«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno V - n° 7 - 31 Dicembre 1996

 

Sul convegno del 9 novembre 1996; rischi, contenuti e strategie

Le condizioni dell'identità
 

Una rivista come "Tabularasa" è viva proprio perché fonda la sua presenza sull'incontro ideale ma anche concreto di chi vi si riconosce, sia costui redattore o lettore. Entrambi procedono nella strada della discussione, dell'approfondimento, della ricerca non imbalsamata delle proprie idee, dei propri punti cardinali, delle coordinate di riferimento che ci possono –soli- rendere Comunità.

È su questo punto focale che ci si deve confrontare.

È sulla realtà comunitaria -politicamente declinabile in forme che ci piacerebbe scaturissero chiare- che la nostra attenzione riprende a muoversi e a compiere i passi ulteriori della sintesi.

Perché ciò che conta è che non siamo partiti con un itinerario preconfezionato, con i giochi fatti, con le conclusioni già scontate e pianificate. È un segnale -penso si possa dire- di intelligenza, di libertà, ed anche di sofferta dignità. Perché spesso il dibattere porta alle divisioni, a fratture che forse si potrebbe evitare di personalizzare ma che divengono, talora, insormontabili. È giusto avviarci a discutere, dobbiamo aggiungerlo, non solo di noi stessi ma dell'area entro la quale muoviamo i nostri passi dottrinali e culturali: discutere sui confini, innanzi tutto, di quest'area e se essa debba averne.

Sappiamo benissimo che esistono dei punti fermi oltre i quali non vogliamo assolutamente andare. La linea di opposizione ai programmi, al clima ideologico ed alle realizzazioni fattuali del credo liberale è decisa. Il nostro è un no alla società liberale, è un no al sistema tardo-capitalistico ed alle discrepanze ed alle fratture che esso sta producendo nella società italiana. Su "Mondoperaio" nel 1989, sulla scorta di un saggio di Pellicani, comparvero una serie di riflessioni di un certo spessore, sulle quali allora non si lavorò per tutto ciò che venne dall'indebolimento -dovuto a riflessi di natura politico-istituzionale- di quella corrente di studi e di critiche.

In questa sede non vi è lo spazio per discutere sulla nascita del capitalismo; e sarebbe importante, per capirne lo sviluppo.

Possiamo dire che quanto oggi si esprime attraverso il capitalismo, ed il capitalismo stesso, ci trova attestati su una distanza incolmabile. Dell'attuale fase congiunturale dell'economia possiamo sottolineare alcuni punti cruciali:

1 - tendenza alla globalizzazione delle reti commerciali, sua dislocazione degli apparati produttivi e delle reti dei mercati, da un punto di vista della topografia mondiale del fenomeno;

2 - espansione esasperata e prometeica della Tecnica, della tecnica come «forza» che permea l'intero contesto umano delle relazioni e delle identità, della tecnica come ordine di potenza che accumula velocità nel circuito produttivo e sociale;

3 - spoliticizzazione dell'uomo occidentale. La politica diviene non più governo, non più direzione, ma si nasconde e decade nel sottostante livello dell''amministrazione.

Questi tre aspetti coessenziali dell'economia segnano la cosiddetta società post-moderna. Una società che, come denunciava Guy Debord, gioca sullo spettacolo. Lo spettacolo maschera l'eclissi delle identità, delle nazionalità, delle lingue e delle culture. Le moltiplica e le spegne. Lo spettacolo si sostituisce ai valori, e l'effimero pratica una sorta di eutanasia della Storia. Nella società post-moderna si infrange e si stempera, si trasforma, il progetto della modernità. Il post-moderno esalta una pluralità barocca di gerghi, di voci, di opzioni: tutte insieme, in un panorama nichilistico. È il post-moderno analizzato dal suo osservatore, in principio più acuto -poi ne sono seguiti altri- Jean-Fran9ois Lyotard.

Il nodo sta nell'ottimizzazione del rapporto tra impulso e prodotto, tra ciò che entra nel sistema e ciò che ne scaturisce. Il capitalismo mantiene un rapporto che si autoprogramma, che assorbe anche il suo contrario, lo metabolizza, lo spende in una sequenza linguistica e scenica che è più veloce, e non ha più una direzione.

Sì, in questo stadio temporale il capitalismo sembra non avere più una direzione. Liberismo e liberalismo erano tutt'uno, il secolo scorso. Nel mentre sono passate due guerre mondiali ed un intero secolo. Dietro la spirale produttivistica, sotto le pieghe della società post-industriale non c'è più uno spirito umanitario, filantropico, borghese. Non c'è più, quasi, una classe borghese. Non c'è più una razza borghese, come Evola e prima Nietzsche l'hanno chiamata. C'è un Quarto Stato, od una massa di senza-Stato: possono essere miliardari o nullatenenti, non importa: essi formano la folla del Terzo Millennio, senza specificità anche solo di costume: l'unica variante è il denaro. È una condizione che si nutre di Possibilità Economiche, di partecipazione delirante al Mercato, al Benessere. Senza retaggi, senza coscienza.

Ci sono sociologi che esaltano questa caduta delle identità: c'è chi parla della «fuga verso la libertà: una libertà materiale e spaziale, fondata sul consumo e la mobilità», come M. Ilardi. In autori come questi lo Stato liberale, che riconoscono come stato espropriato, si deve finire di consumare di fronte alla società che viene. In essi c'è l'auspicio del nomadismo. Aldo Bonomi scrive compiaciuto nel suo "Il trionfo della moltitudine" che «l'immigrato svela, con il solo fatto di esistere, la crisi del modello detta società globale». Ma noi diciamo, invece, che l'immigrato definisce il sintomo perfetto e scontato dello sviluppo della società globale. L'immigrato, il senza-patria, si assimila specularmente al senza-stato.

La crisi della rappresentanza, della sovranità non è la crisi della società capitalistica, non è la crisi del sistema dei consumi. La crisi della rappresentanza è sì crisi anche ontologica del ceto politico delle democrazie del dopoguerra, ma esattamente per questo è il segno dell'avanzamento di un potere non più istituzionale ma che comunque conta, comanda.

 

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Uno dei temi che vale la pena di approfondire è la lotta per le identità, la riscoperta delle identità, e -mi sia permessa la parola- la «gestione» dei ruoli antagonisti. Perché non basta vivere dialetticamente l'antitesi al sistema secolarizzato della modernità; non basta enunciarsi come l'alternativa: l'identità culturale e politica deve diventare antropologica.

Il Fascismo ed il Nazionalsocialismo, che pure nacquero in una fase di grandi trasformazioni, dove il progresso subiva una forte accelerazione, potevano trovare ancora una materia viva: il nichilismo, anche non più solo latente, era frenato da energie popolari, rurali, periferiche. Era frenato dalle autenticità e dalle culture nazionali, dalla lingua. Già oggi, per noi, il richiamo ad una tradizione nazional-popolare e ad una organicità comunitaria -mi viene in mente Signorelli- è più problematico. Rischia di diventare una specie di archeologia intellettuale. Ciò che prima era istintivo, pre-razionale, oggi deve fare i conti con i nuovi linguaggi, le destrutturazioni, le parole... Una cosa del genere, chi l'ha letto lo ricorderà, ce la fa presente Tarmo Kunnas ne "La tentazione fascista": tanto spesso i teorici, già tra gli Anni Trenta e Quaranta, del vitalismo e dell'anti-intellettualismo erano invece dei super-intellettuali, e sofisticati; da D'Annunzio a Marinetti, Drieu La Rochelle o De Chateaubriant. Loro percepirono qualcosa di più vivo, ma erano l'avanguardia e vedevano lontano. Poi venne la guerra, immane teatro di tragedie e passioni reali.

Vorrei puntualizzare un dato di fondo. Il Fascismo non è stato un movimento antimoderno. Ed Evola ed il gruppo de "La Torre" pensavano infatti ad un super-Fascismo in relazione alla lotta epocale alla modernità. Non fu antimoderno come lo volevano certi reazionari, certi integralisti monarchici e cattolici, certi apologeti dell'Italia barbara, che poi sono passati dalle parti di Togliatti.

Il Fascismo, Mussolini, si innestarono nella modernità, vissero l'immanenza e l'immediatezza della modernità, e cercarono di non smarrire un legame intimo tra il sangue ed il tempo, tra l'anima e la storia. Sotto forme diverse questo continua a spettarci e a rivelarsi come l'impegno di prima grandezza. La riflessione che "Tabularasa" propone può essere un buon terreno nel quale affondare le radici della volontà, della chiarezza e dell'orgoglio.

Roberto Platania

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