«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 5 - 31 Agosto 1996

 

Costruire, non distruggere
 

Si dice che la polemica sia il sale del giornalismo. Sarà così però non riduciamoci a parlare «fra noi». Facciamolo per l'ultima volta; c'è molto, e d'altro, da discutere tenendo presente che l'oggetto deve essere «gli altri» e noi solo il soggetto, preferibilmente in ombra. Veniamo alla discussione.

Mi si da del «ravveduto». Non è così. Quale ravvedimento? Vivaddio, c'è tanto da dibattere (e lo si fa) che non si riesce a star tranquilli nemmeno a volerlo. Su un fatto mi sono ravveduto: non idealizzo più gli esseri umani. I bipedi sono quelli che sono: infidi, inaffidabili, pusillanimi, rancorosi. Gli italiani sono nella norma, i meridionali l'eccezione in peggio. Ecco perché tutto è relativo. Pessimismo? Realismo. Non mi «piace» Tony Blair. L'inglese desta solamente la mia attenzione. Cerco di tenermi fuori del provincialismo della politica italiana, che attacca le nari con le sue zaffate di semplicismo. Mentre il mondo impazzisce, noi ci limitiamo a discutere su Bossi e le sue canagliate. E gli diamo sulla voce contrapponendo alle carnevalate della Lega del Nord le pulcinellate delle leghuzze del Sud. Quanta superficialità. Nella mia Puglia c'è Cito, in Campania tornano a galla i borbonici che invitano autarchicamente a «comprare prodotti del Sud», in Calabria dicono che stanno preparando l'alzamiento (ma non sento i rumori: colpa dei soliti mass-media in mano al Potere) e in Sicilia si sa cosa avviene: la vecchia DC è risorta come Lazzaro.

Tony Blair ha avanzato una teoria: come distribuire la ricchezza. È l'unico politico dell'«Europa che conta» a porre un simile problema. O non è questo, uno dei problemi vitali per l'uomo? Non richiama l'antica e mai risolta problematica sul possesso dei mezzi di produzione? O gente, è vero che non si vive di solo pane ma il frutto del grano ti mantiene in vita. Ricordarsi: primum vivere deinde philosophari. Mentre tutte le «teste d'uovo» danno per scontato l'irreversibilità del mondo (cioè il povero ha un'unica chance per rifarsi: diventare ricco) Blair disegna un'alternativa. Non devo prestargli attenzione? O devo perder tempo a masturbarmi il cervello inventando compagnie di ventura che lottano «titanicamente» per conseguire striminzite percentuali elettorali con le quali tentare di sedersi su uno degli scranni della politica politicante? Ma dove e quando ho scritto che mi piace Veltroni? Che c'entra il visceralismo antiamericano? Premesso che le viscere mi servono per fare altro, dirò che io sono culturalmente antiamericano. Questo, però, non m'impedisce di tollerare chi vede nel mito dell'America e nel kennedismo quella «nuova frontiera» che tanto male ha fatto e fa nel mondo. È un'opinione che non condivido ma la lascio professare. Qui sta l'«incoerenza» con la mia storia.

Ho capito col passare del tempo che «credere, obbedire, combattere» è una grande sciocchezza propalata per verità da chi vuole irreggimentare l'universo mondo per fare il suo porco comodo. Se si pensa in tal guisa si da valore alla recisione di «quel» cordone ombelicale. La nostra giovinezza è stata avvelenata da un «credo» che doveva essere totalitario, che doveva produrre una «visione del mondo» unica, uniforme, univoca, unilaterale, unidimensionale, unidirezionale. L'«uno» contro i miliardi di esseri umani che con le loro singole specificità popolano il globo terracqueo. Quel cordone andava tagliato per riprendersi il diritto alla vita in libertà e perché quel «credo» non aveva retto alla verifica della storia. La cesura però non avveniva soltanto strappando una tessera; essa comportava la revisione d'un sistema di pensiero che non è avvenuta se si legge quanto si scrive. Qui c'è incoerenza e contraddizione.

Se qualcuno pensava di far di "Tabularasa" un foglio d'ordini «leghista» si sbagliava per quanto mi attiene. Questa rivista circola e arriva su tavoli «importanti». Non uccidiamola facendone strumento di egoismo elettoralistico o, peggio, campanilistico. I suoi lettori hanno fatto scelte che sono comuni a quelle dei redattori e differiscono da esse. Va a destra, a sinistra e pure al centro. Ciò mi consta e, se non sbaglio, la libertà è anche questa. Il nemico è l'univocità, l'imposizione di una lettura «forzata» dei fenomeni umani. Il nemico è Internet, il cui circuito è stato diffuso dagli americani, che in fatto di libertà riconoscono solo quella di una parte di loro. Come si vede, continuo ad avere il mio nemico (senza virgolette), fatto che mi mantiene viva la volontà, quella stessa che mi porta a prestare attenzione a tutto quello che si dice sulla storia che ha coinvolto la mia vita politica.

E quando il «detto» viene dalla parte che ho combattuto, le orecchie si fanno più attente. Perché non è con le demonizzazioni dell'«altro» che si risolvono i problemi. Un esempio: Luciano Violante (sempre lui) ha affermato su "La Stampa" d'essersi sbagliato all'epoca a difendere il compromesso storico. Valiani, Tamburrano, Galli sono insorti. Hanno sentenziato: sono dichiarazioni tardive. Tardive, capite? Allora come fare? Se ti accorgi dell'errore e stai zitto, ci sarà qualcuno che t'imputerà d'aver coperto le nefandezze col silenzio. Riguardi il tuo passato? Ci sarà qualcun altro a dirti che sei un uomo finito, preda della pigrizia, della debolezza e della tristezza che ti portano ad avere innegabilmente le mani in alto. Arreso. Non è così. Non è assolutamente così. E, men che meno, lo è per chi ancora combatte, va ancora sulle piazze, parla alla gente, fa a cazzotti (qualche volta non in senso figurato) con i vermi a due zampe che popolano il creato. Non è così quando il sangue continua a circolare. Senza alcuna autocommiserazione. "Esuli in patria" è un titolo preso a prestito da un libro di Marco Tarchi che parla della «nostra» storia. Quella storia per la quale non mi è stata chiesta alcuna abiura. Sono stato io a dire ai nuovi compagni di viaggio: sapete chi sono e da dove vengo e dove voglio andare lo scoprirò giorno per giorno. Come sensatamente si conviene a chi intraprende un viaggio per l'ignoto. I miei comizi sono sostanzialmente come quelli degli Anni Settanta. Allora c'era chi mi dava del nazional-bolscevico. Oggi c'è chi (spesso, i soliti) mi da del bolscevico. E allora si chiederà: che cosa ci fai nell'Ulivo? Ed io risponderò: l'Ulivo è tante cose e può essere anche nulla. L'essenziale è restare sé stessi ed obbedire alla propria coscienza. L'organicismo politico è una brutta malattia, amici miei. Io ne sono guarito e non mi permetto più di giudicare «ravveduti» o, peggio, traditori coloro i quali nella storia son passati da una parte all'altra in onestà d'intenti. E non perché questo passaggio mi torna comodo per giustificarmi ma perché quando si è inquieti, pieni di incontentabilità spirituale, che vuoi dire anche riconoscere i propri errori, si è portati a far questo. Fidia Gambetti e Romano Bilenchi, Angelo Tasca e Nicola Bombacci, tanto per citarne alcuni, furono fatti segno all'accusa di «ravvedimento». E che dire di Giovanni Gentile, ucciso perché non accettava la logica della guerra civile? Sono accostamenti che faccio in ginocchio, davanti a questi uomini che hanno fatto la storia: non vorrei che qualcuno mi accusasse di megalomania. No, non convincerò mai un giovane che è necessario un lavacro di sangue e di lacrime per ristabilire un nuovo equilibrio nel mondo. Mi ribello e urlo contro questo frasario. L'istigazione all'odio non è un reato: è un peccato. Con me l'hanno commesso. Io ho patito. Noi, tutti quelli che eravamo giovani allora, abbiamo sofferto e delle nostre lacrime, dei nostri patimenti, delle nostre sofferenze si sono giovati laidi pipistrelli, nutritisi del nostro sangue. La nostra emorragia è stata trasfusione della loro linfa vitale.

I cattivi maestri? Non muovo attacchi personali, che ho rispetto del dolore degli uomini. Però sollevo eccezioni storico-politiche. Chi sa e non parla, chi è stato travolto dalla furia della storia, ne ha avuto la vita mutilata e la libertà incatenata e non sente il bisogno di parlare su quel che fu come naturale e umana esigenza di giusta vendetta (giacché la giustizia giusta non appartiene al mondo degli umani) non impartisce sani insegnamenti alle giovani generazioni. La reticenza è uno dei mali del nostro popolo. L'omertà è la sua degenerazione. In politica sono «valori» forti e fondanti. Come possiamo pretendere che i giovani s'innamorino della politica? La prima vittima della politica è la verità. Il Novecento italiano, fra le tante tragedie prodotte, ha creato un'idea della politica sinonimica della sporcizia morale. La droga, il terrorismo, la discoteca, l'impotenza, il frastuono, il suicidio sono effetti. Non sono cause. E questo pattume, lo si vuoi nettare con un lavacro di sangue e di lacrime? Un altro? No, decisamente no.

C'è un «passaggio» di Carlo Mazzantini in quel libro meraviglioso ch'è "A cercar la bella morte". C'è scritto: «Che c'entravamo noi con le loro porcherie? Non ne avevamo alcuna responsabilità, noi! Noi avevamo diciotto anni, e anche diciassette, e anche sedici!». E il grido tragico di una generazione mandata al macello, come sempre s'è fatto nel corso dei secoli. Questa è l'Italia che non ha potuto unificarsi sotto un potere laico per colpa della Chiesa che aizzò i Comuni contro il Barbarossa e poi contro suo nipote Federico II. La Chiesa, questo tempio infestato dai mercanti, soffiò sugli intrighi delle Signorie, che non seppero fare altro che appoggiarsi alle picche straniere, le quali avevano interesse a tenere questo stivale di terra scucito e sdrucito. La coscienza civile non crebbe e i sudditi non diventarono mai cittadini. Soprattutto perché ciò faceva comodo: sottraeva le moltitudini ai doveri e frenava la richiesta dei diritti.

Di questi concetti non abbiamo contezza. Non vogliamo averla. Siamo disfattisti in eccesso oppure sfociamo nella retorica più bieca. Ci siamo ciclicamente scannati e la nostra generazione ha ancora carni e anime piagate. Dal sangue dei padri e dei figli è nata un'Italia dedita all'affarismo, al mercimonio e alla locupletazione ingiusta. Se il risultato di tal sistema di procedere è questo, il processo è sbagliato perché non regge alla verifica della storia.

Allora bisogna esplorare altre strade. Siamo ancora da «educare». Ma l'educazione non si ottiene con la violenza. Era Bucharin a pensare che «la fucilazione è il sistema per rifare la gente vecchia». Com'è finito il «pupillo della Rivoluzione», lo sappiamo. Quale fine abbia fatto quella rivoluzione, pure. Le scorciatoie del tempo portano al baratro e a pagare è sempre la povera gente. Bisogna lasciar scorrere il tempo. Ci vuole pazienza. Non saremo noi a veder quei risultati che auspichiamo ma dovremo essere noi a gettare il seme. Parlare, agire, dare esempi, senza roboanza, senza arroganza, con umiltà e morigeratezza, trasgredendo a tutto ciò che vuole essere divisione, lacerazione, scissione.

Mi permetto di ricordare alcune parole di Niccolai: «È il punto più alto della nostra finora incompiuta missione. Il punto più spettacolare. Se questo è il tempo dell'immagine, il Progetto della ricomposizione storica degli Italiani, onde proiettare nel mondo un'Italia unita, forte, libera, con un suo destino; la sola che possa fronteggiare, nel lavoro, la competizione mondiale; questa è la "missione" forte da dare e da affidare alle giovani generazioni, ai nostri ragazzi. Non la fazione, non la setta, non i rancori, non gli odi, dietro ai quali i Popoli si perdono».

Io ho archiviato il mio passato, ma le sue «cartelle» mi servono per vivere il presente e dare una mano a costruire il futuro. Costruire, appunto. Che è diverso dal distruggere.

Vito Errico

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