«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

a 25 anni dalla scomparsa
L'agra esistenza di Luciano Bianciardi,
l'anarchico testimone dei tempi del disamore

 

A Milano, città che non amava, nell'autunno di 25 anni orsono moriva, ad appena 49 anni, Luciano Bianciardi, scrittore toscano dalla penna densa, umorale, sapida, forte.

Morì solo, o quasi: nei venti giorni della sua agonia, nella stanza 305 del reparto di Medicina interna dell'ospedale San Carlo, pochi passarono a chiedere sue notizie: «Un paio di giornalisti amici; un editore. Poi una donna arrivata da Parigi, che piange e che ogni tanto scappa via dalla camera, si siede nel corridoio e resta lì, in silenzio. Nessun parente» (P. Corrias, "Vita agra di un anarchico", Milano, 1993)

Eppure, in quella stanza, nello stato di confusione soporosa indotta dall'alcool e da una cirrosi epatica avanzatissima, consumava le ultime ore della sua vita un giornalista di razza; un finissimo traduttore, a cui dobbiamo la resa in uno splendido italiano di tutti gli autori -da Henry Miller a Norman Mailer, da Saul Bellow a William Faulkner- che negli Anni Cinquanta e Sessanta valeva la pena di conoscere; un operatore culturale intelligente ed originale; un romanziere che amava Verga, ma che seppe anche innovare profondamente i temi e i linguaggi della nostra narrativa, adeguandola alle trasformazioni epocali che investivano la nostra società negli anni del boom economico. Per oltre vent'anni la «società delle lettere» ha steso su lui e la sua opera una pesante coltre di silenzio.

Due libri benemeriti -Pino Corrias, "Vita agra di un anarchico", e Luciano Bianciardi, "Chiese escatollo e nessuno raddoppiò - Diario in pubblico (1952-1971)", usciti rispettivamente nel 1993 e 1995 per la Casa editrice Baldini & Castoldi- hanno riproposto al ricordo dei più anziani e alla intelligenza dei più giovani questo Autore sornione e sferzante, fragile e tagliente, unico nel panorama della nostra letteratura contemporanea.

Ed è stata di nuovo una scoperta ed una sorpresa...

 

Il più bel romanzo dei «favolosi» Anni Sessanta

«[...] Sono riuscito a scrivere un libro che ritengo la mia cosa migliore [...] Si intitola La vita agra ed è la storia di una solenne incazzatura scritta in prima persona singolare. Per il resto nulla di nuovo. C'è il miracolo italiano, l'espansione dei consumi, il boom economico ed anche editoriale. In cambio non si vede mai un amico, ci si accorge di essere considerati non come uomini, ma come funzioni (quello che traduce, quello che scrive, quello che dirige e così via), si capisce anche che se per tua disgrazia crepi gli altri ti scancellano e sei sparito». Con questa lettera, datata 1° marzo 1962, Luciano Bianciardi dava all'amico Mario Terrosi, tipografo, scrittore ed editore grossetano, notizia della sua opera più matura, più riuscita che sarebbe stata pubblicata da Rizzoli nel settembre dello stesso anno.

 

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II libro porta in calce la data inverno '61-'62. Nel settembre del '61 era uscito il n° IV della rivista di Vittoriani "Il Menabò": un numero monografico sul tema del rapporto tra letteratura e industria. I diversi contributi ospitati nelle pagine della rivista (Vittorini, Sereni, Forti, Pirella, Scalia) muovevano nel senso di sollecitare una diversa sensibilità degli «operatori di letteratura» riguardo alle profonde trasformazioni che la nuova realtà industriale -con tutti i suoi corollari necessari: neocapitalismo, industria culturale, consumismo, pubblicità etc.- aveva indotto negli atteggiamenti, nei modi di essere, nella vita di relazione, nella psicologia dell'uomo italiano degli anni '60. I moduli espressivi e il linguaggio di impianto tradizionale non bastavano più, non erano più all'altezza di comprendere e riesprimere la nuova, formidabile e complessa realtà della società industriale. La letteratura di inchiesta, la letteratura documento, quella di taglio o in chiave sociologica si erano limitate, come scrive Vittorini a «squarci pateticamente (o pittorescamente) descrittivi, che risultano di sostanza naturalistica e quindi di un significato meno attuale di altri testi letterari che magari ignorano tutto della fabbrica, del lavoro specializzato, delle strutture aziendali etc. etc., ma ne sono profondamente influenzate per riflesso dei loro effetti sulle condizioni dell'uomo in generale».

Vittorini, Scalia, Pirella, Forti invitavano i letterati ad attrezzarsi culturalmente e teoricamente non per limitarsi ad interpretare una nuova materia, un nuovo settore di una realtà preesistente, ma per comprendere «un nuovo grado, un nuovo livello dell'insieme della realtà umana».

 

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Non è pensabile che Bianciardi, intellettuale avvertito e scaltrito da una lunga pratica in riviste «militanti» (aveva collaborato a "Belfagor" di Luigi Russo, al "Contemporaneo" di Salinari, a "Cinema Nuovo" di Aristarco, oltre che alla pagina culturale de "l'Unità" e del "Nuovo Corriere" di Bilenchi) non cogliesse il valore e la portata di questo ulteriore sollecito vittoriniano ad una cultura rinnovata, riqualificata, adeguata alle questioni della nuova realtà italiana dopo le illusioni e le conseguenti delusioni del neorealismo.

Bianciardi aveva vissuto tutta la parabola tipica degli intellettuali degli anni '50 (si legga in proposito "Il lavoro culturale", del '57). Azionista prima e poi uomo di cultura sempre vicino al PCI a cui però non si iscrisse mai, animatore di cineforum, insegnante, bibliotecario, organizzatore di centri di lettura e di biblioteche circolanti, interessato alle vicende e alle condizioni delle classi subalterne, si era battuto con intelligenza e passione a fianco della classe operaia grossetana, che aveva nei minatori di Ribolla la sua componente più cosciente ed avanzata. Il disastro di Ribolla -un'esplosione di grisou nella miniera di lignite della Montecatini aveva causato la morte di oltre 40 lavoratori-, la successiva chiusura della miniera, la sconfitta dei minatori grossetani furono interpretati da Bianciardi come la fine di un periodo, di un entusiasmo, di una speranza collettiva e l'avvio di una situazione di chiusura in cui sembrava destinato a cadere l'intero Paese.

Lasciamo ancora parlare Terrosi, l'amico grossetano: «[...] Sprofondò in una crisi spaventosa e di lì a poco fuggì a Milano [...] Ben presto si trovò in mezzo alla strada, senza una lira, affamato, disperato. Non conosceva nessuno e nessuno gli tese una mano. Poi si fece coraggio, andò a bussare alla porta delle case editrici, a offrirsi come traduttore. Lo fecero provare e riprovare, vi furono appunti, consigli, inviti ad attenersi ad un più rigoroso uso della lingua. Lui dava ragione a tutti [...] Vennero i primi soldi, la stanzetta di Via Solferino, la quotidiana comunione con i pelotari baschi. E anche la rabbia. Rabbia di sentirsi impotente, umiliato. Rabbia che si rivolse in breve contro tutti e contro tutto».

 

Delusione e furore di un letterato anarchico

Di rabbia filtrata dall'ironia e dalla precedente delusione storico-politica si nutre appunto "La vita agra", un pamphlet narrativo attraverso cui sembra quasi sfogarsi una vena anarchica, distruttrice. E se nel Lavoro culturale la delusione e l'irrisione dei miti -della cultura, dell'impegno politico, dell'organizzazione della cultura come la proponevano le forze della sinistra e come l'aveva praticata Bianciardi, della provincia come serbatoio delle energie sane- sono temperate da un inizio di rimpianto, nella "Vita agra" lo scrittore grossetano lascia che la sua vena corrosiva si dispieghi pienamente. E la applica non solo alla Milano del miracolo economico e dell'industria culturale, ma la allarga all'intera compagine della vita associata moderna, colta nella sua crudeltà, nel suo frenetico furore in tutti i suoi aspetti tipici e ad ogni livello di classe.

"La vita agra" esce nel settembre '62 ed è subito best seller, esaurite le prime edizioni in pochi giorni, vendute in tre mesi 20.000 copie, il libro fa notizia. Recensioni, interviste, presentazioni, traduzioni all'estero, un film non riuscitissimo con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli. Tra i numerosi estimatori del romanzo, Italo Calvino, entusiasta del lavoro che recuperava buona parte del ritardo della narrativa italiana nei confronti della società neocapitalistica. Contribuisce al fascino e al successo del libro la considerazione pessimistica -in un periodo per gli intellettuali di patteggiamenti e compromessi- di una realtà vista tutta compattamente come oppressione, inganno, falsificazione. E allora contro questa realtà disumana ed alienante Bianciardi decide di servirsi di tutti gli strumenti a sua disposizione.

Per esempio nella composizione dell'impasto linguistico della "Vita agra", becero e letterario insieme: «La 'alata di 'olle Salvetti diobò e un dialetto d'Uruduru [...] in un solo periodo il Burchiello e Rabelais, il Molinari Enrico di New York e il lamento di Travet [...] Amarilli Etrusca e zio Lorenzo di Viareggio». Nella definizione di uno strumento linguistico demistificante e provocatorio, all'altezza della carica corrosiva che gli urgeva dentro e dei suoi fini amaramente irridenti e satirici lo aiuta il suo lavoro di traduttore di Bellow, Miller, Steinbeck, Grane e poi la lettura e l'esercizio di traduzione sui primi scrittori beatniks, Ginsberg e Kerouac che appaiono allora in Italia. Li mescola con la sua frequentazione di tutta la tradizione del bozzettismo toscano -in particolare il Viani, lo zio Lorenzo di Viareggio- e con i suoi interessi eruditi, propri della pratica di biblioteca, che impreziosiscono il linguaggio di Bianciardi.

L'autobiografismo che percorre tutta l'opera si carica di valenze esemplari. La vicenda dell'intellettuale anarchico che decide di farsi e fare giustizia, minando il torracchione, la cittadella del potere e finisce con il restare stritolato negli ingranaggi del sistema neocapitalistico è emblematico del dramma di una generazione. Lo racconta amaramente lo stesso Bianciardi: «L'aggettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio mensile per fare la parte dell'arrabbiato italiano. Il mondo va così. Cioè male. Ma io non posso fare nulla. Quel che potevo l'ho fatto e non è servito a niente».

La vita agra, appunto. Già nel 1962. E quella di oggi allora con quale originale aggettivo dovremmo definirla? Forse il problema è proprio questo: mancano le parole per dirla.

Luciano Luciani

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