«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

Beppe Niccolai
 

 

Sette anni fa, il 31 ottobre 1989, ci lasciava Beppe Niccolai. Potremmo ricordarlo mettendo per iscritto i nostri pensieri, ma preferiamo sia egli stesso a farsi riconoscere. Ecco alcuni stralci di una sua conferenza -tenuta a Livorno il 19 gennaio 1985- sul problema giovanile.

 
 

Che cosa è stata la Scuola in mano alla DC che l'ha gestita per quarant'anni? Quali valori vi ha profuso? È stata il luogo permanente della guerra civile fra gli italiani. Quali tradizioni educative potevano esserci in una Scuola che demonizzava il passato dei padri, uccidendovi il sentimento della nazione, cioè la memoria? Imponendo il divieto di guardare al passato è nato l'uomo-massa, l'uomo senza identità secondo il modello americano; quel modello che tutti i giorni la TV, attraverso i network ci porta in casa: i telefilm dell'orrore, delle bande giovanili, della droga, i culti demoniaci, le bande che adorano il diavolo. Il dio quattrino. Vivi, questo è il mondo!

Il cinema: i modelli dell'italiano illustrati da Alberto Sordi: scroccone, bugiardo, vanesio, vile, opportunista, senza un briciolo di carattere, sempre disimpegnato.

E poi la «cultura» del progresso illimitato, travolgente, senza legami, senza tradizioni, senza i ricordi. Che vale rispettare la storia di un centro storico che è venuto su, nei millenni, nel rispetto di chi ci avrebbe vissuto, parlato, camminato, prodotto cultura e fiaba per i bambini? Che vale conservare un paesaggio, un fiume, un ruscello? Anche questi sono i valori della tradizione. L'uomo non è fatto solo per produrre e consumare; l'uomo è anche pianta, albero, figlio della terra, della sua terra. La città a misura d'uomo.

L'uomo, il rispetto della sua individualità. Non l'uomo-massa, costruito nelle batterie. A chi abita nelle «batterie» degli uomini da lavoro resta, oggi, una sola via da percorrere per conservare la stima di sé: rimuovere dalla coscienza l'esistenza di chi ci vive accanto, di chi ci è compagno di sventura; dimenticarlo, chiudersi nel più completo isolamento. Si abita sullo stesso pianerottolo e non ci si conosce. E si fa di tutto per evitare di conoscersi. Si chiudono con i tramezzi i balconi. Nessun contatto. Perché? Per la paura di vedere riflessa nel vicino la propria immagine disperata di «uomini in batteria da lavoro».

E i figli? Scendono dalla nuove zone di frontiera le bande. Che possono fare se sono cresciuti in questa «cultura» che ha ucciso, con la memoria storica, città e territorio? Vandalismi? E come possono avere rispetto di ciò che li circonda se ciò che vedono (e in cui vivono) è triste, è brutto? Centinaia di migliaia di abitazioni che si distinguono solo per i numeri civici. Quei quartieri: disegnati da quale «cultura»? Da quali «architetti»? I ragazzi, oggi, abituati ad avere tutto, in termini consumistici, sfiorano l'angoscia della noia per sazietà di stimoli. Via la Patria, via la religione, via le ideologie, via ogni fede. Via ogni autorità, tutto è permesso. Viva la città senza bandiere, senza altari, senza idee, senza politica! Si scatenano i demoni. Questa è la cultura fondante sorta per costruire la città senza Dio, senza bandiere. La città senza inibizioni, la città dove si può tutto. Ed ecco l'infelicità, la noia, il collasso totale.

Ed allora come se ne esce da questa crisi metapolitica, da questa crisi religiosa? Si tratta di ritrovarsi, di sapere stare insieme. Di tornare ad un modo di vivere che dia senso alla vita. Superare la vacanza dalla storia che ci ha portati alla perdita di identità. Tornare comunità. Tornare memoria. L'individuo è pronto a morire per gli altri quando sa di vivere con gli altri. Allora, qualcuno dirà, riportiamo l'Italia a cinquant'anni fa? Ridicolo. Voglio fare una semplice constatazione: Mussolini, «gli anni del diavolo»... Può darsi... ma aggregava, contrapponeva, scuoteva il sangue della società. .. Si era vivi. E si creava. Non c'era bisogno di droga per stordirsi.

Renato Guttuso ("L'Europeo", 12.3.1976): «La cosa strana è che le cose migliori che abbiamo prodotto, le abbiamo fatte sotto il fascismo. Perché sia Vittorini con "Conversazioni in Sicilia", sia Luchino Visconti con "Ossessione", sia io con la "Crocifissione", abbiamo dato il meglio di noi sotto il fascismo».

Ce la faremo? Non lo so. Occorre comunque che quando nel tempo a venire si stupiranno delle nostre disfatte, i nostri nipoti sappiano che «alcuni» rifiutarono di gettare le armi e di alzare le braccia. Lottarono.

 

Beppe Niccolai

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