«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

gli uomini

Il grande saggista di Cesena morì sul Podgora il 12 luglio 1915
Renato Serra, il letterato pigro
 

Il 12 luglio del 1915, Renato Serra è in trincea davanti al Podgora. È caduta parecchia pioggia, i suoi piedi sprofondano nel fango, ha caldo, non sta bene. Si sdraia per terra, ma non è un giaciglio di foglie tenere quello che lo accoglie: ci sono passati sopra i soldati e gli scarponi lo hanno schiacciato e pestato. Serra, che è un innamorato della natura e forse pensa a passeggiate e pedalate nel sole, in mezzo al verde della sua Romagna, sopra prati freschi di erba tenera, «erba per camminarci a piedi scalzi e per dormire distesi, fra il silenzio e il cielo».

È lontana Cesena. E le immagini del suo lavoro alla Malatestiana, nelle quali la memoria va a tuffarsi per rammentargli che è uno scrittore, appaiono quasi irreali. Meglio i ricordi delle corse in bicicletta, libero, nel vento; o di quando, a furia di robuste pedalate, arriva fino a Firenze, per far visita agli amici vociani e andare insieme al caffè a discutere di letteratura. Sì, ma gli era sempre piaciuto di più vivere che scrivere. E, in ogni caso, più leggere che scrivere. Tanto è vero che si arrabbiava con la gente che «non sapeva nulla», che non leggeva mai, che «non sapeva che gli uomini avevano già scritto tutto quello che c'era da dire». E allora ruggiva: «Val meglio leggere un libro buono che scriverne cento cattivi».

A lui vedere il suo nome stampato sui libri non è che interessasse più di tanto. Preferiva godersi il variare delle stagioni, seguire una nuvola, fare qualche vigorosa nuotata. O magari imbarcarsi in una pericolosa storia d'amore perché, dopo che aveva scoperto di piacere alle donne anche grazie al suo corpo d'atleta, di avventure ne aveva vissute, eccome! Anche con donne sposate, naturalmente. E gli era rimasto ben marcato in testa quel giorno in cui, proprio mentre se ne stava andando verso la Biblioteca, un marito tradito, o forse soltanto infastidito dai troppi pettegolezzi, gli aveva sparato due colpi di pistola. Uno gli aveva spezzato il braccio sinistro, un altro si era bloccato contro il borsellino pieno di monete nel gilè, mentre una randellata gli si era abbattuta sull'orecchio.

Intanto, una gran fioritura di bombe, i plotoni si stanno preparando per l'avanzata. Il 19 luglio comincia l'attacco. Serra verga gli ultimi appunti: «Che cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza: triste - Si fa sera, tra le nuvole e la luce fresca».

Un ultimo sguardo al cielo. Il giorno dopo deve andare all'assalto con la sua Compagnia. Ma c'è tempo per una piccola sosta, in quell'aspro terreno del Carso, dietro una specie di duna. I soldati hanno bisogno di riprender fiato. Il tenente Serra vuol dare uno sguardo al di sopra del riparo, vuol rendersi conto della situazione. Solleva la testa, ed ecco che uno dei suoi soldati lo esorta: «Si abbassi, signor tenente, si abbassi!». Ma Serra non sta a sentire! È ai suoi soldati che deve badare, è di loro che deve preoccuparsi. Non a caso, nell'Esame di coscienza di un letterato, ha scritto: «Non c'è tempo per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c'è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti. Andare insieme».

Nelle ultime pagine della bella biografia che Viola Talentoni ha dedicato allo scrittore ("Vita di Renato Serra", con un saggio introduttivo di Marino Biondi, Edizioni del Girasole), è riportata una lettera che l'amico Gino Giommi scrisse a Renato il 18 luglio e che, pochi giorni dopo, fu restituita al mittente con inchiostrato sopra: «Morto». Giommi chiedeva all'amico di non esporsi, di non essere troppo fatalista, di prendere mille precauzioni: doveva salvarsi, perché c'era tanta gente che aspettava da lui «un mondo di cose» che solo lui «poteva dare, dopo la guerra».

Ma forse era proprio il destino a volere che Serra si immolasse per quell'idea dell'uomo e dell'intellettuale che lui si era portato dietro. Un'idea forte, anche se Renato le sue debolezze le aveva: perché era pigro, spesso inconcludente. Se i baldanzosi vociani, con la loro sete di rivoltare come un guanto un'Italia che non amavano, insistevano troppo perché collaborasse a quella o a quell'altra iniziativa, Serra inforcava la bici e andava a cercare da qualche parte lo spicchio di cielo che lo appagava, lasciando che gli umori della primavera gli imbevessero il cuore.

Ma l'idea forte, dicevamo, ce l'aveva, lui che, quando entrava in confidenza con un amico, gli confessava: «Quel che è più leggero in me, mi pesa». Di «pesantezza» e di «leggerezza» aveva vissuto: e in fondo sta proprio in questa ambivalenza la chiave di lettura di un'esistenza che la Talentoni propone. Era intellettualmente onesto come pochi; come pochi, era animato da un sentimento morale che nulla aveva a che fare con il bigottismo becero e taccagno. Era leale. E le contraddizioni? Ce le aveva tutte: generoso e selvatico, orgoglioso e rassegnato, come scrive Biondi, «con il sogno di un avventuriero libero di andare per le strade del mondo», ma attaccatissimo alla sua Cesena e a una Romagna patriottica ma non filistea, appassionata, sanguigna, che aveva sentito pulsare nella prosa di Oriani, in quella retorica tricolore, in fondo così onesta per chi crede davvero. Ma lo finirà mai, Serra, quel meditato, sudatissimo libro su Oriani tante volte promesso?

No, e i progetti lasciati nel cassetto saranno molti di più di quelli portati a termine, magari perché sollecitato da quei toscani polemici e ben determinati nel loro ruolo di educatori che erano Prezzolini e i suoi amici. Ma il carducciano Serra aveva bisogno anche di sogni e di vagabondaggi; ogni tanto doveva sparire o tacere, per poi meglio riscoprire gli altri; e aveva bisogno, allo stesso modo, di battersi per una cultura che rifondasse l'Italia, quasi inventandola, e di dar sfogo a qualche umore bizzarro, a un estro sotterraneo e indefinibile. Quello che lo aveva voluto, nottambulo, a tanti tavoli da gioco e poi lo avrebbe invitato a un appuntamento -estivo, meridiano- feroce con la morte, in trincea. Ma lui aveva già fatto il suo "Esame di coscienza", gli intellettuali dovevano imparare la fatica, il sacrificio, il dolore. La vita, la si scrive vivendo.

Mario Bernardi Guardi
da "il Giornale" del 5 luglio 1996

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