«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 5 - 31 Agosto 1996

 

gli olocausti sconosciuti

A proposito della gazzarra dei giudei romani
I crimini degli «intoccabili»
 

«Stavo scoprendo infatti che, certo, c'era stato l'Olocausto, e i tedeschi avevano ucciso gli ebrei; ma in seguito era stata compiuta un'altra atrocità, tenuta nascosta dai suoi responsabili: alcuni ebrei avevano ucciso dei tedeschi. Dio sa se gli ebrei erano stati provocati, ma io scoprii che nel 1945 uccisero un gran numero di tedeschi: e non si trattava di nazisti, né di sicari di Hitler, ma di civili, uomini, donne, bambini neonati, il cui unico crimine era di essere tedeschi».

«"Sono il capitano Morel", cominciò Shlomo. "Ho ventisei anni e sono ebreo". Ogni notte, a marzo e aprile, Shlomo piombava nelle baracche brune, ma la popolazione aumentava man mano che arrivavano tram e camion pieni di tedeschi, per lo più provenienti da Gleiwitz. Le celle si riempivano e presto ogni branda ebbe due, tre o quattro occupanti, costretti a stare distesi testa a piedi. In ogni castello c'erano tre brande, in ogni stanza ventuno castelli, e in ogni baracca due stanze piene come un uovo; gli altri stavano sul pavimento, cosicché nelle baracche brune si trovavano ora almeno seicento persone. Con la migliore volontà del mondo, le guardie non potevano punirne più di una decina per notte, e Shlomo, per avere aiuto, organizzò una festa per l'Ufficio per la sicurezza dello Stato. Invitò venti ragazzi, per metà cattolici e per metà ebrei. Gli ospiti arrivarono alla casa di Shlomo, appena fuori i reticolati, al tramonto di un venerdì. Shlomo servì salsicce con una vera e propria tinozza di vodka, che gli ospiti tracannarono, e raccontò storielle yiddish. Continuando a bere, gli ospiti uscirono dalla casa di Shlomo. Spalancarono la porta delle baracche brune. Accesero la luce e i tedeschi si alzarono così in fretta che le assi di molte brande si ruppero. Mentre uomini e brande crollavano su quelli che stavano di sotto e i tedeschi urlavano, la serata ebbe inizio. «"Ehi, quello alto!" gridò Shlomo a un uomo alto e biondo. "Steso a terra! E tu spilungone!" gridò a un altro. "Stenditi vicino a lui. Quello alto!" a un altro ancora: «Stenditi vicino a lui!" Non appena i tre furono allineati sul pavimento, Shlomo gridò: "Tu stenditi sopra di loro, per traverso. No!" urlò ancora colpendolo col bastone, "ho detto per traverso!... Tu!" continuò, e andò avanti ad accatastare i tedeschi, tre per dritto, tre per traverso, finché formò un cubo umano così alto che se ne poteva toccare l'estremità superiore con un braccio alzato. "Molto bene!" disse Shlomo alla fine, e i suoi ospiti cominciarono a roteare i bastoni percuotendo il cubo come se fossero dei cacciatori e gli altri un branco di foche canadesi. L'aria era piena dei grugniti degli ospiti di Shlomo e dei tonfi del legno sulle ossa. Negli strati alti, i tedeschi gridavano "Bitte! Per favore!" Quelli che stavano negli strati di mezzo si lamentavano, ma quelli degli strati bassi non parlavano, perché il peso di due dozzine di uomini sopra di loro gli aveva fatto uscire le viscere e stavano morendo. "Maiali!" gridava il gruppo degli ospiti, continuando a martellare con forza, ma Shlomo stava appoggiato a una branda, e guardava e rideva come un meshugannet, un pazzo, il suo nome in codice quando era coi partigiani ebrei. «Ad Auschwitz, era vietato alle SS colpire gli ebrei per il solo gusto di farlo, e chi lo faceva poteva finire in prigione: qualche volta ciò accadeva davvero».

«Le guardie chiudevano i tedeschi in un canile, e li bastonavano se non facevano "bau-bau". Ordinavano ai tedeschi di picchiarsi gli uni con gli altri, di saltarsi sulla spina dorsale, di prendersi a pugni sul naso; e quando un tedesco tirava un pugno, subito la guardia gli diceva: "Adesso ti faccio vedere come si fa", e lo colpiva con tanta forza che una volta, a uno, schizzò fuori un occhio di vetro. Le guardie violentavano le donne tedesche -una, che aveva tredici anni, rimase incinta- e addestravano i cani a strappare a morsi i testicoli degli uomini, all'ordine di "sic". E ne restavano ancora 3000: Shlomo li odiava più di quanto non li avesse odiati a febbraio, li odiava perché non si decidevano a morire. «In poco tempo, morirono tre quarti dei tedeschi del campo di Shlomo, che potè annunciare: "Quello che i tedeschi non hanno fatto in cinque anni ad Auschwitz, l'ho fatto in cinque mesi a Schwientochlowitz".

«"Maiali!" urlavano gli ebrei, frustando i tedeschi, e ogni giorno ne moriva un centinaio. A Grottkau i prigionieri venivano seppelliti in sacchi per le patate, ma a Hohensalza venivano fatti entrare nelle casse da morto dove li finiva il comandante. A Blechhammer il comandante ebreo si rifiutava persino di guardare i tedeschi ed essi morivano senza che nessuno li contasse. In Polonia o nella Germania sotto amministrazione polacca lo stato di "sospetto" non era sufficiente a garantire l'assoluzione di un tedesco. In quel vasto territorio, l'Ufficio per la sicurezza dello Stato gestì 1255 campi per tedeschi, e praticamente in ognuno di essi morì dal venti al cinquanta per cento dei prigionieri. «In uno dei campi di concentramento di Chaim, in Slesia, c'era un neonato, e in un campo dalle parti del mar Baltico c'era un'intera baracca di culle listate di bianco e di prigionieri del peso di quattro chili. Non avevano latte, perché il medico con i capelli rossi, un ebreo, non faceva entrare le madri e diceva agli ispettori polacchi: "È sufficiente che dai miei documenti risulti che l'ho fatto". Dei cinquanta bambini che si trovavano lì, ne morirono quarantotto».

«Il capo della polizia, un ebreo così piccolo di statura che, per mostrare che era un colonnello, portava le tre stelle d'argento sulle spalline e sul colletto, ordinò ai suoi ragazzi di spazzare via i tedeschi e di trasferirli negli affollati campi di concentramento di Chaim. Il vice comandante era un ragazzo coi baffetti alla Hitler che una volta disse: "Devo uccidere tanti tedeschi quanti sono i capelli che ho in testa". Nei tre anni seguenti, ne sarebbero morti da sessantamila a ottantamila, nelle prigioni dell'Ufficio, un numero superiore a quello degli ebrei morti a Belsen o a Buchenwald o in uno dei tanti posti di cui ora gli ebrei di tutto il mondo dicevano: "Non dimenticheremo mai"».

«Il gruppo non uccise tutti e mille i prigionieri di Bielitz quel giorno stesso. Li chiamavano uno per uno nella stanza del pianoforte, prendevano loro il pane, il burro, il formaggio, le mutande di ricambio, le camicie, le gonne, le fasce dei bambini, gettavano tutto in un angolo, e dicevano loro: "Heraus!" "Per favore" disse una donna, "posso prendere i vestiti del mio bambino?» Ma Czeslaw puntò la pistola contro il bambino gridando: "Ich schiesse! Adesso gli sparo!" e il suo vice spinse fuori la donna a calci, e Czeslaw le lanciò dietro il bambino.».

«Quella sera i tedeschi rimasero nelle baracche a cucire sui vestiti la W per wiezien, prigioniero o wiezniarka, prigioniera, e il giorno dopo il gruppo cominciò a ucciderli. E quanta inventiva mettevano nel farlo! Czeslaw saltava loro sulla gola con i piedi, e un giorno disse a un tedesco di arrampicarsi su un albero e gridare: "Io sono una scimmia!"; quando il tedesco obbedì, estrasse la pistola e lo uccise. Anche il suo vice sparava ai tedeschi ("Oggi ne ho uccisi quattordici"); una volta chiese a un prigioniero: "Tu lo sai come mi chiamo?" "No, signor comandante!" "Mi chiamo Ignaz!" disse il vicecomandante, e gli abbattè la sciabola sulla testa».

«Ogni giorno, la lista dei morti veniva portata a Czeslaw che immancabilmente commentava: "Perché così pochi?" In breve, quasi tutti i tedeschi di Bielitz furono morti. Come se non bastasse, la polizia svuotò Arnsdorf, Bauersdorf, e altre tre dozzine di villaggi e ne mandò gli abitanti al campo di Czeslaw. Le più sventurate furono le donne di Griiben. Durante la guerra, le SS avevano seppellito dei polacchi in un vasto campo vicino a Lamsdorf, cinquecento cadaveri: ma Czeslaw aveva sentito dire che erano novantamila, e aveva ordinato alle donne di Griiben di dissotterrarli. Le prigioniere obbedirono, e furono assalite da attacchi di nausea man mano che apparivano i corpi, neri come la feccia di un canale di scolo. I volti erano putrefatti, la carne un'impasto colloso, ma le guardie -che spesso si erano comportate da psicopatici costringendo le tedesche a bere orina e sangue o a mangiare escrementi umani, o inserendo nella loro vagina una banconota da dieci marchi intrisa di benzina per poi accostarvi un fiammifero acceso- ordinarono: "Stendetevi vicino a loro!" Le donne obbedirono e le guardie presero a urlare: "Abbracciateli!" "Baciateli" "Fate l'amore con loro!" Con i fucili, spingevano la testa delle donne finché i loro occhi, il naso, la bocca affondavano nel marciume dei volti dei polacchi. Sputando e vomitando, finalmente si alzarono in piedi, con i residui putrefatti ancora sul mento, sulle dita, sui vestiti; mentre tornavano inquadrate a Lamsdorf, il liquame filtrava nelle vesti e il fetore stagnava intorno come nebbia. Non c'erano docce, e i cadaveri, a quanto pare, erano tutti di persone morte di tifo: sessantaquattro donne di Griiben morirono».

«Czeslaw andava al circolo ebraico, si metteva a sedere e raccontava i modi atroci con cui aveva ucciso i tedeschi quella settimana. Gli ebrei non avrebbero certo pianto anche se tutti i contadini di Lamsdorf fossero morti, ma di fatto quasi il venti per cento dei tedeschi che stavano lì -1576 degli 8064 uomini, donne e bambini- riuscirono a sopravvivere.»

 

 John Sack

brani tratti dal libro "Occhio per occhio", Baldini & Castoldi, Milano, 1995

 

«Non sono uno studioso della Bibbia, ma frequentavo la scuola del sabato (fui valutato "il più religioso") e so che la Torah ci dice di rendere una testimonianza onesta; ci dice, in realtà, che se qualcuno pecca e noi lo sappiamo ma non lo riferiamo, siamo colpevoli anche noi».

(dalla prefazione dello scrittore)

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