«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 7 - 31 Dicembre 1996

 

l'ultima

Dramatis personae,
In morte di Ezio

 

 

Catania. Aria più aria più aria. Che non sembri di stare in galera. «Voglio stare all'aperto». Niente loculi, quelle caselle inclinate verso il dimenticatoio, ma una tomba «all'aria aperta» su cui inciampare, o da «attraversare con un salto in lungo». Quando morì Carmela, la moglie di Fabio Fatuzzo, il «comandante» della giovane destra etnea, Ezio sentì che era andata in cielo, con la donna dell'amico, lo strazio di una giovinezza. Lui era già quasi latitante. Andò al cimitero di nascosto. Fino a Vittoria. Le portò dei fiori e, pregando, ricordò al marmo, alla foto incorniciata dal sorriso, di una gita a Strasburgo del Fronte della Gioventù di Catania: di quante risate avevano fatto, di come era stato bello strafottersi «nella gioia di vivere». Lui, Fatuzzo, Carmela, Santo Castiglione, i deputati, e gli altri, quelli che si fermarono nelle ore del dopopranzo a riposare e quelli che si misero in macchina per andare. Gli anni '80 di Catania si erano consumati nello scivolo di un archivio privato, troppo privato. I primi dei '90 risultarono un po' borghesi e lui cominciò a sbucare improvvisamente da dietro le quinte del suo inquietante mistero. Dove era andato, era solo il mondo dietro il mondo. Ridendo, da dentro i telefonini soffiava la sua gradassa allegria: «Parsifal! Parsifal! Torna da noi!». Non voleva coinvolgere nessuno. Aveva bruciato le foto del matrimonio per non compromettere gli amici. E infatti sbucava improvvisamente: «nel richiamo di un antico legame». Come un Beato Paolo. E dei Beati Paoli -legionario straniero in casa- aveva assorbito la magia cavalleresca. Propriamente, quell'impalpabile natura dei predestinati.

Dicono che da vivo -con il suo corpo da pantera- avesse scatti incredibili. «Era in grado di scavalcare un'automobile senza il minimo di rincorsa, un atleta straordinario». Benito Pacione, piccolo padre di fascismo, grande atamanno di rugby, lo ricorda -tra gli altri carusazzi di quartiere- come il più prezioso dei pulcini: «Quante volte, quante volte a dirgli di andare via, di tagliare i ponti». E invece aria, più aria, più aria. Non la galera, un colpo di pistola in fronte, la testa avvolta i un giornale «per frenare la fuoriuscita di materia cerebrale», il corpo abbandonato in una cava a San Giovanni La Punta, nella periferia di Catania, gli amici a sbattersi, spaventati dal dolore: «Cu fu?». A Tino Vittorio, guru di libertà colorate di rosso, leader del '68 siciliano, aveva assicurato di conoscere «tutte le tecniche dell'agguato». Meno una: «quella con la quale mi potrebbero fottere». Glielo disse un giorno quando l'uno chiese all'altro quale spauracchio fosse stata l'occasione che «di un operaio, erede della filosofia classica tedesca, ne aveva fatto uno» ai margini dell'inquietudine. Quindi, i libri dell'uno e quelli dell'altro. Lui -operaio, arbeiter jungeriano- aveva la libertà colorata con le tempere dell'ardimento disperato. Il fascismo dell'innocenza lo aveva cercato nella sua quotidiana battaglia di sopravvivenza. A questa guerra, da un esercito di soldati senza fedeltà, aveva sacrificato il suo coraggio, il suo onore, lo zolfo della sua intelligenza. Volente o nolente, per «vivere un giorno da leone piuttosto che cento anni di merda». Volente o nolente, perché è «meglio un delinquente che borghese». Volente o nolente, un destino allegro, guascone, irridente, tutto catanese. Diceva, scavalcando Consolo: «Come il barocco siciliano che è un'irrisione al terremoto da cui nacque questa città». In faccia, nella sua faccia, l'adolescenza perduta, lo spleen beffardo dei ragazzi cresciuti nei quartieri. Nel cuore, nel suo cuore, una sola bestemmia: «è una rottura di minchia 'sta malinconia eterna».

E allora aria più aria più aria. Certe volte, gli occhi del sogno lo riportano in terra. Cammina spavaldo con una tunica a forma di tuta ginnica e si porta avanti scherzando come ai tempi della gita a Strasburgo. Ha i capelli un po' lunghi, propina granite a Parsifal e fa i dispetti ai santi del cielo: «sono solo un poco rincoglioniti». Aria più aria. Ha voluto, appunto, una tomba all'aria aperta: «Vorrei fare una passeggiata in via Etnea». Aria e aria. La lapide, dice e non dice, come ogni lapide addosso a un morto che dice e non dice, ma tutto ciò che si «doveva comprendere, qui si è compreso». Quelli che riposano il pomeriggio sentono lo stomaco brontolare, l'anima scricchiolare, la coscienza evaporare. Quelli che si mettono in macchina per andare, sentono in loro stessi l'andare. Il dubbio di tornare. Aria più aria più aria, allora. Lui lo leggeva Brancati: «Non c'è enigma, umanamente solvibile, che un umile siciliano non possa sciogliere».

E perciò, enigma degli enigmi: «Cu fu?». La risposta, rimandata oltre la pausa della pazienza: «al prossimo pentito si saprà qualcosa». Ma la risposta più crudele l'aveva già data lui. «Io metterei la firma per una morte a quarant'anni. I ragazzi di quartiere disprezzano la vita. Non pensano, né vogliono abituarsi all'idea della longevità. La vita e la morte sono realtà senza mistero, valori banali quanto le chiacchiere da bar». E siccome aria più aria più aria è come dire un campo aperto, una palla ovale fischia il tragitto da un punto all'altro verso la mèta dove tutti i rugbisti arrivano per ricominciare. Tra gli investigatori, un funzionario della Dia, rassetta il proprio passato. Una gita a Strasburgo. Avrebbe potuto scambiare il proprio destino. Di qua o di là. Una strada come l'altra. Quale, quale enigma divarica i due sentieri?

 

Pietrangelo Buttafuoco

Indice