«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 7 - 31 Dicembre 1996

 

Verso Lido di Camaiore
Riflessioni sulla rivista
 

Bisogna essere chiari, mettere al bando ogni ipocrisia ed ambiguità, altrimenti anche quest'altro incontro con i lettori, ormai imminente (mentre scrivo queste note manca meno di una settimana), si rivelerà del tutto inutile, come i precedenti.

Qualcosa si è rotto e non è più riparabile. La rivista continua a perdere pezzi. Le dimissioni di Errico, al di là dei motivi addotti, a tratti sconfinanti nella paranoia, costituiscono non soltanto evento doloroso sul piano affettuoso, quanto la spia di un più vasto disagio che va analizzato.

Desidero affermarlo con immediata brutalità: la rivista, così com'è, non serve più, ha fatto il suo tempo. È stato sostenuto fino alla noia come essa abbia assolto un compito davvero essenziale: non soltanto culturale e «politico», quanto –addirittura- esistenziale. Ci ha fatto superare amarezze e delusioni, tradimenti e disinganni. Ci ha tenuti in vita. Come un rudimentale tam-tam, ha trasmesso ad altri i ritmi e le ragioni della «nostra» vita. "Tabularasa", non della memoria antica, non del selvaggio imprinting, ma del nostro essere stati dentro un'esperienza partitica recente che non ci apparteneva più. In forza di questo originario «spirito» la rivista si è riempita di contributi e di tesi spesso inconciliabili, di storie così diverse da sembrare uguali. Essa è stata rifugio per chi non aveva mai avuto una tana o l'aveva abbandonata per annusare il bosco, i suoi odori acri, i suoi pericoli.

Fin dal suo primo Comitato di redazione, la rivista sbandierava con orgoglio questo suo sentimento dell'accoglienza. Tesi ed antitesi. Una proposta ed il suo contrario. Distanze siderali che nessuno pretendeva di colmare. Differenze, una dietro l'altra, che non potevano e non dovevano essere portate a sintesi.

Ma il tempo scorre, gli scenari cambiano. Nessun palpito, nessun «segnale di vita» rimane uguale a sé stesso. Bisogna sempre decidere, magari soltanto riconfermare, cosa «fare della vita». Questo, piaccia o non piaccia, è il momento. Del resto, è passato poco più di un lustro da quando il seme de "L'Eco della Versilia" si schiuse nel germoglio "Tabularasa": del gruppo dei primi, entusiasti collaboratori, a parte il fondatore Antonio Carli, sono rimasti Gianni Benvenuti e Alberto Ostidich, oltre a chi scrive. Poi, a fronte di successive, preziosissime acquisizioni, la diaspora: da Umberto Groppi a Fabio Granata, da Gino Logli a Luciano Lanna fino a Vito Errico. Con Peppe Nanni e Pietrangelo Buttafuoco che han ben altre testate e faccende di cui occuparsi.

Far finta di non vedere questa realtà non serve a nessuno. Tanto meno esorcizzarla. Né ci può appartenere lo stato d'animo di chi vede in queste scelte fughe, tradimenti e quant'altro. L'epoca in cui viviamo, con i suoi ritmi, le sue frenesie, le tumultuose trasformazioni, non consente ad alcuno di ergersi a giudice degli altrui comportamenti. Ognuno segue la propria sensibilità, il proprio istinto, magari -non è mica un sacrilegio!- le proprie convenienze. Ma se questo è un modo corretto e «sano» di ragionare, nessuno ironizzi su chi, cocciutamente ma anche in piena libertà, sceglie la trincea -seppure soltanto culturale- dell'antagonismo, del rifiuto di ogni appiattimento ed omologazione. Quanti errori abbiamo commesso. Quanta confusione, quante contraddizioni. Tuttavia, un esile filo rosso è rimasto ad unire quelli che sono ancora qui. Non si può non ripartire da quel filo.

Com'è decadente e penosa l'Italia di fine secolo e millennio! E l'Europa. E l'Occidente.

Com'è mortificante ed avvilente gettare lo sguardo intorno e veder la palude dove affondano differenze, esperienze, storie: di singoli, di gruppi, di popoli; di valori, di ideologie, di progetti e programmi. Com'è triste vedere sfumare le tinte forti dell'alba e del tramonto nella nebbia grigia. E le vette venirne inghiottite, come i sentieri, come i contorni, gli orizzonti, i confini. Destra e sinistra, schemi nei quali ci siamo riconosciuti, dai quali ci siamo poi allontanati e dentro i quali in tanti si identificano e dividono ancora. Nella palude, diventano un continuo girare intorno ad un centro melmoso dove affondano gli dei e donde emergono le uniche entità che sembrano avere ancora un senso: il potere, il denaro.

Si diventa egoisti e rabbiosi, biliosi e beceri, dentro la palude. È davvero così irragionevole tentare di restarne fuori?

Giovani, vecchi «savi», lasciate ai pazzi la loro follia, al sogno la luna e le stelle, agli spiriti inquieti l'utopia!

Ad essi, andando oltre l'attuale "Tabularasa", si potrebbe offrire una rivista rinnovata nella forma, nella struttura, fors'anche nella sua redazione, con una linea finalmente definita e chiara.

Di questo c'è urgenza e necessità. Una rivista per ricominciare. Per tentare di riannodare le fila di un'area antagonista rifuggendo da ogni percorso riduttivo ed autoghettizzante, dalla retorica e dal nostalgismo. Una rivista, come un foglio di lotta: facendo nascere redazioni ovunque possibile, ovunque organizzando incontri, convegni, dibattiti, provocazioni. Un nuovo inizio, a partire da una rivista. Non sarebbe la prima volta che accade. Per dare un riferimento ed un approdo a tutti coloro che vorranno continuare a battersi contro l'attuale monopolio culturale; contro il dogma di un capitalismo famelico che seppellisce uomini e memoria e pretende di spacciare tutto questo per libero mercato. Una rivista. Per poter continuare a dire: non ci sto!

Beniamino Donnici

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