«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 1 - 15 Febbraio 1997

 

le riflessioni sui mass-media

Lo sconvolgente caso del «caso Di Pietro»

 

 

Quando può essere vero tutto e il contrario di tutto, si impone uno stato di massima all'erta.

Nacque il caso Di Pietro da una banalissima «bustarella» da quattro soldi, da un sassolino nello stagno lanciato dal pool di Mani Pulite, prevedibilmente destinato al più profondo ed immediato silenzio; ed invece eccone un uragano, sentito e vissuto dai più con incredula sorpresa e compiaciuta meraviglia, ma anche con molta perplessità: possibile che nessuno, prima, sapesse o sospettasse nulla? Il vaso di Pandora appare come un semplice faceto scherzo degli dèi!

Cercherò di attenermi a quanto è stato dato di leggere, udire e vedere dai mass media, senza opinioni personali; comincerò dal fatto che il dott. Di Pietro non è assolutamente uno stupido, non è quasi certamente uno sprovveduto, è molto probabilmente assai furbo. Lui ed i Colleghi del pool si aspettavano le conseguenze derivanti da quella bustarella? In caso affermativo erano gradite o no?

Se sì, è da vedere se, come e quanto dovevano essere sfruttate; se no, allora hanno perso il controllo del cavallo impazzito, e questo può essere accaduto anche se si voleva un certo rumore, ma non tanto sfacelo. Caso, calcolo o volontà?

L'opera dei coraggiosi che tirano avanti il loro lavoro provoca il crollo di un'intera classe politica e imprenditoriale, al cui posto se ne piazza un'altra. Ma questa, nata e preparata nel clima e nell'andazzo corrente, può essere davvero perfettamente esente dalla contaminazione generale? In caso negativo ogni ipotesi di cambiamento è pura utopia. Certo è che in una certa direzione l'azione del pool si è arenata; non c'era materiale, oppure non hanno potuto oppure non hanno voluto? Le indagini invece che hanno travolto la vecchia classe minacciano di far saltare anche la nuova e l'ondata, di cui Di Pietro è divenuto simbolo, continua a montare. L'eroe di ieri, che sgombrava il campo dal vecchio ed era utile, rischia di vanificare gli sforzi del nuovo e diviene sgradito e pericoloso per i molti interessi in gioco.

A questo punto Di Pietro si dimette: stanchezza per il lavoro svolto o delusione per non poterlo portare a compimento o paura delle imprevedibili conseguenze a lungo termine o, infine, «persuasione amichevole» del tipo: se non ti levi d'attorno, ti facciamo fuori; se la pianti, ti diamo un posticino di ministro, chiunque di noi vinca, basta che tu stia a guardare. Che scelta poteva fare in questo caso?

L'opinione pubblica è delusa, si sente tradita, lo disprezza: il solito arrivista di turno. Il tempo di diventare ministro e cominciano gli sgambetti; facile supporre che, se sul seggiolone ce l'hanno messo per farlo tacere, fossero già pronti a costringerlo alla rinuncia «di sua spontanea volontà», come per la toga. Hanno fatto capriole e ce la mettono tutta per distruggerlo, come magistrato, come ministro, come simbolo e come uomo.

E l'ammirazione, mista a commiserazione ritorna. Ma lui, ottimo maestro, possibile che non se lo aspettasse, che non sapesse quanto è facile trovare testimoni, documenti, intercettazioni...? Possibile d'altronde che, se aveva scheletri nell'armadio, non avesse previsto che all'occorrenza gli avrebbero guardato anche sotto le unghie? No, troppo difficile credere a tanta ingenuità, troppo facile fornire su un vassoio d'argento l'esca al nemico; chi ha tanto da temere, non si espone a tanto rumore e malumore!

Il suo pool intanto non si capisce bene se interviene per salvaguardarlo dal danno e dalle beffe o per dare una mano ad affossarlo; ma allora, all'interno del gruppo era egli un vessillo per tutti o l'ombra per la fama di qualcuno? Tutto questo affare, cui prodest!

E siamo ai tempi recenti, nei confronti di Di Pietro si muove niente meno che il meccanismo destinato alla criminalità organizzata, per la quale forse non si è mai visto un simile spiegamento di forze e di mezzi; sembra troppo per un singolo individuo, ma tant'è! Un paio di cose appaiono certe: se non trovano nulla o troppo poco per condannarlo, i responsabili si troveranno sotto una valanga di ridicolo e la domanda sarà: ma in che mani ci troviamo?! Se troveranno di che condannarlo, le nostre istituzioni saranno una volta di più ricoperte di fango, perché la domanda sarà: ma in che mani ci mettono?!

È certo che smascherarlo prima sarebbe stato assai meglio, invece nessuno, proprio nessuno aveva «annusato» nulla! Ed è ugualmente certo che un altro che tenti di ripulire l'Italia, dopo così illuminante esempio, sarà ben difficile che si presenti. Anche perché, nei confronti della magistratura che ha fatto il proprio dovere e svolto il proprio ruolo, è facilissimo e, se del caso, anche assai utile insinuare il dubbio del disegno eversivo, del gioco di potere, della volontà di colpo di stato...

Il cataclisma non da poco, scatenato dalle indagini, ha di sicuro effetti destabilizzanti, e, se anche non voluto in partenza, un certo appetito a qualcuno potrebbe esser venuto mangiando! Allora, qual è l'uovo e qual è la gallina? Ed in fin dei conti la vera colpa è di coloro che hanno ammucchiato la paglia della corruzione, piuttosto che di coloro che, scoprendola, hanno scatenato l'incendio, anche se poi a questo fuoco hanno preso gusto e trovato vantaggi a scaldarcisi.

E poi ecco Di Pietro convocato come parte lesa e come teste, lui ministro (dimissionario), lui magistrato (dimissionario), lui simbolo (verso le dimissioni...?), impacciato, balbettante, intimorito più del miserello dei borsaiuoli, che parla di non potersi difendere, perché gli hanno sequestrato i documenti: ma che scherziamo?

È teste e parte lesa, non imputato! I documenti sarebbero serviti ad accusare altri, e «questi» potrebbero averli sequestrati per farli sparire, per manipolarli o almeno per vedere quanto c'era di sconveniente; di qua e di là dalla cattedra lo stato d'animo è molto diverso, ma tanto palese disagio era per lo sguardo «feroce» del magistrato o per la paura di dir qualcosa che a quelli della «persuasione amichevole» non sarebbe piaciuto?

Nel frattempo per molti, compreso chi poteva inguaiarlo con le proprie deposizioni, non ci sono più neppure gli arresti domiciliari.

Appare chiaro che può essere vero tutto ed il contrario di tutto, il dubbio ed il sospetto sono le sole realtà dominanti, e dove l'imputato diviene accusatore, il reo diviene collaboratore, l'inquirente diviene persecutore ed il giudice inquisito ed imputato.

La situazione è della massima drammaticità; il disorientamento è totale, non c'è più un punto di riferimento, un valore sicuro, più nulla su cui poggiare una improbabile fiducia, nulla di cui alimentare ogni speranza nel futuro ed in una utopistica qualsivoglia via d'uscita.

Renzo Lucchesi

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