«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 1 - 15 Febbraio 1997

 

Ancora sul saggio di Accame dedicato alla «destra sociale»

AN è il reparto italiano della grande armata plutocratica
del mondialismo privatizzatore
 

Da una intervista rilasciata dal duceaddio Gianfranco Fini al quotidiano torinese "La Stampa": «Non è un mistero che il Polo ritiene di poter esercitare un ruolo sul tema delle privatizzazioni. È un tema presente nei nostri programmi e i nostri elettori non ci avrebbero capito se avessimo detto a Prodi: "No, non se ne parla"». Come ognun vede, il titolo con cui incoronammo, due anni or sono, uno dei pezzi dedicati al ribaltazzo cosiddetto «antifascista» organizzato dal Giovin Signore di Via della Scrofa, ossia: «E Fini disse: Italia, Repubblica, Privatizzazione» -titolo ovviamente ironico, parodizzante il famoso motto della Repubblica Sociale Italiana «Italia, Repubblica, Socializzazione»- non era affatto una provocazione nel senso volgare del termine, come da qualcuno rimproverateci, ma una previsione purtroppo azzeccatissima. Non si stringe, infatti, un'alleanza organica con Berlusconi senza cadere nel più piatto e deprimente berlusconismo. Non a caso un vecchio adagio popolare testualmente recita: «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare». E un altro, di rincalzo: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei».

Certo, l'ex pupillo di Giorgio Almirante -ma, aldilà, il fu segretario che si illuse di coniugare la cultura di destra con quella dell'ala più avanzata della RSI è ancora disposto a riconoscerlo come tale?- cerca di coprire il suo reaganismo/tatcherismo con qualche frase che vorrebbe essere di copertura alla sua sempiterna vocazione reazionaria e così aggiunge a quanto sopra riferito: «Tutto sta a vedere come effettivamente il governo intende procedere, perché se ricalca la strategia che c'era nel decreto bocciato, il Polo continuerà a votare contro: quelle più che privatizzazioni sono dismissioni». Trattasi più che altro di un gioco di parole, in assenza di adeguate delucidazioni relative alla differenza intercorrente, sotto il profilo dei contenuti stricto sensu, fra «privatizzazioni» e «dismissioni». Un alibi, insomma, per darsi aria da «destra sociale» e magari per gratificare il nostro amico Giano Accame con qualche soddisfazioncella intellettuale dopo che egli ha fatto gemere sotto i torchi della Editrice Settimo Sigillo di Roma stampatrice di un suo volume recante, appunto, il titolo «La Destra Sociale».

 

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Qualcuno si chiederà come mai proprio noi ce la prendiamo con il privatizzatore Gianfranco Fini e non con quel simulacro di Sinistra uscito dalle urne dello scorso anno che delle privatizzazioni -ossia dello sviluppo incontrollato e incontrollabile del capitalismo interno e internazionale, della sua egemonia, del suo potere, del suo dominio- sembra quasi aver fatto la sua bandiera. Ma si dice, a costui, o a costoro, che noi si resta indifferenti a questo vero e proprio suicidio ideologico, politico, morale della Sinistra? O, tanto per essere ancor più chiari, del Partito Democratico della Sinistra e relativi cespugli e cespuglietti? Lo scrivente pur riconoscendosi nel complessivo schieramento di sinistra, non è un emissario del PDS. E non lo è neppure di Rifondazione Comunista, dalla quale lo dividono parecchie cose -per esempio la valutazione storica faziosa, «azionista», isterica di quanto avvenuto in Italia nel '43-'45-, ma di sicuro non la meritoria posizione assunta contro le privatizzazioni in una chiave anche «tricolore», cioè sotto il profilo della tutela della indipendenza nazionale minacciata dall'accaparramento di fondamentali settori della struttura economica pubblica da parte di monopoli, oligopoli, multinazionali nella disponibilità di fondamentali paesi capitalistici. Ed è onesto dare atto al partito di Bertinotti di avere assunto una posizione relativamente «moderata» -nel senso della moderazione, intendiamo, non del moderatismo-, ossia escludente dall'azione privatizzatrice solo settori strategici.

Gli esponenti rifondazionisti, il quotidiano ufficiale "Liberazione" sono stati chiarissimi su ciò. Il quotidiano pidiessino "l'Unità è stato moderatamente critico. La stampa vicina al «centro» dell'Ulivo talvolta ha esagerato nelle requisitorie anti-rifondazioniste. La stampa legata al cosiddetto "Polo delle Libertà", a cominciare, manco a dirlo, da "Il Giornale" di Feltri, si è scatenata in un vero e proprio linciaggio contro tutti coloro che non si entusiasmano all'idea di vendere -o meglio svendere- l'industria pubblica ai grandi gruppi capitalistici italiani e internazionali. Va da sé che a questa crociata lazzaronesca non ha mancato di associarsi un quotidiano come il "Secolo d'Italia", organo degli autori di una delle massime operazioni trasformistiche e opportunistiche di un millennio di storia patria. A sua volta, tutta la gente che ritiene di doversi occupare, o soltanto parlare, di politica con un minimo di serietà non ha potuto fare a meno di riconoscere la ridicolaggine di chi si indigna del riluttare di una formazione politica comunista a fare la politica che gli ordina la destra o un centro ad essa speculare.

 

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Ma è ormai gran tempo di venire all'interessante saggio di Giano Accame dedicato a quell'autentico ectoplasma della cosiddetta «destra sociale». Il nostro caro ed eccellente amico non si adonterà, osiamo credere, se definiamo l'avvio del capitolo IV dedicato al tema delle privatizzazioni un minuscolo assaggio di berlusconismo puro sangue. Le prime parole sono promettenti, ma poi... Insomma, vediamo: «Chiunque non sia perfettamente d'accordo, plaudente e allineato al modo spesso truffaldino con cui stanno attuando le privatizzazioni viene subito diffamato come l'ultimo sostegno dei boiardi di Stato. In realtà, posto il principio che la proprietà (e la gestione) di imprese può essere anche pubblica, questa comunque va considerata sussidiaria, cioè integrativa di eventuali carenze dei privati, naturali protagonisti dell'attività d'impresa. Non faccia lo Stato quel che possono fare altrettanto bene, se non meglio (ma non sempre) i cittadini. Ma quando giustamente si invoca il ridimensionamento delle bardature pubbliche, più società e meno Stato, per una sempre maggiore vitalizzazione delle energie di base, occorre anche vedere quali forze si preparino in concreto a subentrare all'iniziativa pubblica».

Diciamo la verità: questo non è il miglior Accame. C'è in esso un certo gusto per l'inciucio intellettuale che talvolta affligge la limpidezza dell'analisi. E poi infastidiscono certi limiti ideologici, artificiosi perché non corrispondenti al netto e retto sentire dell'Autore, che ben conosciamo e di cui normalmente apprezziamo non soltanto la vastità della preparazione culturale ma la passione per le idee generali. C'è da credere che, con ogni probabilità, egli cerchi di mettere d'accordo il diavolo con l'acquasanta nel disperato tentativo di produrre sintesi superiori fatalmente, però, destinate a rivelarsi, malgrado ogni buona intenzione, inciuci, appunto. Anzitutto non ci piace quel considerare «sussidiaria», «integrativa», «eventuale», riparatrice di «carenze», l'impresa pubblica. Non ci aggrada e, di più, ci meraviglia in un uomo che ama vantarsi di essere fascista, anzi mussoliniano senza macchia e senza paura.

Ma, signor mio, non appartiene forse alla vulgata mussoliniana l'apoftegma «Nulla contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla senza lo Stato»? E poi, suvvia Giano, quei grandi gruppi capitalistici disinvoltamente spacciati per «cittadini» che farebbero «altrettanto bene, se non meglio», ciò che ha fatto, fa, farebbe lo Stato! Ma lo Stato è necessariamente la Prima Repubblica, né risulta che questa sempre, incessantemente, in ogni caso, in tutti i campi dell'economia, quotidie, abbia generato dei mostri. Non esageriamo, suvvia.

Ma in questo volume molto ben curato nei suoi dati estetici dalla Editrice Settimo Sigillo di Roma, non c'è soltanto l'Accame che di tanto in tanto ci fa arrabbiare. Per carità! C'è pure l'Accame dalla forte caratura analitica, dalla brillante consequenziarietà espositiva. Non prima, però, di aver fatto un altro capitombolo, condensato in queste parole made in Arcore: «Ma quando giustamente si invoca il ridimensionamento delle bardature pubbliche, più società meno Stato (una autentica truffa dialettica, codesta, giacché la vera formulazione dovrebbe essere la seguente: più interessi plutocratici, meno società e spirito pubblico, N.d.R.), per una sempre maggiore vitalizzazione delle energie di base, occorre anche vedere quali forze si preparino in concreto a subentrare all'iniziativa pubblica».

Ed eccoci così giunti all'Accame migliore, quello che piace a noi e a tanti come noi, lasso per le spossanti mediazioni ideologiche fra ciò che egli (errando) considera il reale e quanto ritiene essere l'ideale. E, pertanto, deciso a parlare fuori dai denti, come usa dire alla popolaresca. Vediamo: «Perché se si tratta di passare altri poteri agli oligopoli, anche stranieri, che già stanno pesando negli equilibri sociali più delle nostre istituzioni democratiche, la stessa società civile, degli uomini liberi, non ne ricava certo un vantaggio. S'impone pertanto un'attenta vigilanza sociale e nazionale sulle spinte ideologiche alle privatizzazioni, mosse dall'estero, dai mercati finanziari, e sui nuovi assetti di potere, sempre meno controllabili che ne stanno derivando».

Perfetto. Complimenti vivissimi a Giano per quest'impeccabile monitoraggio sulla enorme, paurosa, incombente offensiva capitalistica a livello non solo italiano ma planetario da alcuni anni in pieno svolgimento, dalle impressionanti connotazioni di inarrestabilità. La componente italiana della Grande Armata Plutocratica -apparecchiata per conseguire quella «fine della Storia» di cui il Fukuyama si è fatto teorizzatore e mallevadore- si chiama astutamente «Polo delle Libertà», nella quale, tramite quella autentica buffonata del giuramento «antifascista» di Fiuggi, è stato immesso il partito di Gianfranco Fininvest con un ruolo di truppe di colore, passate con armi (poche) e bagagli (molti) nel campo del Telecavaliere.

 

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II cervello accamiano entra in funzione, e da par suo, per un'analisi del fenomeno privatizzatore in dimensione planetaria, sconvolgente e coinvolgente chiunque sia cerebralmente ed emotivamente in grado di rendersi conto delle immani proporzioni assunte dalla strategia da «soluzione finale» posta in essere dalle massime centrali plutocratiche. Ecco: «... oggi c'è una pressione ideologica mondiale per le privatizzazioni, seguendo una tendenza pilotata all'impoverimento degli Stati ed all'arricchimento dei privati: e, beninteso, non privati qualsiasi, ma detentori dei poteri finanziari. Unici veri «cittadini del mondo», che per sfuggire sempre meglio alle capacità di controllo degli Stati puntano a depotenziarli, ad esautorarli. Creando problemi di struttura nazionale, ancor prima che sociale».

Con notevole coraggio politico ora l'Autore correda immediatamente questo brano con una critica ad Alleanza Nazionale abbastanza puntuale pur se non esente da un certo taglio giustificazionista: «Problemi che sinora Alleanza Nazionale non si è posti -anche perché discendono da fenomeni recenti, non ancora oggetto di approfondite analisi scientifiche- limitandosi a sfiorare quello delle truffe delle svendite a potentati italiani e stranieri, che si stanno compiendo all'insegna delle privatizzazioni. E ce ne è già, per il momento, quanto basta a giustificare il bisogno di vederci chiaro, di non precipitarsi a capofitto in ogni imbroglio. Non difesa dei boiardi, quindi, ma di un patrimonio del popolo italiano, che può essere anche ceduto, ma sapendo a chi ed a quali condizioni».

No, carissimo Giano, le ultime tredici parole di questo pezzo proprio non vanno bene, perché nulla del «patrimonio del popolo italiano» dovrebbe essere ceduto. A nessuno e a nessuna condizione. Tutto il resto è pregevole, anzi perfetto. E lo sarebbe anche di più se evitassi di eleggere a referente del tuo discorso, qui e altrove, la cosiddetta Alleanza Nazionale -ossia il partito dei Fiuggiaschi, fatto non di superatori bensì di rinnegati- per l'elementare considerazione che essa è sorta nel gennaio del '95 proprio in vista della costituzione del comparto italico della Grande Armata Plutocratica posta in essere per inaugurare il nuovo secolo, anzi il Terzo Millennio, con l'annuncio dell'esaustivo, definitivo, irreversibile trionfo del capitalismo più che mai mondializzato, più che mai identificato con l'egemonia o addirittura il dominio, della massima potenza capitalistica dell'orbe terracqueo. La ria sorte vuole che il compilatore di questa problematica ma interessantissima opera, "La Destra Sociale", subisca un durissimo vulnus proprio mentre noi si è impegnati nell'esame della elaboratissima prosa accamiana. La ferita gli viene inferta su "Il Giornale" da un peraltro incolpevole Pietrangelo Buttafuoco con un articolo puramente descrittivo corredato da un titolo e da un occhiello che, di per sé, già rendono edotto il Lettore di cosa si tratta: "Dall'abbandono dello Stato Sociale al sì alle privatizzazioni, nuova metamorfosi della destra - II piano di Fini: AN diventa un partito in stile Thatcher". Ed ecco un piccolo florilegio del reazionarismo finiano: «Eppur si muove, la macchina di Alleanza Nazionale s'è mossa. Oltre Fiuggi nel Polo. Oltre il Polo, a tutt'oggi, verso l'unità del Polo. E c'è anche un gran segreto in Via della Scrofa. Fini sta lavorando a una rivoluzione interna. Una trasformazione di contenuti e idee, non certo uno sfoggio di incarichi e di cariche. Uomini e teste impegnati nella rivisitazione del bagaglio delle proposte per aggiornare la destra alle esigenze della modernità».

Quale sarebbe questa «modernità» verso cui appaiono protesi tutti insieme appassionatamente i Fiuggiaschi di rango, che in nome della «riscoperta del mercato» stanno vendendo al capitalismo indigeno e internazionale l'indipendenza dell'Italia e la sicurezza di vita e di avvenire dei lavoratori italiani? Si tratta di questo: «Abbandono dello Stato sociale, più liberalismo, un chiaro no alla visione centralista dello Stato, un deciso sì alle privatizzazioni, la politica estera rivolta sempre più a Occidente e il recupero delle relazioni con Israele». Tutti questi bei propositi si coaguleranno in una «Fondazione» (definita dal buon Pietrangelo «di modello thatcheriano») e in una conferenza programmatica prevista per aprile. Chissà se nel corso di quella manifestazione verrà venduto o distribuito il saggio di Accame. Tu che ne dici, Giano mio? E che ne dicono redattori, collaboratori, lettori, sostenitori, amici del periodico "Area", roccaforte di ricotta di ex-rautiani e niccolaiani decisisi a seguire Gianfranco Fininvest nella sua squallida avventura trasformistica e reazionaria, gente in parte in buona fede e in parte meno, variopinto coagulo di illusi in cerca di alibi anzitutto verso sé stessi? Alibi inutilissimi, peraltro, perché non c'è un cane disposto a credere che potranno fare la destra sociale con politicanti di provincia come Tatarella o con polli di batteria della politica politicante come il Fini di San Petronio, personaggio la cui doppiezza è tale che nessuno è mai riuscito a capire di chi è veramente tifoso, se della Lazio o del Bologna. Questi existi di "Area" fino ad ora sono riusciti in una sola cosa: farsi utilizzare per ridurre la portata della scissione di Rauti e per colpirlo negli affetti familiari fin dentro le mura domestiche. Sono capaci di fare di più e di meglio con tutti i loro articoli, con tutti i loro convegni? A loro l'«ardua sentenza», a loro l'onere della prova.

 

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Ancora più felice nella esposizione dell'Accame un velocissimo resoconto dei nefasti della pratica privatizzatoria. Vediamo: «Con le grandi banche, l'IMI, parte dell'INA, la siderurgia, il gruppo alimentare pubblico SME, il Nuovo Pignone dell'ENl, le vetrerie SIV dell'EFIM, i cementifici, buona parte del sistema imprenditoriale pubblico se ne è già andata. Venduta o svenduta per una quota non piccola ad acquirenti stranieri». Orbene, tale avvio di suicidio economico è stato spesso e volentieri spiegato da chi di dovere con la necessità di contribuire al ripiano del debito pubblico. Opportunamente lo scrittore batte in breccia questa tesi: «Con un sollievo per il debito pubblico del tutto irrisorio a tutt'oggi (giugno 1996) i proventi delle privatizzazioni si aggirano infatti sui 30mila miliardi, cifra assolutamente incapace di incidere su un debito che oltrepassa i 2milioni di miliardi [...] Oltre tutto, la maggior parte dei S30mila miliardi ricavati dalle privatizzazioni non è andata al Tesoro, ma è servita soltanto ad alleviare i debiti degli enti (soprattutto dell'IRI) che vendevano le imprese. La prospettiva di ridurre drasticamente il debito pubblico con le privatizzazioni si è per ora rivelata una presa in giro [...] Il vero obbiettivo delle privatizzazioni non è tanto quello di far cassa quanto di realizzare una redistribuzione di redditi e di potere: dai poteri pubblici, che almeno in teoria dovrebbero essere democraticamente controllabili, ai grandi potentati privati ove prospettive di controllo popolare sono affidate solo all'introduzione di una normativa, per ora inesistente, sulla partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione».

Accame fa bene a collegare la strategia privatizzatrice all'obiettivo antistatale dell'illanguidimento e restringimento del controllo popolare sui poteri pubblici e della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Un paio di colpi molto seri inferti alla democrazia, dunque. Fa male, invece, a schizofrenicamente mostrarsi di manica larga allorché centra la requisitoria, però rovesciandone gli asserti, sull'«immenso patrimonio immobiliare e sul demanio pubblico».

Ancora male, anzi malissimo, fa quando si appella a Via della Scrofa per -figuriamoci!- sollecitarla nel senso di una terapia contro la tabe iperliberista e privatizzatrice. Dice: «Una forza autenticamente nazionale e sociale dovrebbe impegnarsi quindi nell'applicazione di quei princìpi costituzionali che nelle Prima Repubblica sono rimasti lettera morta; o che la moda iperliberista addirittura tende a cancellare in nome di concezioni schematiche del mercato, che riporterebbero il lavoro italiano indietro di un secolo». Bene: se Giano si aspetta dal tandem Berlusconi-Fini una rettifica del liberismo e l'applicazione dell'art. 46 della Costituzione che prevede la partecipazione dei lavoratori alla direzione del processo produttivo vuol dire che -beato lui!- è ancora uomo capace di sognare!

Figuriamoci, poi, se colui che ha convocalo la conferenza programmatica di aprile al solo ed unico scopo di diventare più berlusconiano di Berlusconi, più feltriano di Feltri, più thatcheriano della Thatcher, più reaganiano di Reagan, più americano degli americani, più maccarthista di MacCarthy è disponibile per una battaglia volta a dare soluzione di continuità al programma di colonizzazione economica del Paese. Però Giano onestamente segnala la necessità di un inesausto, intransigente pugnare con l'obiettivo dell'arginamento della conquista dell'Italia mediante l'acquisto di punti nodali della sua struttura economica.

Lo fa con parole come queste: «Hanno invece accettato di smobilitare questa parte pubblica della nostra economia, che fu protagonista della ricostruzione postbellica e del «miracolo economico» dei primi Anni Sessanta. Ciò sta avvenendo sulla base di una concezione schematica del liberismo, che contraddice la nostra esperienza storica, anche d'epoca liberale. Per affrettare le privatizzazioni perfino a costo di vendere e troppo spesso di svendere agli stranieri rendendo lo Stato complice del processo passivo di colonizzazione economica avviato all'insegna della finanziarizzazione dei grandi gruppi privati, si è detto che l'eccessiva presenza pubblica ci ha resi simili ai paesi del socialismo reale. Enorme sciocchezza e menzogna, perché non c'è paragone possibile ...».

 

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Ottimo anche un rapido spunto contro un'ulteriore invenzione imbroglionesca dei privatizzatori: «Le public company ad azionariato diffuso, vengono ora vantate come superiore modello di democrazia economica germinato dalle privatizzazioni, mentre in realtà segnano soprattutto il passaggio da imprese sottoposte a controllo ministeriale e parlamentare a imprese sottoposte a oligarchie private incontrollabili». Dopo aver sacrosantemente frombolato contro «una concezione ringhiosa, scolastica, intollerante del mercato inteso come un dio crudele a cui sacrificare i lavoratori nell'interesse degli azionisti»; dopo avere adeguatamente e dottamente spiegato come tanti aspetti della linea privatizzatrice si disvelino oppugnativi di princìpi basilari sui quali si fonda la Costituzione della Repubblica; dopo avere incontrovertibilmente asseverato che «sino a che non si attuerà la partecipazione nessun rappresentante del popolo potrà più esigere delle risposte sui comportamenti dei potentati economici che hanno profittato della privatizzazione», l'Autore passa a diffondersi sulle radici e sull'utilizzo anglo-americano della ideologia del mercato.

In proposito, scrive, tra l'altro: «Storicamente, la piena libertà di mercato è stata una rivendicazione britannica, cioè del paese ove è nata la rivoluzione industriale e che intendeva quindi estendere anche in casa d'altri, su delle economie ancora deboli, il vantaggio del primo arrivato. Ma la stessa Gran Bretagna ha sempre ostacolato l'ingresso di concorrenti nell'ambito del suo impero. Per farvisi strada gli Stati Uniti hanno dovuto spingere i processi di decolonizzazione. E sempre le economie deboli, pur senza negare in via di principio quanto sia feconda la libertà degli scambi, si sono difese da quelle più sviluppate con un ragionevole impiego del protezionismo».

Ed ecco alcuni puntuali, pregnanti rilievi su tre questioni: partecipazioni statali, sanità, previdenza: «Con le privatizzazioni si è in parte rinunciato, benché qualche risultato sia stato ottenuto ugualmente, al risanamento delle partecipazioni statali dai guasti che vi ha introdotto la partitocrazia. Se ne sono demotivati i quadri migliori. Lo stesso pericolo si profila nel sistema sanitario e previdenziale. I propositi di dirottamento del sistema sanitario nazionale verso i bacini delle cliniche private e le società di assicurazione rischiano di distogliere energie dalla bonifica delle USL avviandole verso un ulteriore degrado. Mentre il dirottamento della previdenza verso le assicurazioni private presenta pesanti incognite per quanto riguarda la copertura dei rischi d'inflazione, a cui solo un sistema di ripartizione degli oneri tra le generazioni può rimediare; ed aggrava i rischi di pirateria planetaria sul mercato delle valute ...».

Caro Giano, sai benissimo che la privatizzazione della sanità e della previdenza erano parte integrante e importante del programma del sedicente «Polo delle Libertà» alle ultime «politiche». Solo la meritatissima sconfitta dell'Asse Arcore-Marino ha impedito che tale sciagura si verificasse. Ulteriori sciagure si verificherebbero -ma stavolta relative alla tua credibilità di intellettuale e di capofila di una certa cultura che ti ostini a credere e a definire di destra contro ogni evidenza- se non ti decidessi a collegare intuizioni, riflessioni, approfondimenti, elaborazioni che ti fanno onore, a prospettive strategiche omogenee veramente al discorso che, fra alti e bassi, fra momenti di rapporto tra pensiero e azione talvolta molto persuasivi e altre meno, vai portando avanti.

Per dirla tutta e fuori dei denti, alla popolaresca, non si fanno frittate sociali senza rompere le uova reazionarie. Se poi vogliamo buttarla nell'alta cultura mi piace recuperare per te un monito del Mao Tse Tung della rivoluzione culturale: «Occorre sparare sul quartier generale». Ossia sul vertice del partito burocratizzato, staccato dalle masse, cinico, corrotto, destituito di spirito rivoluzionario, corroso dalle logiche di potere. Giano, quando ti deciderai a «sparare sul quartiere generale»? Metaforicamente, s'intende. La sincerità deve essere la caratteristica dell'amicizia. E chi scrive queste note ti è troppo amico per non usare con te il massimo della sincerità. La quale sorregge la seguente affermazione: non siamo certissimi che «sparerai»; e non certo per viltà ma perché troppo condizionato dalla componente «buonista» della tua natura. Inoltre, nel «quartiere generale» che dovresti «bombardare» hai troppi amici.

E allora sai qual'è, ovviamente, il rischio che, in piena buona fede, corri? Quello di venire in evidenza come copertura «di sinistra» a un progetto reazionario. Per carità, stai attento!

Enrico Landolfi

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