«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 7 - 31 Dicembre 1996

 

A proposito di un problematico saggio di Giano Accame
Caro Giano, o è «destra», o è «sociale»

 

Questo bel libro di Giano Accame capita nelle nostre mani e sotto i nostri occhi proprio mentre Gianfranco Fini da prova della sua grande vocazione sociale giurando fedeltà, sulla scia del suo Grande Alleato di Arcore, a privatizzazioni dogmaticamente intuite ed esaustivamente accettate, consente con l'operazione, volta a favorire i ceti medio-alti, che mette in mezzo a una strada un milione e duecentomila inquilini, che, certo, a tali zone della società non appartengono; snuda il brando in difesa di un modello di «Finanziaria» che incida su pensioni e redditi fissi per favorire la categoria dei commercianti, nella quale, ovviamente, il callido presidente di Alleanza Nazionale si guarda bene dal distinguere i gioiellieri dai venditori di caldarroste, i bottegai che tirano la vita con i denti dagli imprenditori che al riparo dei supermarkets fanno il bello e cattivo tempo nel mondo della cosiddetta «distribuzione». Soprattutto, non si da la pena di discriminare fra i «distributori» leali verso il fisco da coloro che con le più disparate e spericolate capriole intrallazzatrici e corruttrici hanno allargato a dismisura le aree perverse della elusione e della evasione, così efficacemente cooperando a mettere in ginocchio i conti pubblici e, conseguentemente, i contribuenti in regola con la collettività nazionale, con la coscienza, con lo Stato.

Per la verità, il Giovin Signore di via della Scrofa, con la chiarezza e la determinazione che contraddistinguono lui ma non la cosiddetta e fantomatica «destra sociale», non ha mai autorizzato dubbi sulla sua vocazione antipopolare e sulle sue scelte di classe spacciate come opzioni nazionali. Tanto per dirne una, al convegno sul Cimino degli intellettuali di area irrise agli acchiappafarfalle che si dilettano con astratte elucubrazioni sulla ideologia della destra dividendosi in «sociali» e «liberisti», finendo col dare la linea in chiave sarcastica mediante la seguente dichiarazione: «Esiste una sola destra, quella "rinnovatrice"». E al fine di far luce una volta per tutte sul tipo di «rinnovamento» che governa i suoi pensieri gettò praticamente in pasto alle Grandi Firme del berlusconismo ideologico rampante, al Gotha ultraliberista di Forza Silvio, ai più protervi campioni del dominio borghese sulla società, il convegno culturale che tante attese aveva suscitato fra gli scornatissimi «sociali», ridotti al rango di intellettuali di copertura di una operazione reazionaria le cui radici affondano nel «nazionalismo vecchio e nuovo» di Papini e Prezzolini, testo ideologico compilato nel remotissimo 1904 dai due prefati personaggi al fine di dare un decente supporto di elaborazione alla controffensiva classista della borghesia più conservatrice contro il movimento operaio, popolare, socialista, elegantemente definito dal Prezzolini «aristocrazia dei briganti».

Orbene, a un personaggio di questo genere l'amico Accame assegna il ruolo storico di fondatore, animatore, leader di una destra vagheggiata «destra sociale» che, par di capire, nell'ambito del cosiddetto «Polo delle Libertà» dovrebbe bilanciare le spinte egemoniche dei seguaci dell'Azzurro Cavaliere di Arcore. Giano è però un valente uomo di cultura che accoppia ad una forte e talvolta affascinante capacità di analisi storica e politica una sorprendente e non di rado traumatizzante astrattezza che lo indirizzano su vie sbagliate verso conclusioni che, francamente, non stanno né in cielo né in terra. Come quando, proprio nella prima pagina del suo, nonostante tutto, godibilissimo saggio "La Destra Sociale", (Edizione «Settimo Sigillo», Roma, pp. 109, Lire 15.000) afferma: «Alleanza Nazionale ha sempre tenuto a marcare una differenza rispetto all'ultraliberismo ostentato da Forza Italia e dalla Lega, rivendicando una sua connotazione sociale e popolare, il solidarismo verso le regioni e i ceti meno favoriti».

No, carissimo, il tuo novello eroe paladino della socialità non solo non ha fatto «marcare» al suo partito alcuna «differenza rispetto all'ultraliberismo ostentato da Forza Italia e dalla Lega», ma, casomai, ha puntellato la loro linea addirittura con maggior vigore e intransigenza, soprattutto in occasione della complessa e «aventiniana» vicenda parlamentare relativa alla «Finanziaria». Nel suo intervento a Montecitorio il Giovin Signore di via della Scrofa dopo aver definito Berlusconi suo leader (perfino a lui capita talvolta di dire la verità) ne ha pienamente sposato le tesi reazionarie, sparando a palle infuocate sul governo che, d'accordo con le organizzazioni dei lavoratori, aveva salvaguardato i ceti popolari evitando che su di essi finissero per gravare i pesi duri della manovra. Tutto questo per spalleggiare il Cavaliere Azzurro in una oltranzista difesa dei cosiddetti «ceti produttivi» -quasi che operai, contadini, piccola borghesia fossero incrostazioni parassitarie della società-, spinta fino al ricatto istituzionale, all'avventurismo, alla paralisi del Parlamento, all'oltraggio vile al Capo dello Stato, vile perché non può difendersi, non può scendere sullo stesso piano, per esempio, di Vittorio Feltri, de "il Giornale", del suo persecutore personale e killer parlamentare Giulio Maceratini, rautiano rinnegato, passato armi e bagagli al servizio di Fini, della sua politica reazionaria, maccartista, antipopolare, classista.

Giano Accame, che è un noto «buonista», passa quindi ad indicare le radici della presunta «socialità» di Alleanza Nazionale. Dice: «Si tratta di una sensibilità ragionevolmente ereditata dal Movimento Sociale Italiano, che nel primo documento programmatico in dieci punti all'atto della costituzione (26 dicembre 1946) aveva dedicato i quattro punti finali ai diritti dei lavoratori, ai problemi dell'occupazione, della casa, alla funzione sociale della proprietà, alla dignità della presenza sindacale in un quadro di collaborazione e partecipazione, alla programmazione economica ed al Mezzogiorno». Se è per questo, nel MSI delle catacombe, nella Fiamma Tricolore primigenia c'era anche di più, molto di più. Per esempio: la socializzazione, lo Stato Nazionale del Lavoro, la pacificazione nazionale -quella vera, non quella del '94 con la FININVEST, con i rottami del moderatismo democristiano, con qualche debilitato dagli ininterrotti salassi elettorali-, lo sganciamento dell'Italia dall'egemonismo americano.

Ma il nostro Giano sa benissimo che quelle enunciazioni erano presidiate da ben altri personaggi, dotati di una credibilità, di una onestà intellettuale, di una dedizione alla causa non di una generica, qualunque ed astratta Italia, bensì all'Italia del Popolo, come la chiamava Mazzini, quel Mazzini la cui effigie illustrava i pubblici uffici e le affrancature postali della Repubblica Sociale Italiana.

L'Autore sembra accorgersi, ad un certo punto, delle falle aperte nel suo tessuto argomentativo dalla realtà storica, tanto vero che, nel chiosare una datatissimo documento missino non si perita di così esprimersi: «Sono affermazioni che appartengono alla cultura fondante della "destra sociale", rinnovate (anche se talvolta stemperate su pressione della Confindustria, negli anni in cui faceva ancora giungere a destra dei finanziamenti) da un congresso all'altro, da una campagna elettorale all'altra, per quasi mezzo secolo. Oggetto, bisogna riconoscerlo, più di ripetizione rituale, velleitaria, che d'effettiva battaglia politica, in una fase storica in cui le tesi partecipative non parevano realisticamente proponibili, ma su cui si sono formate –credendoci- generazioni di militanti e dirigenti missini».

C'è qualcosa che non funziona in questa analisi «buonista» di Accame. La «cultura fondante» della presunta «destra sociale» venne a sua volta fondata quando ai suoi albori il MSI si autodefiniva «sinistra nazionale e sociale», un battesimo reso possibile dalla presenza fra i padrini del neonato partito della Fiamma Tricolore di personalità dalla inequivoca fede rivoluzionaria che rispondevano agli onoratissimi nome di Giorgio Pini, Manlio Sargenti, Ugo Clavenzani, Giuseppe Landi, Bruno Ricci, Beppe Niccolai, etc. etc. Ma dalla segreteria De Marsanich -preparatrice del graduale ma irreversibile, forte, spostamento sulla destra più estrema, filo-capitalistica, borghese, filo-americana, antipopolare, antisinistra viscerale- in poi la musica è cambiata, sia che a tenere la bacchetta in mano ci fosse il para-confindustriale Arturo Michelini, brutalmente ma lealmente reazionario, sia che l'orchestrazione se la fosse accaparrata il più «letterario», ambiguo, complesso Almirante, per un certo tempo in fama di «sinistro» per quindi gettare la maschera dopo una buona tornata elettorale con un fondo sul "Secolo d'Italia" icasticamente intitolato «È nata la destra» e relativa nuova denominazione del partito «Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale».

Il motivo per cui l'incauto creatore della segreteria Fini volle differenziarsi dal sincerismo micheliniano impastando la sua linea conservatrice con richiami appassionati a quanto di meglio, di accettabile aveva espresso la Repubblica Sociale Italiana -che tutto fu meno che di destra- è un segreto che il vecchio leader si è portato nella tomba; un mistero su cui, forse, solo la Signora Assunta Almirante potrebbe gettare adeguata luce. Comunque, se egli veramente intendeva tutelare certi valori sociali, popolari, sindacali, perfino rivoluzionari non solo della RSI ma del defeliciano «fascismo movimento» del Ventennio, della stessa contraddittoria, variegata esperienza mussoliniana non poteva comportarsi peggio nella scelta del suo successore. E in tal caso il Fini non avrebbe tradito solo Mussolini e il fascismo, ma anche il suo maestro, protettore e benefattore.

Se invece Giorgio Almirante avesse inteso con il suo doppio binario prima e con il varo al congresso di Sorrento poi della leadership del «piccolo Grandi» infliggere il colpo di grazia alla primigenia natura popolare, sociale, sindacale, socializzatrice alla Fiamma Tricolore onde farne esaustivamente e una volta per tutte un elemento della complessiva, complessa strategia reazionaria diretta a liquidare o, quanto meno, restringere l'area di influenza della sinistra sociale con conseguente, strutturale dilatazione della egemonia confindustriale, a noi non resterebbe che aggravare il giudizio critico sulla sua opera e, al contempo, dare atto a Gianfranco Fini di non essere altro che un buon esecutore testamentario.

 

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Giano Accame nel disperato tentativo di accreditare il Giovin Signore quale creatore e leader dell'improbabilissima «destra sociale» ci ricorda che «al congresso di Fiuggi (gennaio 1995) una mozione che ampliava e precisava il tema della partecipazione, già incluso in versione più stringata del documento base della discussione, è stata approvata a stragrande maggioranza su proposta del sindacalista della CISNaL Stefano Cetica, segretario nazionale della CISNaL-Credito».

Vabbé. Ma adesso perché il nostro Giano non va dal volenteroso e un tantinello ingenuo signor Cetica per chiedergli quale fine ha fatto la sua mozione partecipazionista a due anni dalla sua performance al congresso dei Fiuggiaschi? A noi le chiacchiere scritte o orali di qualche piccolo demagogo non interessano né punto né poco, noi stiamo ai fatti. E l'ultimo di questi fatti ci dice che il già «sindacalista» Gasparri, attuale «colonnello» del «duceaddio» Gianfranco Fininvest non solo si è pubblicamente espresso in chiave di solidarietà con il presidente della Confindustria dott. Fossa nella polemica che lo oppone al governo che cerca di spostare, per quel che gli è concretamente possibile con i tempi che corrono, il grosso dei pesi della «Finanziaria» dai ceti popolari a quelli capitalistici, ma, insieme a tutto il suo partito -ivi compresi, dunque, i «sociali» della rivista "Area"- non ha ritenuto di dover obbiettare alcunché all'Azzurro Cavaliere di Arcore il quale, sempre nel quadro della appassionata battaglia che conduce in favore dei cosiddetti «ceti medi produttivi» (???), ha presentato il sedicente Polo delle Libertà, tutto il Polo dunque anche AN, come il paladino di codesti ceti.

Con tanti distinti saluti alla «destra sociale», che, se veramente «sociale» fosse, dovrebbe preoccuparsi anzitutto e soprattutto degli strati popolari della Nazione, dei meno favoriti, degli emarginati, delle vecchie e nuove povertà, degli operai, dei contadini, della piccola borghesia, degli omicidi bianchi, delle vittime della depressione sociale, degli attacchi e delle insidie al potere sindacale, delle condizioni esistenziali nelle fabbriche. Ma davvero Giano Accame ritiene che un individuo nato berlusconiano come Gianfranco Fini possa non diciamo avere a cuore ma occuparsi di queste cose? Suvvia...

L'Autore del volume di cui ci veniamo occupando non è né uno sciocco, né un insensibile, né un cinico, né un reazionario, diversamente da coloro di cui temerariamente ritiene di dover sposare la causa. Così, voce dal sen fuggita, si lascia andare ad affermazioni che ci spiacerebbe se dovessero risultargli fatali relativamente al rapporto culturale-politico che inspiegabilmente intrattiene con un partito non di superatori, bensì di rinnegati.

Eccone qualcuna: «La destra, per il suo realismo, appare più rassegnata alle sofferenze degli strati più bassi della società: si arrende alle difficoltà oggettive, che ci sono, nel risolvere i problemi, a cominciare dalla disoccupazione di massa, accettata con pigro fatalismo dai ceti conservatori meno afflitti da questo problema; la sinistra, per il suo utopismo, è invece più portata a sognare, ad indignarsi di fronte alle ingiustizie sociali, voler cambiare le cose».

Un bel branerello, davvero, anche se con qualche deficit informativo, con qualche forzatura interpretativa. La destra, infatti, non è «realista», ma disattenta, indifferente, cinica, interessante, dominata dallo spirito di classe e di casta. E la sinistra, a sua volta, lungi dall' eccedere in utopismo, già da un bel pezzo mostra la preoccupante tendenza a sbarazzarsi dell'Utopia, della concretissima Utopia, benzina indispensabile per consentire alla macchina della trasformazione della società -si tratti di riforme o di rivoluzione poco conta- di procedere lungo le vie della storia o i viottoli della politica con la indispensabile speditezza. Comunque, alla luce di queste asseverazioni accamiane il vero problema non è quello di fare impossibili iniezioni di socialità alla destra, bensì quello di indurre la sinistra a recuperare appieno la sua tradizionale carica di energia utopica.

 

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Altra voce dal sen fuggita: «Tuttavia nella crisi di significato di vecchie etichette e nuovi valori si inserisce anche questo nuovo paradosso: che la destra più si apre alla comprensione dei problemi sociali e più viene considerata "estrema", perché sospettata di fascismo; mentre passa per "pulita" e "moderata" una destra sporca di egoismo classista, quando la prevalente ispirazione liberalcapitalista la pone al servizio di un individualismo darwiniano, dei grandi interessi e dei ceti privilegiati, che da un lato rifiutano i loro contributi di spesa allo Stato sociale e dall'altra cercano di guadagnarci dirottando verso le assicurazioni e le cliniche private i flussi contributivi e fiscali per la sanità e la previdenza».

Siamo grati ad Accame per averci regalato queste parole. Gli è che mai requisitoria contro il Polo fu più efficace -per stringatezza, icasticità, limpidezza- di questa che sgorga da poche e nude righe di prosa accamiana. Una considerazione però si impone: nel momento in cui la destra si fa «sociale» automaticamente si estingue come destra.

Valgano alcuni esempi: quello del gollismo, anzitutto. Dopo il ritorno vittorioso in Francia nel '44, De Gaulle pose mano ad una serie di nazionalizzazioni (della «Renault», ad esempio) e di altre riforme immancabilmente ed immediatamente destinate a togliergli di dosso l'etichetta di destra. Oggi in Oltrecenisio la destra è Le Pen non Chirac, anche se il suo partito esprime l'anima più moderata del gollismo e, a ben vedere, è più prossimo a Pompidou che a Charles De Gaulle. Cosa, del resto, inevitabile, visto che l'attuale presidente francese fu a suo tempo un brillante esemplare della scuderia pompidouiana.

E il Mussolini della RSI -Stato costruito sulle ceneri della Diarchia, sui rottami del compromesso fra la democrazia sansepolcrista-diciannovista e l'establishment più tradizionale conservatore- fu forse il promotore di una «destra sociale»? No, caro Accame, quel Mussolini definiva il riformismo abito che gli stava stretto e si pronunciava per il superamento definitivo del sistema capitalistico. Mussolini una volta dato soluzione di continuità al rapporto organico con gli ambienti conservatori non esitò un attimo a trasferirsi nell'area della rivoluzione.

Molto più recentemente e in dimensioni storicamente più modeste un altro specimen del genere. Nell'89 esaurita la lunga vicenda della segreteria Almirante ecco, in campo al congresso missino di Sorrento, l'un contro l'altro armati, il pupillo del leader uscente Fini e Pino Rauti. Quest'ultimo ha ormai abbracciato la causa sociale e popolare fino in fondo. Conseguenza? Non ritiene di doversi qualificare uomo di destra e così costruisce i documenti congressuali della sua corrente sulla affermazione della esigenza di cassare una volta per tutte dal partito della Fiamma Tricolore il referente destrorso. Giustamente, ritiene che i termini «destra» e «sociale» siano assolutamente incomponibili. Cosa di cui il suo rivale di ieri, di oggi, di domani, di sempre, Gianfranco Fini, sembra essere anche lui persuaso, tanto vero che, da buon reazionario, non soltanto ha inventato una denominazione depurata della parola «sociale», ma ha irriso sprezzantemente ai vari vagheggiatori della «destra sociale», a cominciare dai creduloni della rivista "Area".

Possibile mai che solo il nostro caro amico Giano Accame -uomo dalle non comuni qualità intellettuali- ritenga coniugabili il diavolo e l'acqua santa? La nostra analisi dell'importante saggio oggetto del presente scritto è ben lungi dall'essere conclusa. La riprenderemo nel prossimo numero.

Enrico Landolfi

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