«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

Sulla pena di morte
 

Più che i concetti sono talora i termini usati per esprimerli a fuorviarne l'esame e a suscitare disaccordo e polemiche: la pena di morte rientra, a mio avviso, fra i casi di questo genere.

Se per pena s'intende (e non vedo come altrimenti si possa intendere!) punizione o castigo, e se qualcuno si arroga il diritto di comminare, di attuare o di far attuare una simile procedura, che consiste nell'interrompere la vita, cioè provocare la morte del castigando, allora non vi può essere esitazione alcuna: la pena di morte è inaccettabile per almeno tre validissime considerazioni basilari:

1) - dire che la morte è un male (donde l'uso come punizione) presuppone come verità che la vita è un bene, e questa è una affermazione di parte, una opinione; non è certo una verità assoluta ma solo una idea personale del problema;

2) - chi giudica deve essere neppur lontanamente sfiorato da colpa o reato alcuno, non deve avere scheletri nell'armadio;

3) - chi giudica non deve avere legami o condizionamenti non dico iscrizioni a partiti, sindacati, associazioni sportive, culturali o di mutuo soccorso e via dicendo, ma neppure avere conoscenze strette, amicizie, affetti, idee...

In questi due casi l'imparzialità e l'obiettività del giudizio ne vengono inevitabilmente e gravemente inquinati. La sola idea consentita è quella di una giustizia perfetta. Che qui si cada nell'assurdo appare abbastanza chiaro, ma non è d'altronde meno chiaro che su un piano puramente concettuale, in mancanza di queste tre certezze, salvo se altre, provocare la morte altrui è sempre e comunque lo stesso tipo di azione, una sola realtà, essendo diversi solo i motivi ed i mezzi per attuarla, disponibili per i giudici e per il reo; la storia è piena oltre misura di «giudici» in senso lato che sono poi stati trasferiti nella categoria degli «assassini» in senso stretto dall'evolvere dei tempi e della morale per lo stesso ordine di fatti.

Proviamo a vedere il problema dal fondo invece che dall'inizio, risalendo dalla morte come realtà a colui che la provoca. L'animale che mangia l'erba la uccide, il carnivoro che mangia il coniglio lo uccide; lo fa per sopravvivere, non vi è odio, non esercita una vendetta, non commina una pena di morte. L'uomo per mezzo di antibiotici uccide germi e protozoi, col DOT, con le mani e molti altri mezzi uccide la vipera e i topi per timore, o le altre bestie per passatempo, diletto, sport, o per farne vanto o trofeo, oppure per sentirsi forte e superiore. La morte della vittima è un fatto concreto, le motivazioni una opinione che possono trovarci favorevoli o contrari, che possono in sé essere serie (fame), ragionevoli (paura), futili (passatempo o trofeo), abominevoli (diletto sport o vanto). Non vi vedo -ed in realtà non vi è- né odio né vendetta, né pena di morte.

Qualsiasi uomo è una cellula d'un grande organismo (la società), ha un suo diritto di vivere ed una sua precisa funzione; ledere questi diritti primordiali e naturali significa recare danno alla società; come l'organismo, per non soccombere di fronte a virus o germi o parassiti, si difende con mezzi diversi, anche la società, se vuoi sopravvivere, deve contrastare tutto ciò che nell'esito finale è lesivo per una sua qualsiasi cellula e che sia perciò corrispondente a virus, germi, parassiti, tossici, veleni, zanzare, mosche, vipere e altri animali nocivi. Non vi è odio, vendetta o pena, ma solo stato di necessità nella lotta per la sopravvivenza. Il fatto che ci fuorvia, che ci fa vedere una necessità primordiale come una scelta calcolata, che trasforma una automatica difesa in una volontà di colpire e di punire, è che i mezzi messi in opera allo scopo sono lì privi di qualsiasi potere decisionale e qui invece esseri pensanti che devono e possono scegliere. A questo punto il problema si sposta enormemente; dovremmo discutere della responsabilità, che vuoi dire libero arbitrio, «libertà di» e «libertà da», sia per il reo che per il giudice, per chi viene punito come per chi si arroga il diritto di punire e con ciò usciremmo completamente dal tema. D'altronde in questa sede la cosa non ci interessa, meglio dire non ci riguarda: la libertà di scelta è strettamente collegata al concetto di colpa-giudizio-pena, mentre non sfiora minimamente il concetto aggressione-pericolo-difesa; la zanzara infatti non ha colpa alcuna di essere zanzara né il virus di essere virus; l'organismo vivente non esprime giudizi e non punisce, semplicemente avverte il pericolo e si difende.

A nessuno può essere consentito di uccidere per punire, a nessuno però può essere impedito di difendersi. È una questione di capirci, è una questione di prestare attenzione ai termini.

Renzo Lucchesi

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