«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 7 - 31 Dicembre 1996

 

Pubblichiamo, qui di seguito, ampio stralcio dell'intervento svolto a Chianciano da uno dei nostri redattori, Gianni Benvenuti, al Congresso del MSI di Rauti il 15 novembre scorso.

Da Chianciano
 

II MSI per molti anni è stato tutto ed il contrario di tutto. Sotto quella assurda e fuorviante etichetta di «Destra nazionale» hanno convissuto conservatori e socializzatori; filo-capitalisti e anti-capitalisti; monarchici e repubblicani; reazionari, avanguardisti, futuristi, nuclearisti ed anti-nuclearisti; ecologisti ed anti-ambientalisti (il ministro dell'Ambiente espresso a suo tempo da AN ne è l'esempio più eclatante); filo-americani e anti-americani; rivoluzionari e personaggi inseriti nel sistema fino al collo; borghesi ed antiborghesi. E mi fermo qui. Un contenitore che è potuto sopravvivere così a lungo per una serie di concomitanze e avvenimenti noti a tutti ma anche e soprattutto per la protervia e la ottusità del cosiddetto «arco costituzionale».

In poche parole un antifascismo becero, interessato e acritico ha tenuto in vita un certo «fascismo» atipico e quasi sempre acritico anch'esso. Perché è sempre esistito il fascismo degli antifascisti e l'antifascismo dei fascisti. Entrambi da rigettare. Un «fascismo», comunque sia, che non ci è mai piaciuto!

Fiuggi finalmente ha svelato e messo a nudo questo equivoco, questo inganno. Lo spartiacque comincia da lì. Meglio tardi che mai. Di questo dobbiamo dire grazie al liberal liberista Fini ed ai suoi interessati cortigiani. Attenzione, quindi, alla continuità. Meglio ancora, non cadiamo nel continuismo.

[...]

Senza niente rinnegare, dobbiamo andare avanti. Continuare e riprendere quella che qualcuno ha definito «una rivoluzione mancata». Per portarla a compimento. Sosteneva, infatti, Camillo Pellizzi nel lontano 1948: «II rimprovero che un fascista italiano deve fare a sé stesso non è quello di avere tentato, ma di avere tentato senza il vigore morale ed il rigore intellettuale che il tentativo esigeva. Il suo vero insuccesso non fu una guerra perduta, bensì una rivoluzione mancata. Il problema da cui il movimento prendeva le mosse non era d'altronde fittizio, esso è reale ancora oggi, dominante e acutissimo. L'esigenza non è rifare il fascismo, ma di intendere con serietà ciò che si volle e ciò che si fece allora e trame insegnamento». Allora, andiamo a rileggerci qualche passo principale ed ufficiale di alcuni documenti che risalgono proprio agli anni in cui il MSI vide la luce. È di quel MSI che celebriamo il cinquantenario. Perché è da lì che occorre ripartire.

"La Rivolta ideale" -organo ufficiale del MSI- 1947: «Sì, siamo fascisti, ma quei fascisti che si sono battuti per dare all'Italia una legislazione sociale e sindacale; siamo i fascisti dei contratti di lavoro collettivi riconosciuti come leggi, dei sindacati concepiti come libere associazioni di liberi lavoratori democraticamente organizzati [...] Siamo i fascisti che si sono battuti per la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle imprese».

Circolare della federazione romana del MSI, 8 gennaio 1949: «Deve soprattutto essere ribadito che il MSI non è un partito di destra, di sinistra, o di centro [...] Il MSI non è un partito di destra perché respinge il principio individualista e quindi l'economia liberale che ne è la estrinsecazione. Il MSI è perciò contro la cosiddetta libera concorrenza la quale presupponendo impossibili posizioni di uguaglianza si risolve nel potenziamento del più forte, del più ricco, del più fortunato o del meno scrupoloso e si conclude con la affermazione dei regimi monopolistici».

Mozione del Comitato centrale del MSI, Lucca, 3-5 dicembre 1949: «Meta ultima del socialismo nazionale da noi incarnato è la realizzazione dello Stato Nazionale del Lavoro nel quale troverà concreta e completa espressione l'idea corporativa, attuata mediante l'istituto della socializzazione».

Queste, dunque, le nostre origini. I cosiddetti paletti entro i quali il MSI nacque. È lì che occorre tornare. È da lì che occorre ripartire. In questo senso viva la continuità!

[...] La nostra cultura, le nostre origini, niente hanno a che vedere con la destra. Siamo stati e dobbiamo essere altra cosa! Oggi, chiarito ogni equivoco e liberi da qualsiasi condizionamento, possiamo tranquillamente e serenamente rifuggire da quella etichetta così pesante e così fuorviante.

«Tocca guardarsi non tanto dal nemico di sinistra, domabile se non domo, quanto dall'amico di destra, e "destramente" buttarlo a mare». Così ammoniva su "L'Universale" Berto Ricci già nel 1933. La destra -intendendo per essa reazione, conservazione, difesa dei privilegi, moderatismo, antisocialità, commistione con il grande capitale- è altrove.

La destra è Fini, è Berlusconi, è Prodi, è D'Alema. Oggi in Italia ci sono due destre. Destra è chi ci governa, destra è chi sta all'opposizione. [...] Se per anni una parte di noi, la più sana aggiungo io, si è orgogliosamente proclamata «terza via», oltre il capitalismo ed il collettivismo, oggi possiamo e dobbiamo, sempre orgogliosamente, proclamarci l'unica ed autentica alternativa al capitalismo ed al liberismo dilaganti. O vogliamo lasciare questa grande e decisiva battaglia ai vari Bertinotti di turno? Non ne sono neppure degni! Non hanno i titoli. Anche loro hanno svenduto e si sono svenduti. Al compromesso, alla mediazione, al libero mercato. Hanno «desistito». Noi siamo, dobbiamo essere diversi. Lo siamo, come si è visto, per origini; lo siamo per mentalità; lo siamo per cultura; lo siamo per altruismo; lo siamo per quell'inestimabile bagaglio sociale che proprio la generazione che non si è arresa ci ha lasciato in eredità.

 Nel libro "L'un contro l'altro armati", Giorgio Albertazzi afferma testualmente: «La verità è che la RSI fa ancora paura. Perché fu l'unico tentativo serio, svolto in Italia, di fare la rivoluzione, di avvicinarsi ai bisogni della gente. Mi risulta, anche oggi a distanza di molti anni, difficilissimo pensare alla RSI come ad una espressione di un pensiero politico di destra. Fu certamente un'altra cosa».

In un mondo dove tutto si va omologando, dove predominano usura, egoismo, arrivismo; prevaricazione, interessi personali e di gruppo, sfruttamento, deve farsi largo la nostra diversità. La nostra specificità.

È di recente uscito un ottimo volume dal titolo affascinante e significativo: "Ciao, rossa Salò". L'autore è Enrico Landolfi, socialista, e nostro sincero e appassionato amico. La dedica recita testualmente: «Alla mia amatissima sinistra, nella viva speranza che si decida finalmente a rendersi conto di ciò che veramente successe nella RSI. Ciò al fine di adeguatamente misurarsi con quelle remote difficilissime cose ed eventi e non essere ancora una volta presa in contropiede».

Enrico Landolfi non ha militato in Repubblica Sociale. Ma questo suo libro e questa sua dedica sono un implicito riconoscimento, o quantomeno un invito accorato a rileggere e «misurarsi» (come dice lui stesso) su quanto avvenne e su che cosa hanno rappresentato e possono ancora rappresentare quei Seicento giorni di Salò. Al termine dei quali, come lui stesso sostiene, vi furono due sconfitti: la camicia nera e il fazzoletto rosso.

[...]

Nicolino Bombacci, fondatore del PCI e assassinato accanto a Mussolini gridando «Viva il socialismo» nel 1944 così si esprimeva: «Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è benessere, è dirittura politica e morale del lavoratore [...] Se mi ritrovo nelle file della RSI è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio, che si è veramente decisi a rivendicare i diritti degli operai». Vogliamo raccogliere questo che è un testamento spirituale ma anche un messaggio forte, e fare noi veramente sul serio?

[...]

Dobbiamo costruire poco alla volta una nostra e nuova area culturale con il contributo di tutti, anche di coloro che a qualunque filone ideologico appartengano, in qualunque dottrina o esperienza politica e storica si siano riconosciuti, manifestino disponibilità per un lavoro comune, una ricerca comune, per un'opera volta ad un radicale cambiamento di questo nostro Paese. L'obiettivo per noi non può che essere la rivoluzione sociale, la costruzione dello Stato Nazionale del Lavoro. In questo quadro va collocato il problema delle cosiddette alleanze. Le alleanze le dobbiamo fare nel paese reale, nella società civile. Con coloro che non ci stanno! Creando un'ampia e articolata area antagonista, che esiste!, che c'è! Non possiamo né dobbiamo svendere il nostro patrimonio storico, sociale e culturale per una manciata di parlamentari. La nostra diversità è un bene che dobbiamo coltivare e difendere.

Guai a noi se cadessimo, ancora una volta, nella trappola dell'omologazione, del compromesso, del patteggiamento. La cosiddetta «pesca delle occasioni», il cosiddetto «carpe diem» devono essere per noi un lontano ricordo. Niente smanie elettoralistiche! Niente personalismi esasperati! Niente palloni gonfiati! [...] Dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee. Portarle innanzi e difenderle. Con ostinazione. Solo se saremo in grado di fare questo per noi potrà esservi uno spazio politico. Enorme, inimmaginabile.

Un deserto immenso si apre dinanzi a noi. Dobbiamo percorrerlo e conquistarlo, riempirlo con le nostre idee e i nostri valori. Abbiamo avuto il coraggio, il grande merito di restare fermi quando tutti gli altri abiuravano e rinnegavano. Per noi non ci sono state né Fiuggi né Bolognine. Ma questo, pur grande e bello che sia, non basta. Bisogna andare avanti. Farsi largo. Sgomitare. Fare politica. Dobbiamo recuperare anni ed anni di contraddizioni, equivoci, occasioni perdute, inganni, tradimenti.

Voglio concludere ricordando le parole di due camerati indimenticati e a tutti noi particolarmente cari. Nel lontano 1946 Alberto Giovannini ammoniva: «Italia - Repubblica -Socializzazione. In questo trinomio si è concluso tragicamente il nostro passato, in esso si sintetizza il nostro credo politico, ad esso dedichiamo il nostro avvenire. Fermi su questa posizione noi terremo fino in fondo, senza crisi di coscienza quando verrà (poiché verrà) l'ora del pericolo: come abbiamo già dimostrato essere nostro costume».

Beppe Niccolai, poco prima di lasciarci, affermava: «Imponendo il divieto di guardare al passato è nato l'uomo senza identità [...] E la società muore [...] Ce la faremo? Occorre comunque pensare che quando il tempo a venire si stupirà delle nostre disfatte, i nostri bisnipoti sappiano che "alcuni" rifiutarono di gettare le armi e di alzare le braccio. Lottarono».

Avanti, dunque. Con coerenza, con convinzione, con coraggio, con fantasia, con rabbia, con grinta!

Gianni Benvenuti

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