«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 5 - 31 Agosto 1996

 

I consiglieri del principe
 

Da qualche tempo è possibile scorgere qualche inquietudine in più tra chi sta al centro dei rapporti tra l'intellighenzia in senso lato e lo scenario ipercomunicativo ed estetizzante che lega società, politica e spettacolo.

Si tratta di umori e di analisi che -anche in termini poliedrici- fanno comparsa nelle osservazioni di chi a suo tempo non ha lesinato il suo tributo alle ragioni del business culturale ed accademico, prestando volto e voce al presenzialismo a tutto campo.

"Il Corriere della Sera" del 30 luglio, ad esempio, ha ospitato un articolo sulle ultime posizioni di Alain Finkielkraut (dal titolo: "No agli intellettuali in affitto"). Leggerlo è utile, perché consente di aggiungere qualche elemento in più per la comprensione della crisi del «paradigma moderno» e, concretamente, per la decifrazione degli umori e dei segni che distinguono il maìtre-à-penser di questo fine secolo, orfano delle grandi ideologie ma pur sempre affamato di carisma e di rivelazioni. Non per nulla Finkielkraut sostiene che «se un tempo c'era il pericolo ideologico, adesso c'è il pericolo di cadere fra i tentacoli della piovra dello spettacolo». «Molti chierici vogliono diventare consiglieri del Principe», irrobustendo «la folla degli intellettuali buoni per tutte le stagioni».

La caduta dei miti dottrinali nella coscienza dei governati, e cioè il passaggio dalla politica degli ideali alla politica come sintesi «alta» dei meccanismi e dei procedimenti amministrativi, ha sovvertito tutte le figure che comparivano nel panorama collettivo di questo secolo. Se, prima, si riteneva di dover dare alla Storia una direzione attraverso una volontà che si nutriva di miti e di progetti, oggi lo status quo riversa sulle situazioni consolidate il suo potere di appagamento culturale a buon mercato. Considerando il traguardo assoluto teorizzato da chi è organico al sistema liberale ed è ben contento del preteso esaurimento di ogni spinta verso una alternativa reale alla globalizzazione ed all'edonismo di massa (suo stretto correlato) le identità a rischio comprendono, quindi, anche quella intellettuale: una figura, per quanto intrinsecamente non poche volte ambigua, che è destinata a fungere -così continuando- da laudatore dei fasti tecnologici e democratici, in perenne stato di indignazione buonista per le contraddizioni di un meccanismo che non sa e non vuole debitamente denunciare.

Non a caso, con annotazioni illuminanti, J. F. Lyotard ha a suo tempo esaminato il sottile e condizionante fattore di base del potere capitalistico: il sistema «si autoprogramma come una macchina intelligente», e gli elementi sociali e politici che potrebbero metterlo in crisi vengono sublimati ed assorbiti alla stregua di «riaggiustamenti interni» destinati a migliorare la vita (cfr. "La condizione post-moderna", edito in Italia da Feltrinelli, e per la prima volta in Francia nel 1979).

 

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Se tutto cade nell'usabilità, nella funzione di utilizzo e controllo da parte di chi detiene le chiavi della potenza finanziaria, dell'hardware e del software tecnico-politici, dei dati che fondano la stabilità e l'ontologia stessa dell'assetto sociale ed economico del quale ci consideriamo antagonisti - dinanzi a questo funestato scorcio storico la Sinistra svolge a tutt'oggi una funzione notarile e passiva.

A parte la folla degli esegeti moderati ed addomesticati della Sinistra labour e compromissuale che in Italia è al governo (dei quali non è il caso neppure di far cenno), le frazioni intellettuali che hanno una più approfondita cognizione dell'implosione della modernità hanno steso su di sé un velo fra il mondo effettuale ed il proprio «sistema di simboli». Ed ecco, così, che personaggi un tempo punte di diamante della contestazione più accesa e militante, come quella del Settantasette, si sono immersi in una nicchia, in un punto di fuga a cui fanno caso cognizioni ed espressioni tutt'altro che vuote, ma politicamente inspendibili. Sovvengono i ricordi personali di intelligenze di avverso campo, come Franco «Bifo» Berardi, di recente ospite del Museo di Arte Contemporanea di Prato, dove ha parlato su "La città deterritorializzata"; una conferenza dialetticamente brillante ed ineccepibile, con una stimolante analisi della «crisi sociale delle identità messa in moto dalla modernizzazione capitalistica» ma con una ben poco incoraggiante sintesi di chiusura peraltro sollecitata da uno spettatore: la disperazione come approdo della dissolvenza delle forme di vita pre-metropolitane, dell'«informazione infinita» e dell'«impossibilità delle decisioni».

 

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La congiuntura generale, su questo versante, si configura come elemento di base su cui allignano e germogliano i semi d'un pensiero impotente, che riflette sui limiti che lo strutturano e che si compiace della «crisi», ma raggelandosi nella ricerca di un qualcosa che vada oltre. O che ricade nei soliti accomodamenti illuminati, squisitamente borghesi, volendo ridurre «l'influenza della televisione nella vita dei bambini» (ved. K. Popper e J. Condry, "Cattiva maestra televisione", Donzelli ed. 1994), ed escogitando, a fronte di un universo multiculturale che va sincopando e sfugge ad ogni controllo -anche legale- un «patentino» per fare TV.

Queste sono le potenzialità assiologiche che il vivaio universitario e salottiero che negli States, Oltr'Alpe, in Italia mette in mostra: dall'Ur-Fascismo dell'imperituro Eco alle brutali polemiche contro R. Garaudy e l'Abbé Pierre. È il passa-parola perbenista dell'establishment che, in certi momenti, estrae dalle Quæstiones forbite tutta la sua animosa arroganza.

Mancherebbe dell'opportuna consapevolezza di certe regole chi non pensasse, d'altronde, che l'invenzione letteraria, il mito della scrittura, la «ricerca sofferta», sono altrettante fonti di reddito che aggiungono alla notorietà un senso molto profano e calcolato della vita sociale. Per non dimenticare il giogo familistico e la libera concorrenza delle Vestali della cultura (rigorosamente democratica, si sottintende).

 

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C'è, insomma, qualche prospettiva in rilievo, qualche speranza di disinnescare la crisi ed aprire il capitolo dei cambiamenti?

Dagli intellettuali snob, siano essi estimatori alla moda dell'Heidegger più noir, neo-convertiti (o neo-convertitori) alla Vattimo, irriducibili cantori dell'Iperuranio egualitario e progressista alla Flores d'Arcais, questa pretesa potrà anche provenire. E tra la presunzione potrà anche emergere qualche interrogativo non insincero, forse.

Ma il percorso sin qui punteggiato e storicamente misurato è quello di una prassi che ha tentato e tenta tuttora l'offuscamento dei nostri Valori, delle idee-guida con le quali si esprime l'opposizione al Credo ed alla Macchina della produttività, del profitto, dell'edonismo. Ed è da questa opzione senza infingimenti, da questo proprium che va accettata la sfida del dover scegliere. Lo sviluppo verso il quale ci si muove brandisce un'insidia, ed è quella che porta a diluire e rendere incolori le voci che sfuggono alla imperatività di chi comanda. Assorbendo o strumentalizzando le alterità la sceneggiata avvolge con i madrigali i suoi nemici, li trascina tra le comparse, dedica loro indulgenza e rescritti. È una trama smaliziata cinica, che non muore e si dissimula. Pronta a bollare d'infamia chi non ci sta. Cosa penseranno davvero, al Corriere della Sera!

Roberto Platania

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