«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 4 - 15 Luglio 1996

 

Vi sono riferimenti che non ci interessa esiliare
 

Nel rivolgersi a questa rivista -a chi la redige, ed a coloro che vi si riconoscono- U. Croppi ha stilato uno zibaldone condensato di pensieri ed argomentazioni entro il quale è stato inserito un po' di tutto. Cose con le quali concordare e, per altri versi, sulle quali dissentire. Chiosare criticamente e ribattere punto su punto ciò che Groppi scrive non è del resto opportuno; parrebbe quasi di confezionare uno «stato d'accusa» per lesa ortodossia, magari per ritrovare nella scrittura le forme di una nuova Scolastica assolutamente mortificante, in tutti i sensi.

Una risposta va comunque data, anche perché sollecitata esplicitamente dalla voglia di discutere, ancorché garbatamente.

Croppi precisa –apprezzabilmente- che non ha «quasi nessuna certezza da mettere in campo», rimarcando quel certo travaglio che ebbe a fargli sondare se a suo tempo potessero esistere «motivi sufficienti per tentare assieme traversate, per tenersi per mano attraverso spazi bui e cercare comuni soluzioni, soluzioni politiche», nel tentativo «di spiegarsi ma anche di piegarsi alle esigenze che ogni nuova costruzione impone». E questo era ieri. A cosa avrebbe condotto, quindi, tanto travaglio? Alla constatazione che «dentro la transizione», dentro il passaggio delle grandi narrazioni a nuove forme di politica «è necessario portare la propria voglia di fare». «Senza strapparsi i capelli per paventate globalizzazioni, che costituiscono già oggi il teatro su cui inscenare nuovi confronti, riorganizzare il pensiero» dovremmo, oggi, abbandonare quel certo «conservatorismo latente».

Bei rilievi, ma quanto colgono nel segno? Il problema generale di chiunque muova i propri passi intellettuali ed operativi nella sfera della politica è certamente il balzo in avanti che la Modernità sta compiendo. E non vi è dubbio che questo richieda una capacità interpretativa e di intervento commisurata e connaturata a ciò che accade in questo fine secolo. Nessuno ne è esente; nessuno può nascondersi. È altrettanto vero che la condizione del Moderno -ma già la chiamiamo da tempo post-moderna- contempli quindi la necessità di risposte forti e caratterizzate. Non so quali siano le vie d'uscita che Croppi propone, ma per me questa necessità, questo continuum anche conflittuale ed antinomico lo si può e lo si deve rappresentare.

Affrontare il tema della globalizzazione è comunque un indice di sensibilità, di attenzione per ciò che succede, per le dimensioni dei rapporti produttivi e finanziari trans-nazionali che travolgono -e comunque stravolgono- i princìpi elementari di sovranità dei localismi, dei regionalismi etnici: può darsi che si tratti di una reazione congiunturale e non di un fattore strutturale di lunga durata, ma è in ogni caso un elemento che si posiziona nel riguardi dei grandi cambiamenti planetari. Ambienti culturali che non sono in odor di rivolta -vedasi gli ultimi numeri di "Liberal", certi passi esplorativi compiuti su "Reset" e così via- colgono anch'essi le prospettive inquietanti del meccanismo globale capitalistico, di un produttivismo tecnologico nichilistico ed a tratti aberrante con cui si devono fare i conti.

È su questa priorità che il dibattito politico e sociale (ma anche politologico e sociologico) si sta incentrando. Quello, almeno, che sa svincolarsi dalle vuote retoriche e dagli accademismi da ingegneria costituzionale e che, senza i manuali, cerca di dare un senso a certi interrogativi. È un fatto che tutti si stiano muovendo con ritardo, raccogliendo peraltro con una certa dose di incompletezza le vere istanze del momento. Ed in questa scansione, in questa scelta non puntuale dei tempi ci siamo anche noi.

Non c'è nulla di catastrofico nel rilevarlo, così come non v'è alcunché di collassato -sul piano ideale- nel fatto in sé.

È sicuro che il fattore di riferimento può essere -ed è- di natura «etologica»: «ritrovare le radici» è un modo di porre in primo piano tutta la problematicità che caratterizza la fase presente (e si può dire anche futura) di quest'epoca.

Croppi riprende il filo ininterrotto del Fascismo e si aggrappa a ciò che sarebbe «ormai corroso, insignificante ed indelebilmente macchiato dalle aberrazioni che esso aveva prodotto» (insieme al Comunismo). A me sembra che tanta acqua sia passata sotto i ponti, e non solo grazie alla «storiografia distaccata», a De Felice o quant'altro. Essa passò già nella RSI, nella sua pubblicistica così vivida pur se stretta nella morsa della guerra, e questo Croppi lo sa. Dopo anni constaterà forse la persistenza di certi toni sentimentali e cupi (ma almeno non ipocriti, credo lo vorrà sottoscrivere), di una sorta di lamentevole carenza di agganci strategici. È vero.

Ma enfatizzarlo rivelerebbe un errore di prospettiva. Poiché non è il sintomo di una «crisi» del Fascismo -di ciò che era e di ciò che oggi è- ma una causa (emozionale e fattuale) del suo avvitamento su di sé. Una causa che passa per le nostre insufficienze, per l'impreparazione di chi non è un professionista della politica, per chi non ha paura delle critiche -e le pubblica- a differenza, per esempio, di chi in Parlamento e fuori approva il Decreto Mancino con buona pace per la «voglia di fare» fuori da certi schemi.

A fornire i materiali per una ipotesi di lavoro e di impegno politici non possono essere solo Bombacci e Ricci. E neanche le frasi di Niccolai. Ma del Fascismo quale vivente e-spressione -anche umorale, se si vuole- sono oggi alcuni riferimenti che non ci interessa esiliare e che nella sua storia sono inscritti, portatori anch'essi di contraddizioni e di slanci.

Di questo retaggio, appunto, ci si fa latori, e non solo chi scrive su "Tabularasa", perché tante altre realtà sono permeate da una voglia antagonista di incidere sulle situazioni concrete. Nella consapevolezza di tutto ciò che fu il Fascismo storico, nella buona e cattiva sorte, senza idealizzare un Fascismo «virtuale» ma senza neppure negare la possibilità reale di dare una svolta critica e costruttiva ai programmi ed alle forme di lotta. Confrontandoci sulle mutate esigenze del quadro degli avvenimenti.

Altrove, forse per una personale miopia culturale, ci pare di vedere il «partito dei sindaci», Rutelli, Magrone: sarebbero costoro i contraltari o gli interlocutori delle «ineludibili forme in cui si va strutturando la vita del pianeta»? O, ancora, il patriottismo costituzionale del Presidente della Repubblica ed il falso orgoglio antisecessionista di chi ha già svenduto la Patria agli interessi occulti del capitale straniero? Altro che il «cambiare delle cose» o la «riscoperta della civiltà del dialogo». Su queste pagine e su altre si tenta di elaborare una alternativa aperta e coraggiosa a ciò che è. Nei luoghi del Potere si gestisce -da destra a sinistra- il privilegio, la fabbrica delle leggi e tutto ciò che «conta».

Le differenze passano anche nel dispiegarsi di questi scenari. Per capire e capirci sono cose che ci ostiniamo a rivendicare, caro Croppi e caro Errico.

Roberto Platania

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