«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 5 - 31 Agosto 1996

 

Contro i «ravvedimenti» possibili noi scommettiamo sull'utopia
 

Non mi piace far polemica: almeno che essa non assuma i caratteri forti della rissa. Con sberle incluse. Non risponderò, quindi, alle illazioni di Vito Errico. D'altronde c'è chi sceglie di avere come amici i magistrati e chi invece è «scelto» da costoro come oggetto di cure particolari. E non mi si parli di «bocche cucite»... Ad ognuno il suo, dunque. A me l'ammirazione per Bobby Sands ad Errico quella per Tony Blair.

Niente polemiche. E, soprattutto, niente più uomini «di penna e d'intelletto» che sparano scempiaggini del tipo «la complessità del vivere moderno ha eliminato la comodità del nemico». Pietà! Io che non ragiono «sensatamente», io che rifiuto di ragionare «sensatamente», io che non ho alcuna intenzione di arrendermi, io che non so cosa voglia significare l'autocommiserazione del sentirsi «esule in patria», io che ho sempre fatto a cuor leggero le mie scelte di lotta pagandone il «giusto» pedaggio di libertà, io dico a tutti coloro che ieri -atteggiandosi a «rivoluzionali»- si bruciavano le chiappe accanto al focolare domestico e che oggi -divenuti «politici»- vorrebbero venirci a dare lezioni di «buonismo» avendo la presunzione di spiegarci che è tempo di fare posto al «possibile» e di dimenticare l'«improbabile», io dico di togliersi di torno.

E dico, invece, a chi di «ravvedimento» non vuole intendere, che è tempo di riscoprire l'odio. Il sano odio che sa sempre coniugarsi con l'amore. Chi ricorda la ballata di Leo Valeriano "Amici di una festa"? Mi piace richiamare le parole del refrain: «Odia il tuo nemico / non perdonarlo mai; / brucia nei tuoi giorni questo folle tentativo / d'insegnare l'odio a chi non sa». Certo è tempo di riprendere la lotta consapevoli che «deve esserci un mito, una passione, una speranza, un'illusione... a dare le coordinate per l'agire di tutti i giorni».

Certo, io aggiungo -sintonizzandomi con il mio amico Hæreticus- che dobbiamo tornare a scommettere sull'utopia. Un socialismo che non c'è per un Popolo (sì, con la maiuscola) che non c'è? Certamente.

E da una parte il «possibile» costituito da superministeri occupati dagli uomini della Banka e da apparati controllati dagli uomini della Nomenklatura. E da tanti -troppi- magistrati variamente allocati nei piani alti del Palazzo. Persino su «autodesignazione».

Dall'altra l'«improbabile» rappresentato da chi vuole ricostituire il Popolo educandolo, guidandolo, rappresentandolo. Ridandogli, insomma, la sua identità. È un compito da eretici e non da ortodossi. Da poeti e non da scriba. Da combattenti e non da pantofolai. Da sognatori e non da virtuosi interpreti della Realpolitik. E gli intellettuali, allora? Lasciamoli al loro ruminio di impotenti, di servi da sempre nella lista paga delle cosche vincenti. «Ogni qualvolta si rischiava e l'adrenalina incalzava forte, l'Hæreticus si è guardato intorno e gli intellettuali non c'erano». Latitavano. Erano, comunque, altrove. Intenti a servire o -i più audaci- a formulare «ipotesi di lavoro».

Noi -eretici, poeti e sognatori-, noi che non abbiamo mode da imporre, che non abbiamo trends da proporre, che non ci approvvigioniamo nel supermercato del Nulla, dobbiamo riscoprire e riaffermare le culture popolari -le culture «negate»- e collocarle al centro di un processo rivoluzionario antropologico. Noi che ce ne freghiamo del potere, la cui gestione lasciamo tutta intera agli integrati della regulation, dobbiamo riprendere la lotta e trasformarci in avanguardia di Popolo.

Iniziando a ridisegnare -contro ogni «buonismo»- il volto del nemico. E costruendo, quindi, l'azione. Un'azione che ha nome: utopia. Un'utopia che potrebbe coincidere con il passaggio dall'«umanesimo del lavoro» all'«umanesimo dell'ozio», inteso come liberazione dell'uomo -e del Popolo- dal lavoro che «calvinisticamente» lo rende schiavo. Del denaro, della banca, dell'usura.

Oppure potrebbe essere costituita dalla totalità sociale del «dono», dalla sua «circolante» del dare, del ricevere, del restituire. Od ancora dalla ribellione contro l'economia «sociale» del mercato. O non forse da una Costituente di Popolo che operi infine per realizzare la Federazione delle Comunità Popolari?

Utopia come sogno, come scommessa, come azione. Utopia come credo immaginifico per cui anche esteticamente valga la pena di combattere. Stravolgendo le «profezie» gramsciane e riformando lo stesso concetto di cultura e, dunque, di potere culturale. Spazi culturali e cultura di potere. Cultura e potere. Potere e governo. Roba da filosofia della politica.

E che cosa ha a che fare tutto ciò con l'uomo, con la Comunità, con il Popolo? Che gli dei ci salvino dai vaniloqui dei filosofi. «Ogni filosofia è filosofia da proscenio»: la verità, infatti, non è qualcosa da riconoscere ma da creare. Al di là e contro ogni recita. E nel rifiuto di ogni nesso di casualità. Ciò che «loro» chiamano «causa» ed «effetto» lascia fuori la lotta e non corrisponde, quindi, alla vita. Noi, invece, non accettiamo più di misurare il valore dell'azione in base alle sue conseguenze; e neanche più in base all'intenzione. Per questo azione ed utopia coincidono. E per questo noi scommettiamo ancora una volta sull'utopia; e riprendiamo la lotta.

Io attendo che le «provocazioni» dell'Hæreticus vengano raccolte e vengano tradotte in un progetto capace di offrire al Popolo la voglia e la capacità di ricostituirsi e di lottare. Un'utopia, appunto. E come tale fondante.

Paolo Signorelli

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