; e chi si vuole «rivoluzionario e alternativo», grazie alla sua strategica appartenenza alla Lega Nord. Eccetera, eccetera.

Più in là, oltre i confini della politica solitaria, va arrestandosi il flusso verso AN, contenitore questo non più in grado d'accogliere istanze, speranze e prospettive concrete ai cercatori di facili continuità. Resistono ancora là, impavidi, gli ex. Ex-socialisti tricolori, ex-fascisti libertari, ex-antioccidentali - ora arruolati quali pifferai della Destra sociale & culturale, dopo le lezioni di liberalismo dal vero loro impartite, in quel di S. Martino al Cimino, da Colletti, Grancasse, Pere e Tromboni, sotto l'attenta direzione di nientepopòdimenoché Fini Gianfranco.

Ma forse sto divagando. E pure esagerando, in questa autoinvestitura al ruolo di arbitro... tuttavia insisto, e, oltre che giudice-giustiziere mi faccio difensore, prendendo le parti degli ultimi. Gli ultimi fessi, intendo. Di quanti cioè, poco animati da spirito costruttivo, ritengano non utile spendersi in politica, nella «politica che conta». Nonostante essi dispongano magari di qualche risparmio accumulato negli anni e che, dopo tutto, proprio fessi non siano.

 

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Ed allora -seppure non concretamente, ovvero da un punto di vista irrealistico- vorrei lo stesso avanzare alcune osservazioni circa il generale richiamo alla «ragion politica». Soffermandomi in particolare su talune tesi di coloro che, tra i coautori dello scorso numero, abbiano già scelto di «far politica» attiva, ossia di «agire nel mondo, provocare eventi, contribuire a governare le cose» (U. Croppi). Comincio da Vito Errico. Per dire che sarà forse la prima volta, in una lunga... frequentazione letteraria, che trovo un suo scritto poco provocatorio, e poco condivisibile.

Brevemente. Sorvolo sui motivi che lo inducono a consolarsi per una frase d'occasione di Michele Salviati, o per un'ovvietà di Adriano Sofri. Passi per il presunto senso di responsabilità del Migliore, o per le ragioni sentimentali del brindisi della lotti; e puranche per l'uscita di Gian Enrico Rusconi sul «solidarismo della cittadinanza», da lui citata e scambiata per Messaggio alla Nazione - ma ciò che trovo del tutto fuori luogo e fuori misura è il suo appeal per Tony Blair. No, Vito. Se «II blairismo è una speranza», lo è, lo può essere solo per i progressisti da salotto, per le sinistre snob, per la borghesia radical-chic - non per il Vito Errico inquieto, incazzato, anticonformista che da tempo abbiamo (n.b.: il plurale non è majestatis...) conosciuto ed apprezzato.

No, l'elegante e telegenico leader dei laburisti britannici non fa per noi (: e qui il plurale è di speranza...). Non ci piace, non può piacerci, Vito, quel suo yuppismo, quel suo look tanto simile a quello della concorrenza. Da cui «il blairismo» più non si distingue per una specifica, diversa concezione della società, della famiglia, dell'economia, del futuro. E, parlando d'altro (ma tutto il mondo è paese!), ti dicono nulla le improvvide dichiarazioni dell'Avvocato, a Cernobbio, sul ruolo effettivo (: quello assegnatele da Lorsignori) della cosiddetta Sinistra di governo in tema di riforme?! Eppoi -non se ne abbia a male- nutro forti dubbi sulla solidità di alcune affermazioni perentorie, che sorreggono l'impianto del discorso errichiano... Davvero «Nulla è assoluto, tutto è relativo»? Anche riguardo (faccio una modesta osservazione) la lealtà, il senso del dovere, l'onestà, ed esempi del genere? Ed è proprio sicuro che «Qualsiasi richiamo al passato non ha senso politico»? Sempre ed in ogni caso? E qui me la cavo con l'aiuto di S. Kierkegaard: «Bisogna vivere la vita guardando in avanti, ma la si capisce solo guardando indietro». Non sei d'accordo?

Torneremo -lo spero e ci conto- Vito ed io al dialogo ed al confronto, ma -esprimo subito il mio punto di vista, che pongo forzatamente al centro del dibattito- «il problema più importante per noi», come direbbe Mastro Don Celentano, non è farci accogliere più o meno benevolmente (e singolarmente) in seno a questo o a quello. Credo anche che il latente conflitto fra il nostro Ego (o Super-Io...) morale e il nostro Es pragmatico vada presto risolto. Un po' da tutti. Dopo di che, chiariti i ruoli e le aspirazioni, e verificata la persistenza di un minimo comun denominatore, potremo pure procedere anche secondo il massimo divisore possibile... ma, non inganniamoci a vicenda, facendo gli eretici su licentia delli superiori.

 

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E sposto il fronte verso Umberto.

Dal cui argomentare si evince, in estrema sintesi, un affettuoso rimprovero per «una gran voglia di dichiarare il proprio vero sentire, senza avere la necessaria forza per liberarsi da un conservatorismo latente, che cozza con certa proclamata voglia rivoluzionaria».

Un'osservazione tutt'altro che campata in aria, la sua. E proviamoci, dunque, a spezzare questo malefico incantesimo! Personalmente avverto, continuo ad avvertirlo, che qui ci si muove come «tra color che stan sospesi», finendo spesso nel limbo delle belle intenzioni e delle buone parole. Nel mentre l'urgenza del tempo presente richiederebbe segnali e prese di posizioni ben più «comprensibili» e visibili di quanti "Tabularasa" è in grado di dare.

Ritengo anche, però, che le scelte di fondo debbano seguire esigenze e logiche diverse dalle contingenze. Senza che ciò automaticamente comporti -proprio ora, in una fase politica caratterizzata da un rapido susseguirsi di iniziative che vedono protagonista il vuoto- il mantenimento della neutralità o dell'equidistanza.

In altri termini, il fatto che io ed altri stentiamo a riconoscerei nella pochezza della Sinistra ufficiale, quanto (e tantomeno) nella vacuità della Destra istituzionale, non significa affatto una nostra estraneazione dalla politique politicienne. E nemmeno la tentazione (e qui non posso che parlare che a titolo strettamente personale) verso misticheggianti fughe dal mondo, o da più prosaiche e riposanti ricerche di buen retiro. La verità è che questo modo di essere e di fare politica non «ci» piace. E non tanto per questioni legate al bipolarismo e alla strategia delle alleanze, laddove è giocoforza che ciascuno rinunci a qualcosa di sé, a qualcuno dei propri dogmatismi e delle proprie «spigolosità».

C'è, invece -ed è questo il punto di stacco dalla politica «praticante»- un che di artificioso, di falso, di pretestuoso in tutta questa polarizzazione forzata. C'è addirittura la sensazione di essere meno autonomi di prima nelle scelte. Che tutto si svolga in una realtà plastificata, tra figure del tubo catodico e personaggi virtuali, con ritmi e cadenze da replicanti. Un insieme di sospetti, questi, che vanno ad assumere corposità non appena ci si avveda di come le varie offerte, le varie proposte socioculturali altro non sono -con sempre più rare eccezioni- che una serie di luoghi comuni, semplificati e diversificati a seconda della fetta di pubblico cui intendono rivolgersi. Non si tenta neppure di convincere: ad una tesi, ad un'opinione, ad un'idea. Unico obiettivo è vendere il prodotto, che è sempre lo stesso, sia pure in varie confezioni. Altro non c'è nella politica-mercato. Ad Umberto e ad altri conoscenti e amici, che rebus sic stantibus ci invitano ad uscire dal guscio, vorrei ricordare -senza presunzione o pretese didattiche- come «la» politica sia comunque un qualcosa di diverso, e di più, di quanto ci viene proposto in termini di percentuali, seggi e sondaggi. Dev'esserci un mito, una passione, una speranza, un'illusione –persino- a dare le coordinate per l'agire di tutti i giorni. E perciò non basta, non ci basta, farsi interpreti del (legittimo) desiderio di avere un lavoro meglio retribuito, di non pagare (giustamente) troppe tasse, di non avere (è vero) tanta delinquenza a piede libero, di garantire (com'è naturale) un più sicuro avvenire ai propri figli. Tutto questo, e altro, è troppo poco. Dirò allora ai miei amici, realisti immaginari: la politica non si alimenta di sole cifre, dati e programmi, sterilizzati e intercambiabili. C'è dell'altro, io credo. E questo «altro», lo si voglia o meno, ha a che fare con le ragioni della fantasia e con la solidità dell'utopia. Ossia con il materiale, lo si riconosca o meno, di cui sono fatti gli ideali.

Avviandomi a conclusione, aggiungo che l'«alternativa al sistema», motivo di cruccio per il nostro Umberto, altro non è che il «dovere di gridare alto e forte il diritto a esigere il mutamento di quest'ordine economico e sociale» (Giovanni Paolo II, 19 marzo 1994).

 

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È questo grido che manca. Sono udibili, semmai, tanti bisbigli, lamenti, strida e tante stonature. Ecco, anche noi sognatori vogliamo «esserci». E non rimanere afoni. Senza ambizioni da solisti, ma per entrare a far parte di un coro. Dove ciascuno, ciascuno nella propria individualità, possa condurre dignitosamente la propria parte, in un'opera grande.

Sappiamo bene di essere in sin troppo scelta compagnia, nel rivendicare quella identità, e di volerla tenere a galla nel mare magnum dell'omologazione liberista. So che siamo in pochi, a volerci riferire all'originalità di quella nostra proposta nazionale e sociale. E so anche che quella «voce» anti-sistema può risultare del tutto flebile, particolarmente se raffrontata col fragore dello status quo e dei sostenitori della politica qui-e-subito.

Eppure si tratta di una voce limpida, decisa a crescere e a salire di tono. Decisa anche a cercare echi che la riprendano, e a trovarne altre, di voci, con cui formare il famoso coro... Vogliamo, insomma, far parte di una pluralità di espressioni fra loro diverse, ma sintonizzate. Per affermare, su una stessa lunghezza d'onda, quel socialismo che non c'è in alternativa all'attuale sistema mondialista.

Per ripensare un socialismo conscio del proprio ruolo, antagonistico ad un sistema dove le opinioni, pulsioni ed esigenze concrete di tutti e di ciascuno vengono regolarmente determinate, coartate, metabolizzate. Per un socialismo, quindi, che si ponga il problema della partecipazione popolare alle scelte politiche in termini di coinvolgimento alla vita comunitaria. Che, nel campo del lavoro, si traduca in forma di cogestione. Per un socialismo rivendicativo della propria funzione e tradizione storica anticapitalista; soprattutto da quando organismi plutocratici trans-nazionali determinano le politiche nazionali ed internazionali. Per un socialismo orgoglioso di schierarsi dalla parte dei deboli e dei vinti, e che sui grandi temi sociali del terzo millennio sappia adeguare il proprio messaggio ad esigenze di radicalità...

... Romanticherie in puro stile impolitichese?

- Sinceramente, può essere. Ma, d'altro canto, come disse Oscar Wilde: «Una mappa del mondo che non comprenda anche il Paese di Utopia, non vale nemmeno un'occhiata».

 

Alberto Ostidich

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