«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

«er bollettino alla bocca della verità»

 

Fastidio a Roma per la gala dei furbi e degli scrocconi

 

 

Poco più avanti dell'isola Tiberina di Roma, dove il ponte Palatino sul «biondo fiume» dell'Urbe fa da trampolino ai visitatori dei templi latini di Vesta e della Fortuna Virile per indurli a conoscere anche i pittoreschi rioni esistenti nei quartieri di Monteverde e di Porta Portese, gli osservatori più attenti hanno potuto considerare nel recente mese di maggio con quanta e tenace perseveranza le rubiconde comari di Trastevere sono rimaste affacciate sui balconi delle proprie case popolari per individuare chi si muoveva attorno alla «Schola Græca» di Santa Maria in Cosmedin, per accertare se finalmente, almeno alcune settimane dopo l'inizio della XIII Legislatura del Parlamento italiano della prima Repubblica, qualcuno degli esponenti politici più rappresentativi della variopinta partitocrazia di destra, di centro e di sinistra -attualmente esistente nella nostra Penisola- si è lasciato persuadere da un suo fan (nell'etimologia inglese è più indicativo di ammiratore oppure di tifoso]) a recarsi nel portico della chiesa di Papa Adriano per sottoporsi al controllo della reale «temperatura» di sincerità dei suoi propositi d'azione, introducendo una propria mano nell'antico e temuto chiusino della Bocca della Verità.

La leggenda popolare di Roma asserisce che la bocca del mascherone di fontana è severa, morde comunque la mano del mendace che ha osato affrontare la prova. Ed ecco la ragione per cui l'indugio sui balconi delle donne residenti in prossimità del Gianicolo ha continuato ad essere di rigida vigilanza. Le comari trasteverine sono divenute scettiche a loro spese nella considerazione dei cosiddetti politici di professione, tanto è vero che nei propri dialoghi -con costante incisività romanesca- c'è chi di esse ritempra in schietto vernacolo le sagaci «memorie» indicative di Aldo Fabrizi ("Nonna Minestra", 1974) allorché con "L'urtimo Messia" tratteggiava «Come incantate da un imbonimento / ner giardinetto, un sacco di persone / stanno sentenno 'na dichiarrazzione / dar tipo che sta sopra ar monumento. / Popolo! Questo nova parlamento, / salva dar precipizzio la Nazione: / gnente più crisi, debiti, inflazione, / rapine, bombe, industrie in fallimento. / Comincerà er controllo de le spese / e li ministri de la maggioranza faranno l'interessi der Paese. / Ma mentre tutti ascorteno er Messia... / ariva de carierà un ambulanza / che agguanta er matto e se lo porta via».

Sulla «morale» di questi versi sarebbe opportuno riflettere un po' più del consueto.

 

«Che  Sonajera co' l'organetto!»

Da tale meditazione è sgorgata la constatazione che quanto i liberal-conservatori del Polo delle Libertà garantivano come progetto di rinnovamento dei mercati e delle condizioni dell'occupazione e che ciò veniva assicurato dai catta-comunisti dell'Ulivo (a priori da sottoporre al consenso dei «compagni» di Rifondazione con falce e martello) in materia di facile equilibrio sociale rispecchiavano sul piano dialettico di convincimento le medesime illusioni abitualmente elargite dai cantastorie dal Nomentano alla Garbatella, dal Flaminio ad Ostia mediante la «sonajera co' l'organetto».

Anzi, adesso la persecuzione propagandistica dei partiti e degli aspiranti deputati e senatori sugli elettori è stata parecchio peggiore, più tormentosa, di quella esercitata dall'«urtimo Messia» indicato da A. Fabrizi, perché per mezzo di televisione -anche se subordinata alla «par candido» dall'osservanza parecchio partigiana- e di altri strumenti divulgativi delle opinioni di comodo proprio (comunque demagogiche) essa ha raggiunto forme di sofisticazione aldilà di ogni condizione di sopportazione. Nel commentare a caldo una fase post-elettorale del suo tempo e delle stagioni politiche da lui conosciute, Carlo Alberto Salustri (Trilussa) pose in risalto l'immutabilità dei costumi ambientali nonostante i riflessi negativi provenienti nelle famiglie dei panegirici degli arruffapopoli (i comizi conclusivi della recente campagna propagandistica per la consultazione politica del 21 aprile svoltisi a Roma in Piazza Navona e in quella del Popolo sono oggigiorno altrettanto indicativi) e le matrone di Trastevere, quando a mezzogiorno oppure di sera hanno chiamato a mensa i propri familiari per il pranzo o per la cena, hanno constatato che il sonetto "La politica" è di piena attualità, il 1996 è in analogia al 1915.

Trilussa anche in questa composizione vive e fa sentire la realtà delle caratteristiche romane, specificando quanto «Per modo de pensa' c'è un gran divario: / mi' padre è democratico cristiano, / e, siccome è impiegato ar Vaticano, / tutte le sere recita er rosario; / de tre fratelli, Giggi ch'è er più anziano / è socialista rivoluzzionario; / io invece so' monarchico, ar contrario / de Ludovico ch'è repubbricano. / Prima de cena liticamo spesso / pe' via de' sti prìncipi benedetti: / chi vó qua, chi vò là... Pare un congresso! / Fama l'ira de Dio / Ma appena mamma / ce dice che so' cotti li spaghetti / senio tutti d'accordo ner programma».

 

«Co' la maschera, la verità!»

In precedenza, su queste caratteristiche dell'Urbe, in attesa del Terzo Millennio ma molto ancorato all'Ottocento e al Novecento, l'aèdo dialettale G. Gioachino Belli (fustigatore della corruzione del clero e dell'ignavia del popolo romano) sottolineava che «a Roma, co' la maschera sur grugno, armeno se pò di' la verità!», mentre a commentare poi questa realtà provvedeva M. Teodonio precisando che «se il proverbio è maschera, e se la condizione per dire la verità è comunque la maschera, qui si afferma l'implicita identità fra proverbio, verità e poesia». Ciò vale per Roma, ma Roma -ribadiscono a Trastevere- è il mondo! La millenaria saggezza del popolo romano sboccia anche laddove è il più aspro il distacco tra il procedere della partitocrazia in genere e il modo quotidiano dell'esistenza popolare; essa si schiude sempre protesa verso il futuro serio e autentico, dove la retorica ritardatrice dei liberal-conservatori e la dialettica retrograda del catto-comunismo dei «compagni» dell'Ulivo intero non vogliono e non possono arrivare. E Cavour, da buon statista, già nel 1861, sostenne che «Roma è la sola città d'Italia che non ha memoria municipale, tutta la sua storia -dal tempo de' Cesari al giorno d'oggi- è la storia di una città che si estende infinitamente al di là del suo territorio». Quindi, Roma, l'Urbe della Civiltà, già allora guardava al Terzo Millennio nell'ampiezza dei suoi valori, quelli che Cesare Pascarella evidenzia nella «Storia nostra» nei sonetti del «popolano» trasteverino che non ha paura di mettere la sua mano nel mascherone della Bocca della Verità.

 

Romolo, poi le 12 tavole

Infatti, le fasi salienti della Civiltà latina, mediterranea ed europea, quelle che si espansero -non dimentichiamolo- da Roma e dall'Italia sulla Terra quali divulgatrici di progresso, ebbero per promotori i filosofi, gli statisti, i giuristi, i condottieri e quelle genti succedutesi nella nostra Penisola dall'era delle Lucumonie etrusche a quella recente per la programmazione mondiale sul piano istituzionale e legislativo della Socializzazione (in merito la concezione etica della Costituzione della RSI approntata dal ministro Carlo Alberto Biggini è significativa!) e tutto ciò contribuì in modo pragmatico alla trasformazione della Storia di ogni tempo in punto costante d'incontro e d'amalgama delle scienze dell'Uomo nel diritto, nella sociologia, nell'antropologia, nella geografia e nell'economia.

Così, pur sapendo che la Verità genera odio (veritas omnium parit sentenziò il commediografo latino P. A. Terenzio), Cesare Pascarella -uno dei maestri della poesia dialettale- illumina la fondazione dell'Urbe in maniera convincente: «A queli tempi lì nun c'era gnente... / La poteveno fa' pure a Milano, / O in qualunqu 'antro sito de lì intorno. / Magara più vicino o più lontano. / Potevano; ma intanto la morale / Fu che Roma, si te la fabbricorno. / La fabbricorno qui. Ma è naturale, / Qui ci aveveno tutto: la pianura, / Li monti, la campagna, l'acqua, ervino... / Tutto! Volevi anna' in villeggiatura? / Ecchete Arbano, Tivoli, Marino. / Te piace er mare? Sorti de le mura, / Co' du' zompi te trovi a Fiumicino (l'antico Porto Augusto). / Te piace de sfoggia' in architettura? / Ecco la puzzolana e er travertino. / Qui er fiume pe' potecce fa' li ponti, / Qui l'acqua pe' potè' fa' le fontane, / Qui Rìpetta, Trastevere, li Monti...».

Ecco poi il «sor» Cesare nei dettagli del solco tracciato da Romolo sul perimetro iniziale dell'Urbe in fasce e, poco dopo, la prova di riconoscenza del figlio di Marte e di Rea Silvia alla famosa Lupa che salvò lui e il gemello dalla corrente del Tevere: «Je fecero innarzaje un monumento / Dove che ce so' loro ritrattati / Ne lo stesso preciso movimento / Come la Lupa l'aveva allattati! / E Romolo lo disse: Io, fece, vojo / Che 'sta Lupa che a noi ci ha governato, / Sia messa ner museo der Campidojo; / E siccome che fu er primo principio, / Er ritratto de lei venga stampato / Su lo stemma dell'arma ar Municipio». Nella valorizzazione anche di questo atto, oltre due millenni da tale evento, un altro Uomo volle esaltare quell'azione di civiltà con la proclamazione il 21 aprile 1927 dello Stato corporativo e della sua organizzazione, anche con l'introduzione rivoluzionaria per l'Italia e per il mondo intero della Carta del Lavoro, atto che B. Mussolini potenzierà -sul piano di perfezionamento dei diritti dei prestatori d'opera- durante la Repubblica Sociale (1943-45) con l'elaborazione del piano della Socializzazione, con progetti legislativi validi su scala nazionale ed applicabili anche su quella mondiale.

L'aratro di Romolo vitalizzò così con il vomere latino di maggiore Civiltà sociale, e pure nel nostro secolo, il valore del Natale di Roma che per venti anni fu di recente per ogni Italiano la Festa del Lavoro.

Nell'Urbe, sotto la Repubblica la «Legge sulla maestà del Popolo Romano» (Lex de maiestate Populi Romani) aprì con le riforme di Giulio Cesare il progresso civile augusteo, ma il Diritto romano si potenziò sempre con le Leggi delle dodici Tavole (P. Grimal, "La Civiltà Romana", 1961) redatte già verso la metà del V secolo a.C. da dieci decemviri, utilizzando persino la conoscenza della giustizia ellenica, poi incise ed appese nel Foro vicino ai Rostri.

 

«V'ajuta e protegge»

Quelle Tavole stimolarono l'etica dialettale di Pascarella con chiarezza, facendogli scrivere: «Dodici sole, e senza confusione, / Scritte ner modo che tutta la gente / Da piccoli se l'imparava a mente / Senza bisogno d'antra spiegazione. / Vor' di' che poi se c'erano persone / Che avessero pensato co' la mente / De procede' in modo diferente, / Nun facevano tanta discussione: / Je dicevano: questa qui è la Legge / Per tutti quanti, giusta e regolare, / Che v'assiste, v'ajuta e ve protegge; / Si quarcuno però, nu' la rispetta, / Se ricordi che er fascio consolare / Tramezzo a li bastoni ci ha l'accetta».

La saggezza del poeta lodato dal Carducci ed ammirato da E. Zola ci indica senza incertezza nella "Storia nostra" le molteplici vicissitudini dell'Urbe, delle sue genti e chi, dalla fondazione dell'Urbe sino all'altro ieri, prima che in via Veneto trionfasse la «dolce vita», ha agito in modo costruttivo a favore della Civiltà sbocciata sui Sette Colli e dei popoli che l'hanno applicata. In merito, egli aggiunge: «... E Cesare che vedde la Repubblica / Romana, ch'era bella che finita, / Disse: Qui par sarva' la cosa pubblica / Nun c'è che da veni' a 'na decisione... / ... Monta' a cavallo e passa er Rubicone» per portare nella Curia -quel Senato fondato dal re Tullio Ostilio in prossimità della Via Sacra- l'incisività della politica latina.

Narra la Storia che Giulio Cesare portò nell'Urbe, con la serietà dei suoi Commentari e la sicurezza dei propri legionari, l'incisività delle riforme che sino d'allora ancorarono la moneta all'oro (coniò un denaro nuovo con un potere d'acquisto equivalente a quello della sterlina del XIX secolo), rese scientifica la tassazione dei cittadini mediante censimento dei redditi, intraprese la bonifica del Fucino e delle paludi Pontine, avviò la modifica del «calendario romano» con l'ausilio dell'astronomo Sosigine, lanciò una campagna demografica con premi per i genitori prolifici, estese il diritto di piena cittadinanza romana (l'orgoglio e la responsabilità del «Civis romanus sum» sincronizzati da Cicerone) a molti abitanti europei del nascente Impero, promosse il «grande piano regolatore» dell'Urbe (disciplina per viabilità, traffico di merci, uso degli alloggi, acque potabili, tutela delle zone verdi e regole di nettezza urbana), stroncò la speculazione edilizia (estensione ordinata di domus, insula; e regolamentazione di atrium e peristylium) e tutelò l'attività agricola dei contadini del territorio peninsulare con la prima forma di protezionismo che imponeva ai prodotti non italici il 5% di tassa sui diritti d'entrata nei mercati.

 

«Fatta bella, fatela forte»

La volontà di civiltà di Giulio Cesare venne con lui assassinata nel Senato il 15 marzo 44 a.C. proprio ai piedi della statua di Pompeo, ma l'orazione del console Marco Antonio (G. Buzzi, "Giulio Cesare", 1970) con l'annuncio di «Morto Gaio Giulio Cesare, vive Cesare!» temprò la forza della politica romana per conferire ad Ottaviano la potenza di Augusto. Roma e la sua storia non muoiono; rividero l'Italia divisa, invasa, tormentata dalle guerre, umiliata dai potenti, tormentata dagli ingiusti; poi si unificarono per diventare Nazione, ma faticano ad essere europee perché i maniscalchi della partitocrazia non hanno imparato a fare politica. Aprendo maggiormente il suo cuore a Roma e all'Italia, Pascarella -riferendosi al 1870, a dopo la breccia di Porta Pia- canta con la sua poesia: «... Quelli du' nomi che fra le pavure / Se dicevano, quarantenni avanti, / Drent'a l'oscurità delle congiure, / Adesso invece quele du' parole / Quello poteva pronunziane avanti / A tutti, ne la grande luce der sole». Poi, per la Patria aggiunge: «Dio ve l'ha fatta bella. E si la sorte / Ci ha concesso a noi de falla unita, / adesso tocca a voi: fatela forte!»

È un importante incarico, non lasciamolo franare nella demagogia. Ognuno di noi, nella sua coscienza, possiede la forza morale per essere all'altezza di questo compito.

Bruno De Padova

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