«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 6 - 15 Ottobre 1996

 

La «loro» Africa
 

Quando facevo lezione di storia al Liceo, il trattato di Nimega bloccava ogni slancio culturale, sia mio che degli allievi.

Ora, mi trovo a camminare sopra un'isola che, occupata nel 1677 dall'ammiraglio D'Estrées, in viaggio verso Tobago per conto del Re di Francia, vide internazionalmente riconosciuta la situazione proprio nel trattato di Nimega, l'anno seguente. Sono costretto a ripetermi: dissi, dico e dirò che il mondo è piccolo, molto piccolo... Sto camminando (e sudando) sopra una brulla isola, l'antica Ber, già rifugio di pescatori e luogo di capre. Fino a tutto il XV secolo, pochi portoghesi e italiani vi avevano fatto breve scalo. Il nome attuale deriva da «la buona rada», essendo stata definita «Goode Reede» dagli olandesi, che se n'erano assicurati il controllo nel 1617, sessantuno anni prima di quel trattato verso cui mi ricordo allergico, classe compresa. Gorée, nel XVIII secolo, fu base di scambio del cosiddetto traffico triangolare, che consisteva nell'imbarcare su navi inglesi e francesi ferro, tessuti e pacottille, da offrire in conto-carico, bois d'ébène. Il viaggio di ritorno, terzo dell'esoso triangolo, veniva effettuato con merce pregiata: rhum e zucchero. In circa 250 anni, si calcola che i negri deportati ammontassero a circa 20 milioni. Da queste parti, sostengono che un buon numero di quelle creature sia passato per le esclaveries di Gorée.

Così come la vedo oggi, l'isola ha l'aspetto innocentemente coloniale che le dette il Marchese di Boufflers, cavaliere dell'Ordine di Malta, alla fine del XVIII secolo: uomo innamorato di M.me de Sabran, dell'Africa, degli africani, delle case con arcate e finestre enormi. Rioccupata dagli inglesi, restituita ai francesi dopo le guerre napoleoniche, Gorée andò rapidamente decadendo con la comparsa della navigazione a vapore, per la quale, nel 1864, si costruì il porto dell'ex villaggio chiamato N'Dakarou, dove fu trasferita, a dominio del Capo Verde, la sede del governo. Nel 1907, era nata la grande Dakar ed era morta la piccola Gorée.

Quale vendetta estetica ancora ne sta facendo la storia! La prima è anonima, impersonale, sovrapposta! La seconda è dolcissima, significante! Le piroghe non hanno messo motori, il legno è più usato che mai, la pesca non è lavoro, la danza è un bisogno, il tamtam non batte odio, la Marche des galères turques di Lulli è suonata a commento di spettacoli per turisti, le donne si muovono con la solenne lentezza della dame dette Signares, che all'epoca di Gorée, lajoyeuse (fine Settecento) ressero gli affari e la politica dell'isola.

Sto camminando dove il principe di Joinville venne (1843) a consacrare di persona la fine vera della tratta degli schiavi ed è forse alla medesima data che pensano i goreani, quando si abbandonano con gioia infantile alla loro danza tradizionale, la Goumbé. Ma v'è posto anche per il raccoglimento: un semplice marmo dove sono scolpiti, in senso per niente cimiteriale, i nomi dei morti per la febbre gialla (solo quelli dei medici...) del 1878. Gorée è bella; diversa da altre isole, visitiamola insieme. Altri aerei che quello di Mermoz l'hanno sorvolata, durante l'ultima guerra!

Gorée è un'isola piena di storie; del resto, penso che proprio sui lembi di terra circondati dal mare siano accaduti spesso fatti straordinari e memorabili. Per esempio: l'arrivo, qui, di religiosi di S. Giuseppe di Cluny, il 1° maggio 1822; l'adozione a penitenziario civile della batteria Nord, detta Fort d'Estrées dal nome dell'ammiraglio che nel 1677 tolse l'isola agli olandesi; il silenzio dell'antica caserma William Ponty e dei 4 cannoni modello 1859; i ruderi dell'alto forte, prima Nassau, poi S. Francesco; il vecchio palazzo del governatore, ora Relais de l'Espadon; la casa dove abitò madre Javouhey; l'antica sorgente; la casa di Anna Pépin, figlia d'un medico della Compagnia delle Indie, amata dal De Boufflers, il preferito delle Signares...

Dicono che la rena dei suoi ultimi passi sulla spiaggia fu raccolta in piccoli sacchi, per augurarne il ritorno... Qui, ogni masso arso dal sole, ogni ferro, ogni muro hanno una vicenda inattesa e, ciò che più stupisce, per niente africana, come sarebbe lecito prevedere. Ma –ripeto- la geografia ha nelle isole le sue storielle eccezioni. Potevo attendermi, io, sradicato professore di storie da lezione, da libro, da programma svolto, una chiesa intitolata a S. Carlo Borromeo, la cui prima pietra fu posta il giorno della festa di Re Carlo X? Potevo sapere di quale reverenza è circondata, qui, nel punto più occidentale del continente africano, la casa natale di Blaise Diagne, ignoto deputato del Sénégal all'Assemblea Nazionale Francese?

Non resta che l'elenco delle cose viste, che sono semplicemente da vedere, non da descrivere; come il Quai des Bucaniers o il Posto di polizia, iberico nella sua bonarietà picaresca, sorto dove fu una chiesetta portoghese voluta da Diego d'Azemba nel 1482: la più remota costruzione dell'isola. Perché fu importante un lembo di terra così vicino alla costa? Perché i primi trafficanti di negri non possedevano installazioni a terra e preferivano stare alla fonda negli estuali dei fiumi o al riparo di isolotti costieri, come il nostro. Qualcosa spinge a documentarci in studi mai intrapresi e, per la verità, a noi mai consigliati; tuttavia, oggi, assai più utili di tanta retorica umanitaria da Congresso di Vienna ritornato... Dicono che dovrei leggere i dispacci inviati da Michel de la Courbe, direttore della Compagnia del Sénégal (1682-1693), ai suoi ispettori (negrieri e mercanti) od anche le notizie commerciali, raccolte in particolare presso il consolato di Nantes da Jacques Savary, autore del settecentesco Forfait négociant. E scopro (per la gioia di chi volesse proseguire il discorso in sede scientifica) nomi ed opere quali: Dieudonné Rinchon (Trofie négrier), L. de Grandpré (Voyage a la Còte occidentale d'Afrique), l'abate Proyart, l'esploratore Labarthe ed altri: obbligatorio, Gaston-Martin (Histoire de l'Esclavage dans les Colonies Francaises, P.U.F., 1948).

E vedo gli schiavi in attesa di essere imbarcati, se così può dirsi, alla volta della Luisiana, da quest'isola non distante da Saint-Louis, oggi, città senegalese in via di seconda giovinezza. Un tempo molte navi dirette in Guinea o alle Indie orientali vi facevano scalo; ed io son qui a comprar collane fatte di conchiglie, per far domande stupide intorno alla famosa Maison des esclaves, costruita tra il 1776 ed il 1778 proprio sul mare, anzi in diretta e sintomatica comunicazione col mare. Da qui, senza segreti, alla luce del sole, l'ebano vivo era caricato sulle piroghe e «stivato» appena al largo. Eppure in Africa, contro ogni pregiudizio bianco, il bello prevale, la gioia vince; basta osservare costumi e colori delle vesti.

I colori delle vesti e della pelle di certe donne del luogo, diverse dalle altre che abitano a poche miglia, sul continente; di certe mulatte che denotano un passato tutt'altro che di miseria; che addirittura furono il folklore d'un'epoca, quella del citato Marchese di Boufflers, governatore dell'isola...

Quasi tutti i senegalesi parlano un ottimo francese: è nell'aria e nel ricordo, sia per amore che per odio. Cedo la parola, colorata anch'essa, alla nota Les habitants a l'époque de Boufflers dalla pubblicazione dedicata allo Spettacle féerique de Gorée, che ebbe luogo in occasione del primo festival mondiale delle arti negre, tenutosi a Dakar nell'aprile del 1966:

«Lafoule des Noìrs et des Noires cou-verts de boubous et de pagnes, les négrillons a gros ventre, les négrettes aux pelile sein nus, chuchotent en woloffet en serère. Les mulàtres habillées a la francaise uvee des pantalons et des vestes légères, arborent des chapeaux de palile et montrent la peau cuivrés de leur visage sous des cheveux longs camme ceux des sauvages de l'Ile Saint-Vincent [...] Admirez la peau veloutée des jeunes métisses; elle va de la teint crème jusq'au café-au-lait foncé». Il nudo, infatti, meriterebbe tutto un discorso a parte.

Ho saputo che nell'interno, nella innocente brousse dove i pacifici villaggi affondano nella bassa boscaglia, piena di uccelli e senza pericoli checché ne dicano i presunti cacciatori, turisti pruriginosi fotografano per pochi centesimi bambine nude, meravigliate di tanta curiosità.

Ho visto in piena capitale, sulle spiagge libere della comiche le negre bagnarsi a mezzo busto, pochi metri da me, senza malizia, ed i ragazzi nudi tuffarsi nelle vicinanze di donne bianche, senza malizia; direi con disinvoltura a noi sconosciuta. Circa 80 chilometri da Dakar, forse nel decadente tentativo di riconquistare una morale naturale, senza più pudori, indizio di peccato (la carnalità qui non è male), ho visto francesi, organizzati in colonie per niente piacevoli a vedersi. È difficile portare in giro la propria nudità, come sanno quest'ultimi africani felici, in faccia all'Oceano (sulla rena dove mi distendo, circondato da pallidi granchi, intenti a far buchi nei quali sparire), liberi e tranquilli, intenti a suonare, col leggìo posato sulla sabbia, una tromba o un sassofono, lucidi come la loro pelle.

Si dirà che il mio entusiasmo è mal d'Africa; no, è rabbia.

Florio Santini

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