«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 5 - 31 Agosto 1996

 

L'uomo a pezzi
 

Lo scorso 31 luglio si è conclusa la raccolta di firme per una proposta di legge d'iniziativa popolare promossa da AIDO, ANED e ACTI, ossia dalle associazioni dei donatori d'organo, degli emodializzati e dei cardiopatici.

L'iniziativa, volta a modificare la legge n° 644 del '75, intende consentire l'espianto generalizzato, estensibile cioè a tutti quei cadaveri che non siano oggetto di riscontro diagnostico o sottoposti ad autopsia giudiziaria, salvo il caso di una diversa, esplicita volontà espressa in vista dall'(ex) interessato. Tale modifica, se introdotta, verrebbe anche a sollevare le famiglie colpite dal luttuoso evento dal gravoso onere, previsto dalla normativa vigente, di dover decidere l'utilizzo o meno a fini terapeutici dei resti del defunto. La proposta ricalca e rilancia il progetto di legge licenziato dal senato lo scorso novembre, ed il cui iter si fermò per lo scioglimento anticipato delle camere, con il quale si voleva porre in essere il seguente meccanismo: tutti i cittadini italiani d'età superiore a 16 anni erano tenuti ad esprimere per iscritto l'eventuale contrarietà a far disporre post mortem dei loro organi; e chi taceva, acconsentiva...

Dietro una simile volontà innovativa, tesa ad incrementare il numero dei trapianti, esiste un'esigenza reale, fatta da migliaia di ammalati per i quali un nuovo rene, o un nuovo pancreas, polmone, fegato (...) rappresenta l'unica chance di vita più o meno vivibile e durevole.

 

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Tuttavia, a scapito di progressi e conquiste della scienza medica, e ad onta degli altrui buoni sentimenti, trovo la ratio che muove la riforma della «644» profondamente sbagliata, o, per meglio dire, aberrante. Per intanto, la presunzione di consenso costituisce, oltre che una mostruosità giuridica, una vera e propria lesione alla libertà dell'individuo: il criterio del silenzio-assenso, se può valere nella casistica burocratico-amministrativa, non va di certo applicato estensivamente a princìpi e valori che riguardano l'essenza della persona umana. Considerare la donazione d'organi come atto dovuto equivale -mi si passi il paragone- a stabilire per legge l'abbonamento collettivo a "Sorrisi e Canzoni", o l'iscrizione obbligatoria alle liste di "Rinnovamento Italiano", a meno di motivata disdetta e comprovato diniego.

Battute a parte, e sorvolando altresì sugli aspetti quantomai problematici del trapianto-espianto legati all'accertamento di morte e alla gestione dei prelievi (con i necessari corollari del compenso all'equipe che procura gli organi; della monetizzazione del consenso per i parenti del «donatore»; del commercio, sempre più florido e sempre meno clandestino, di pezzi di ricambio provenienti dai Paesi del Terzo Mondo... e mi pare che basti), è al fenomeno in sé, alla sua ontologia, che voglio qui far riferimento.

Tralascio anche di prendere spunto dalle considerazioni, assai interessanti, apparse su queste pagine (vedi Renzo Lucchesi su "Tabularasa", n° 1/1996) in merito alle terrificanti prospettive apertesi con la manipolazione genetica finalizzata ai trapianti - per ribadire la convinzione che, al di là d'ogni nobile intendimento e pio sentimento di medici, operatori, politici, religiosi (...) è «il fanatismo» che informa i trapianti a dare le stigmate di un abbrutimento generale, ovvero il segno tangibile di un uomo degradato a mercé, ed i cui residui finali, al pari di altri scarti di produzione, vanno (ove possibile) recuperati e riciclati.

Una concezione questa, che fa tutt'uno col pensiero moderno e che sento di dover respingere. Così come dovrebbe essere respinta da quanti professino di credere nell'uomo -uomo nella sua intierezza e integralità- «fatto a immagine e somiglianza di Dio»; nell'uomo «da considerare sempre quale fine e mai quale mezzo».

Credenze rappresentate come residuali e oscurantiste da un'epoca dominata dallo «spirito pratico», che ha soppiantato lo spirito religioso e lo spirito umanistico. È a tutti evidente, infatti, come la metafisica, l'etica e l'antropologia si siano progressivamente ritirate, per esser poi dissolte in un universo tecnologico, là cui dimensione non spazia mai oltre i limiti della temporalità e del relativismo.

Lo sguardo di quel mondo, ultrameccanicistico ed iper-razionale, ignora dunque la morte. Non nel senso (è ovvio) che la morte sia stata tecnologicamente superata, ma nel senso che esso vede nella morte un assoluto, da allontanare sino all'ultimo...

E, almeno qui in Occidente, i tentativi per rinviare il fatale incontro hanno avuto successo: probabilità e durata della vita sono -come sappiamo- in continua crescita.

Orbene, in questo titanico tentativo di procrastinarne la scadenza, all'uomo sono stati imposti scenari artificiali e reificanti. Alla scienza è stato detto di guardare all'uomo quale oggetto di indagine applicata, quale destinatario di ricerca fine a sé stessa - unitamente all'economia, cui è stato affidato il compito di creargli il benessere, mentre la politica, e la filosofia, la sociologia ecc. hanno finalmente trovato e stabilito per lui la formula della felicità... «Il paradigma tecnico-scientifico -scrive U. Galimberti ("II giorno in cui gli uomini persero il ciclo", "la Repubblica", 1° agosto '96)- non si propone alcun fine da realizzare, ma solo dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini destituisce ogni possibile ricerca di senso per quel tipo d'uomo, l'occidentale, cresciuto nella cultura del senso, secondo cui la vita è vivibile solo se iscritta in un orizzonte di senso».

Sicché la vita, privata dei suoi segni simbolici, mitici e salvifici, giunge a noi con tratti più disadorni, più facili, anche, e più aggettivi. Abbandonati alla tecnica ed a quel suo «sguardo» terribile e ammaliante, ecco che gli uomini -denegata la sacralità della vita e della morte che è in loro- vedono nel corpo un insieme dove non circola altro fine logico o senso unitario, che non stia nel soddisfacimento e nella manutenzione del corpo stesso. E, dunque, perché mai le componenti di quel contenitore non dovrebbero, una volta terminato l'uso di primo impiego, esser considerati smontabili? Smontabili e rivitalizzabili, oltre a tutto, «a fin di bene»? Se la ragione del nostro esser uomini più non risiede in una inscindibile unità di materia e di spirito, se -dimentichi di un progetto di vita- alla vita non siamo più in grado d'indicare una direzione e una mèta, ebbene, risulterà allora giusto, e logico, e doveroso, che quel nostro contenitore sia utilmente destinato alla «scuola di cadaveri», dove i predatori della vita perduta potranno esercitarsi in tutta scienza e coscienza. Ma se -di contro- il nostro corpo rileva non solo quale assemblaggio di organi, ed il vivere nostro quotidiano quale sequenza di sensazioni fisiche e reazioni chimiche, le brevi considerazioni che precedono potranno non essere, come io spero, prove di qualche plausibilità ed interesse.

Disticò

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