«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

Ma l'Italia non c'è più

 

 

Ci vuole una gran faccia tosta, un misto di superficialità e malafede, per pretendere di spacciare come un fallimento l'Indipendence day consumato dalla Lega lungo le rive del Po, tra Moncalieri e Venezia. Non basta, infatti, una colossale campagna di demonizzazione (prima) e disinformazione (poi) per archiviare la proclamazione della Repubblica padana come l'ennesima patetica sbruffonata del solito Bossi. Fossero stati soltanto alcune migliaia (ed invece erano tanti di più) i militanti accorsi puntuali al richiamo del loro Capo, come pretenderebbero di aver documentato le telecamere di «regime» attraverso abili riprese di dettaglio, ci sarebbe comunque di che riflettere. Non è facile per nessuno sfidare la rampogna dei mass-media, le minacce dei responsabili delle forze di polizia e della magistratura inquirente, i rischi sempre probabili di incidenti, i pressanti inviti alla «riflessione» da parte della Chiesa, fino ai massimi suoi livelli. Un tam tam durato giorni e settimane che certamente avrà dissuaso dal partecipare alle manifestazioni del 15 settembre la stragrande maggioranza del popolo leghista. Il che, ovviamente, non autorizza a ritenere che gli assenti non abbiano apprezzato la kermesse e condiviso la proposta politica che ne è venuta fuori.

Altro che bluff! Un bluff non costringe il Capo dello Stato (in principio prodigo di sermoni ispirati alla più anacronistica retorica patriottarda) ad inviare, nei giorni immediatamente successivi al raduno dei padani, il suo primo «messaggio» alle Camere: ovvero a compiere un atto politico di una qualche rilevanza, non fosse che per l'eccezionalità dello stesso, invitando il Parlamento a non sottovalutare quanto era accaduto e procedere, di conseguenza, sulla strada delle cosiddette riforme. Prima che sia troppo tardi.

Diavolo di un Bossi. Ha sette vite come i gatti. Lo danno per spacciato e trova sempre il modo di riemergere dalle difficoltà, più forte e spregiudicato di prima.

Un bluff? Proclamare davanti ai giornalisti ed alle televisioni di tutto il mondo la costituzione della Repubblica padana; leggere con la dovuta enfasi la Carta dei Diritti; insediare un Governo provvisorio, arruolare la Guardia nazionale, quand'anche disarmata e non violenta... tutto questo può essere considerato utopistico, probabilmente lo è, ma non un bluff. Anche perché alla forza della parola Bossi comincia sapientemente a mescolare simboli, riti, miti, scommettendo sulla loro capacità detonante, in un'epoca a-ideologica, di totale appiattimento ed omologazione.

Che succederà? Forse continuerà lo stop-and-go di Bossi. Un'accelerazione improvvisa ed una brusca frenata (ma mai, si badi, un'inversione di rotta!). Un colpo al cerchio ed uno alla botte. Tuttavia, quel viaggio lungo il «grande fiume», tra esoterismo e politica, ha scavato un solco assai profondo tra la Lega e gli «altri», secondo un'antica legge della politica, amicus-hostis, che si riteneva seppellita per sempre. Da quel giorno le camicie verdi del senatùr hanno certamente molti nemici in più, ma anche delle simpatie, un consenso potenziale, che potrebbe ulteriormente allargarsi, persino a sud del Garigliano. Del resto, può qualche volta accadere che i processi politici travalichino le volontà di coloro che li hanno innescati, assumendo aspetti di radicalità tumultuosa e ricavando energia vitale da una sorta di processo di autocombustione.

Comunque sia, al di là di un eventuale esito destabilizzante del percorso leghista, ancora da verificare, resta il fatto che Bossi è riuscito, da un lato, ad imporre una «questione padana» di cui si possono continuare ad ignorare le coordinate geografiche e storiche, non più quelle economiche e politiche; dall'altro, a compattare contro le sue tesi secessionistiche un arco costituzionale di ritorno, da Rifondazione comunista ad Alleanza nazionale. Ch'era quello che in definitiva si prefiggeva, con buona pace di quanti continuano ancora a sottovalutarlo, considerandolo soltanto un insopportabile rompicoglioni.

C'è un aspetto, in tutta questa vicenda, che stupisce ed indigna: la miopia incredibile dimostrata dai meridionali i quali hanno perso l'occasione di tenersi equidistanti tanto dalle posizioni estreme della Lega, quanto da quello Stato centralista responsabile dell'emarginazione e del degrado che li opprime. In verità, più che il popolo meridionale (che, non avendo ancora alcuna coscienza di sé di fatto non esiste) quell'occasione è stata volutamente lasciata cadere dai tanti, troppi ascari, da intellettuali questuanti e piagnoni, dai falsi moralisti, da politicanti di mestiere e rivoluzionali da salotto i quali, schierandosi sic et sìmpliciter contro la Lega e le sue rivendicazioni, giuste o sbagliate che fossero, hanno per l'ennesima volta pensato ai propri privilegi piuttosto che alla Terra per la quale spendono fiumi di inutili parole.

Tra questi ascari, tra i tanti furbacchioni che con la scusa dell'antimeridionalismo leghista e della minaccia all'unità nazionale han trovato il modo di esorcizzare fantasmi di improbabili sconvolgimenti che metterebbero a rischio la loro possibilità di continuare a vivere di espedienti ed intrallazzi, la loro dignità, si son venduti al migliore offerente. E, quel che è peggio, hanno assestato un colpo difficilmente rimediabile alla credibilità di un progetto politico nel quale si poteva spendere qualche spicciolo di speranza. Succede.

Chi scrive ne ha preso atto, senza per questo cedere alla rassegnazione, ma neppure inseguendo, a tutti i costi, l'idea di «organizzare» un movimento, partito, una qualche struttura. Ai tanti amici, anche di questa rivista, che continuano a scrivere, domandare, spronare, si può rispondere che quando vi sono le idee ma mancano gli uomini (e quelli che restano diventano facilmente preda di tentazioni o ricatti) è a questi ultimi che bisogna provvedere. Il che vuoi dire riconoscere, in piena onestà, che c'è un gran lavoro da fare.

Dunque, il 15 settembre c'erano, in quell'altra metà dell'italico cielo, il solito Cito, garibaldini e neorisorgimentali, bersaglieri ed alpini, combattenti e reduci, neoborbonici, etruschi, magnogreci. Tutti a difendere l'Italia «una ed indivisibile»: da Fini a Bertinotti, da Mastella a Sgarbi, persino Ripa di Meana; ex comunisti, post-fascisti, forzisti, verdi, retini e tanti, tantissimi, cretini.

In definitiva, piaccia o non piaccia, c'era dall'altra parte della barricata, contro la Lega, questa nobilissima compagnia, pomposamente schierata a difésa di uno Stato ridotto a larva di sé stesso, abitato da boiardi, faccendieri senza scrupoli, spregiudicati affaristi, criminali comuni, mafiosi, camorristi, 'ndranghetisti. Non più valori e princìpi morali ne tengono unite le cigolanti giunture istituzionali, ma un collante di fluidi mefitici: la corruzione elevata a regola di vita, l'egoismo, il rampantismo, il denaro, il mercimonio.

Pare che, su proposta del PDS e di AN, la Commissione Affari Costituzionali della Camera abbia approvato l'istituzione, per legge, della «giornata nazionale della bandiera», da tenersi il 7 gennaio di ogni anno, a partire dal prossimo. Il tricolore day come risposta al rischio secessionista.

Nossignori. Non è con queste idiozie che si «rigenera» il tessuto connettivo abbondantemente lacerato di questo nostro Paese. Non con i sermoni, le prediche, le chiacchiere, ma con le opere e gli esempi si potrebbe dimostrare che ancora ha senso dichiararsi e «sentirsi» italiani. Una volta i partiti, d'amore e d'accordo, s'inventarono l'arco costituzionale contro il terrorismo, contro i fascisti. Adesso se lo reinventano contro la Lega e i suoi militanti avendo provveduto a cooptarvi coloro che il fascismo hanno opportunamente e saggiamente rinnegato. L'impressione è che il ceto politico, oggi come ieri, abbia maledettamente paura. E fa bene: dal momento che ha ridotto la cosa pubblica ad affare privato, la politica ad intrallazzo e privilegio, la democrazia a pretesto. Questi commedianti da avanspettacolo si riempiono la bocca della parola «patria» avendola svuotata di ogni significato tanto che la gente, assimila ormai il concetto di Nazione alla nazionale di calcio e se ne rammenta ogni volta che Sacchi dirama l'elenco dei convocati per la partita. Al più la confonde con la sigla del partito berlusconiano. Predicano unità, fanno comizi strappalacrime il 4 novembre e poi raccomandano i loro figli e protetti perché siano esonerati dagli obblighi di leva.

Patria, Italia una ed indivisibile, e tutti -nessuno escluso, tanto a destra come a sinistra- si comportano come scodinzolanti cagnolini al servizio dell'amico-padrone d'oltre oceano. Suvvia, signori, un minimo di sincerità. Non cadiamo nel ridicolo. (Per inciso, se proprio bisogna cercare una data di settembre da associare alla mortificazione della Patria, non si scelga il 15 del '96, ma l'8 del '43 e non si dia la colpa a chi, guarda caso ancora al Nord, proclamava la Repubblica sociale, perché quella era una risposta di dignità ed onore al grande tradimento badogliano!) No! non confondiamo le cause con gli effetti. Non Bossi, né le camicie verdi hanno umiliato l'Italia, ma coloro i quali da cinquant'anni la saccheggiano. Coloro che ne han fatto scempio; che han ceduto un terzo del suo territorio alle organizzazioni criminali; che han costruito ed alimentato stagioni di stragi e di sangue; gli artefici dei grandi ed insoluti misteri, coloro che hanno dilapidato risorse materiali e prosciugato quelle morali e spirituali, passando da una tangente all'altra senza arrossire. Cosa resta, dopo mezzo secolo, della Nazione, dello Stato, delle Istituzioni, della Politica, della Moralità? Ecco la domanda che dovrebbe lacerare fino all'annientamento le coscienze di lorsignori. Altro che pensare di lavarsele il 7 gennaio di ogni anno, chissà perché il giorno dopo la Befana, davanti ad una fanfara, ascoltando l'Inno di Mameli.

Beniamino Donnici

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